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La guerra non elimina il terrorismo e i problemi degli afghani




Dal Manifesto del 17 novembre 2001
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GUERRA AEREA
Benvenuti sulla terra 
FABRIZIO TONELLO 

L' entrata dell'Alleanza del Nord a Kabul, nelle stesse ore in cui George Bush jr. ancora credeva che i mujaheddin aspettassero la sua autorizzazione, mostra tutti i limiti del modo americano di fare la guerra. Lo stile bellico degli Stati Uniti, nell'era post-Vietnam, non cambia: poiché anche piccole perdite, come i 18 morti in Somalia nel 1993, hanno un prezzo politico in termini di consenso che nessun leader americano vuole pagare, il Pentagono deve contare sostanzialmente solo sull'aviazione e, a terra, su alleati locali (l'Uck in Kosovo, i vari gruppi antitalebani in Afghanistan). Questo spiega perché occorra impiegare contro il nemico una potenza di fuoco fuori misura, un overkill che viene poi giustificato in termini morali affermando che si tratta dell'unica via per "raggiungere la pace": l'aviazione ha un'efficacia limitata contro un avversario aggrappato al proprio territorio e deciso a battersi. Nel caso dei talebani ha funzionato, ma la "vittoria" lascia dietro di sé un groviglio di problemi politici assai intricato.

Oggi non si chiama più così, ma la dottrina di distruggere il nemico dall'aria è stata chiamata per molti decenni "bombardamento strategico". Il fatto curioso è che essa ebbe un padre italiano, il generale Giulio Douhet, morto nel 1930 prima di poter vedere le sue teorie messe alla prova nella seconda guerra mondiale. Douhet scrisse nel 1921 un libro intitolato "Il Dominio dell'Aria: Saggio sull'Arte della Guerra Aerea", in cui elaborava due concetti assolutamente rivoluzionari per quei tempi. Primo: il controllo dello spazio aereo si ottiene attraverso bombardamenti massicci e preventivi, e non con i romantici duelli fra biplani come era avvenuto nella prima guerra mondiale. Secondo: il controllo dell'aria porta inevitabilmente alla vittoria finale perché il morale della popolazione sottoposta ai bombardamenti crolla.
Una tesi del genere non poteva che essere accolta con entusiasmo dal paese che aveva una innata riluttanza nel mandare corpi di spedizione all'estero: gli Stati Uniti furono estremamente recalcitranti a entrare sia nella prima che nella seconda guerra mondiale e solo la totale determinazione di Woodrow Wilson prima e di Franklin Roosevelt dopo decise la questione. Se l'attacco giapponese a Pearl Harbour non fosse avvenuto, forse gli Stati uniti non sarebbero mai entrati direttamente in campo contro Hitler. Oggi, benché quella contro il terrorismo si stata dichiarata una "guerra" a tutti gli effetti, si parla di truppe turche e indonesiane per presidiare il territorio.

L'ostilità dell'opinione pubblica a rischiare la vita dei giovani del Missouri o dell'Iowa in una guerra in terre sconosciute si mescola con una passione per la tecnica, l'efficienza, la quantificazione dei dati assai più pronunciata che in Europa. Il grande fisico inglese Freeman Dyson scrisse nel suo libro "Weapons and Hope": "La particolare formazione culturale degli americani li spinge a credere che ogni problema di ordine pratico abbia una risposta. Hanno fiducia nei calcoli e nelle previsioni numeriche. (...) I problemi strategici vengono discussi facendo riferimento al numero di morti provocati da un'esplosione, ai rapporti costi-benefici, al tasso di sopravvivenza". Nel 1945, a tutto questo si aggiungeva la disponibilità di una macchina industriale capace di produrre aerei e bombe in quantità pressoché illimitata e la possibilità di impiegare una gran numero di scienziati, ingegneri, economisti, a calcolare gli effetti dei bombardamenti. Il risultato furono i bombardamenti incendiari su Dresda e Tokyo, in cui perì un numero di persone maggiore che a Hiroshima e Nagasaki. 

Bombardamenti terroristici contro la popolazione civile, con l'obiettivo di farne crollare il morale e costringere i governi tedesco e giapponese alla resa incondizionata (gli strateghi americani come Thomas Schelling non temevano di usare la parola "terrore" in modo neutro, privo di implicazioni morali negative).

La teoria secondo la quale bombardamenti spietati provocano il panico e la rivolta contro il governo, purtroppo non aveva fondamento. L'aviazione americana e inglese l'avevano adottata con entusiasmo per un cocktail di ragioni: una era certamente quella di accaparrarsi una maggior quota di uomini e mezzi rispetto alle armi tradizionali come esercito e marina; un'altra era l'efficacia mostrata dall'uso dell'aviazione nelle guerre coloniali in Somalia, Iraq ed Etiopia negli anni Venti e Trenta. Tuttavia, "sui meccanismi di fatto attraverso i quali le masse avrebbero costretto le élite dirigenti a cambiare la loro condotta della guerra, i teorici e i praticanti del bombardamento strategico erano notevolmente vaghi", ha scritto lo storico inglese Lawrence Freedman.

Fino alla fine della seconda guerra mondiale, le popolazioni tedesca e giapponese rimasero fedeli ai rispettivi governi, o quanto meno impotenti a modificarne la condotta. Hitler non si arrese fino a quando i soldati russi non entrarono materialmente a Berlino, l'imperatore Hiro Hito impose la fine della guerra solo di fronte alla minaccia di ulteriori distruzioni nucleari.

L'impotenza dei bombardamenti nei confronti di una popolazione e di una leadership politicamente motivate a resistere fu definitivamente provata 25 anni dopo, in Vietnam. Malgrado la minuscola nazione asiatica venisse colpita da una quantità di esplosivo superiore a quella usata su tutti i fronti durante la Seconda guerra mondiale, il morale non cedette. Al contrario, proprio dopo i massicci bombardamenti del 1972 gli Stati uniti rimpatriarono le loro truppe e abbandonarono il regime di Saigon al suo destino, che arrivò tre anni più tardi.
Qui è opportuno fare una precisazione per dissipare un mito accuratamente coltivato dai conservatori americani: non è affatto vero che la guerra fu perduta per un crollo del morale dell'opinione pubblica americana, provocato dall'atteggiamento "pacifista" dei mass media. Al contrario, la maggioranza dei cittadini sostenne le truppe fino alla fine e fu invece un crollo nel morale delle truppe a rendere inevitabile il ritiro. I soldati di leva disertavano, si ferivano, cercavano di non combattere e gettavano bombe a mano nelle tende degli ufficiali troppo zelanti, una pratica chiamata frogging. Questa realtà militare sul terreno, assieme ai limiti operativi imposti dall'esistenza di due potenze nucleari come l'Urss e la Cina furono alla base della vittoria vietnamita.

A partire dal 1991 l'Urss non esiste più e questo spiega la relativa facilità con cui Washington ha deciso di usare le armi prima in Iraq, poi in Somalia, Kosovo, Sudan e Afghanistan. Proprio queste operazioni dell'ultimo decennio, tuttavia, mostrano i limiti degli strumenti militari usati: l'Iraq, più volte bombardato con l'esplicito scopo di provocare un colpo di stato, o una rivolta popolare, o una qualche combinazione delle due cose che portasse al rovesciamento di Saddam Hussein, è rimasto nelle mani del dittatore. La guerra contro l'Iraq si è eternizzata, tornando periodicamente a scatenarsi con un pretesto o con l'altro, senza conseguire i suoi obiettivi e provocando invece risentimento e ira in tutto il mondo arabo.

Sui giornali americani si canta vittoria, ma l'ingresso a Kabul delle truppe dell'Alleanza limita severamente le opzioni diplomatiche e militari degli Stati Uniti. Per ora, i taleban hanno scelto la ritirata nei loro feudi, sulle montagne o in Pakistan, dove i territori tribali del Nordest sono sostanzialmente fuori del controllo politico del governo centrale. Quel che è certo, è che esistono alcune migliaia di loro combattenti che non sono stati eliminati, né catturati, e con cui qualsiasi regime a Kabul dovrà fare i conti. Per gli americani, uno dei problemi pi difficili da risolvere potrebbe essere il passaggio dei taleban nei loro santuari in Pakistan: si possono bombardare i paesi alleati? Si possono bombardare paesi che dispongono di armi nucleari?
Poiché l'ovvia risposta è "No", sostanzialmente l'amministrazione Bush non può che fare buon viso a cattivo gioco e sperare che bin Laden non si sia tagliato la barba per trasferirsi in un comodo hotel a 5 stelle a Peshawar, a Gedda o a Dubai. La vittoria di due giorni fa non cancella secoli di storia afgana e la fragilità (etnica e politica) della coalizione che oggi occupa Kabul è evidente. Senza truppe sul terreno, gli Stati uniti possono consigliare, invitare, minacciare, ma non possono riscrivere la costituzione del Paese, come fece il generale MacArthur in Giappone nel 1946. Soprattutto, la "vittoria" di Kabul non elimina il problema del terrorismo contro obiettivi ed interessi americani nel mondo, che era la giustificazione delle operazioni militari.

I governi di Bush e di Blair non pensano affatto di mandare i loro soldati in Afghanistan per un periodo indefinito, per dare la caccia a bin Laden. Questo significa che i problemi politici che hanno portato all'11 settembre rimangono tutti aperti, in particolare le complicità e i sostegni forniti da Arabia Saudita e Pakistan ai taleban e a bin Laden medesimo. Se questi problemi non sono risolti (e non si vede come potrebbero esserlo, visto che in entrambi i paesi le élite al potere sono per gli Stati Uniti intoccabili) la vittoria di Kabul rischia di essere buona solo per il morale del fronte interno. Ce n'era bisogno, ma nulla è stato risolto.



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