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Gli aquiloni di Peshawar



Gli aquiloni di Peshawar

Elettra Deiana

Il burqua è una copertura totale, una sorta di tenda circolare e sigillata
montata sul corpo di una donna. Una fatwa dei Taleban ne rende obbligatorio
l'uso fuori di casa e le donne che non si attengono rigidamente
all'imposizione rischiano pene terribili e infamanti. Il re Zahir Shah, sul
trono dal 1933 al 1973, anno in cui venne deposto da un colpo di Stato di
militari filosovietici, abolì l'obbligo del burqua. E' anche per questa
ragione non secondaria che le attiviste della RAWA (Revolutionary
Association of the Women of Afghanistan) e molte intellettuali afghane
impegnate in esilio nella resistenza contro il regime di Kabul, considerano
positivamente, sia pure tra molti distinguo, il fatto che all'ex re ormai in
età assai avanzata sia dato l'incarico di condurre la fase della transizione
post bellica.
Al di là dell'ingombro e del fastidio che l'obbligo del burqua arreca
all'esistenza quotidiana delle donne, il significato simbolico di questo
abbigliamento è inequivocabile, così denso di suggestioni e riferimenti a
una rappresentazione del mondo dominata da una concezione patriarcale
misogina fino all'annientamento del genere femminile. Cosa che
nell'Afganistan dei Taleban non è soltanto una metafora ma la condizione
materiale in cui è vissuta, e continua a vivere anche sotto le bombe
occidentali, la parte femminile della società afghana. Il burqua visualizza
in modo estremo quella segregazione femminile che, in forme più o meno
accentuate, più o meno misogine e sessuofobiche, ha segnato la storia dei
sistemi sociali di tipo patriarcale. Il confinamento delle donne in spazi
separati, in luoghi domestici e privati, sottratti alla vista esterna, la
rigida divisione degli spazi interni da quelli esterni, del "dentro" e del
"fuori" della vita sociale e dunque la divisione sessuale dei ruoli, il
controllo maschile sui corpi femminili, la riduzione di quei corpi a
macchine fattrici di progenie maschili: a tutto questo allude il burqua. In
Afghanistan le donne sono sempre prigioniere, murate e rese invisibili nelle
loro case, che devono avere le finestre oscurate. Gli uomini che non
provvedono adeguatamente a questo sono puniti. Il burqua porta all'esterno
la prigionia del "dentro", è esso stesso un "dentro" estremo e totale, una
forma di cancellazione simbolica che traumatizza e ferisce l'umanità
femminile. Ma, malgrado tutto, in Afghanistan non l'ha affatto annientata.
Molte donne in tutti questi anni, in condizione di clandestinità nel proprio
Paese e a rischio continuo della propria vita nei campi profughi, sulla
frontiera col Pakistan, hanno costruito reti di resistenza, rapporti di
solidarietà con altre donne, canali di trasmissione di un pensiero critico e
libero, rivolto in particolare alle bambine - il futuro di quel Paese
martoriato. Queste donne rappresentano oggi, sia pure nella indubbia
piccolezza numerica della loro esperienza, una delle parti più vive e
dinamiche della società afghana. In particolare le donne appartenenti al
gruppo politico RAWA, infaticabili attiviste della dignità e della libertà
femminile, impegnate da anni in una durissima resistenza contro il
fondamentalismo islamista e oggi in prima fila nel denunciare i danni
disastrosi che la guerra occidentale produce sul piano materiale e su quello
politico e culturale. In Afghanistan e nell'intera regione. Basti pensare
all'impatto negativo che la guerra degli USA potrà avere su un'intera
generazione di giovani maschi musulmani, in quella e in altre aree del
mondo, sui processi di formazione della loro identità individuale e
collettiva, in società ancora così segnate dalla preminenza del valore
simbolico dell'essere maschi, del virilismo guerriero, della suggestione
identitaria che l'appello islamista alla Jihad può suscitare di fronte a una
guerra così violenta e disastrosa, così egualmente segnata da una speculare
supponenza identitaria.
Ci sono luoghi in cui la globalizzazione produce contraddizioni acute ed
estreme, un intreccio, all'apparenza insensato, tra la potenza tecnologica
insita nell'iper modernità in cui viviamo e l'oscuro, ancestrale potere
patriarcale che si esercita sui corpi delle donne, sulle menti dei
fanciulli, su tutte le più diverse consuetudini sociali.
L'Afghanistan è un luogo veramente estremo, ai confini del mondo. Là le
contraddizioni diventano esse stesse estreme, acuminate come punte di
pugnale e investono brutalmente l'esistenza quotidiana di donne e di uomini.
Anche di uomini, nelle pieghe più segrete, nei desideri più intimi.
L'Afghanistan è abitato non soltanto da donne costrette a diventare
invisibili nel burqua ma anche da uomini che non possono radersi o tagliarsi
la barba e da bambini che non possono giocare con gli aquiloni. Una fatwa
imposta dal regime di Kabul lo vieta e impone la chiusura di tutti i negozi
che vendono aquiloni. Perché volano in alto nel cielo, assecondano e
rappresentano aneliti di libertà, sogni infantili di felicità. E in
Afghanistan non c'è posto per la felicità. Neanche per un'illusione di
racchiusa nel piccolo volo di un aquilone.
I Taleban dominano impugnando da veri guerrieri i kalashnicov d'ordinanza e
ostentano barba e copricapi confezionati secondo la legge islamista.
L'Islam, il Corano, la fede musulmana non hanno molto a che vedere con le
fatwa islamiste di Kabul. Non più di quanto crociate e conversioni forzate
ebbero a che vedere col Vangelo e la fede cristiana. Anche se va ricordata,
ancora una volta, la fulminante critica femminista a tutte le grandi
religioni monoteiste, fondate sulla "parola di Dio", sulla "rivelazione di
Dio agli uomini" e perciò stesso a rischio di suggestioni fondamentaliste.
Esse hanno infatti immanente il rischio della torsione integralista, del
diventare strumento di potere nelle mani di gruppi di uomini che riescono ad
arrogarsi il diritto esclusivo di parlare in nome del loro Dio per fini che
con la fede non hanno niente o hanno poco a che vedere. Il fondamentalismo
islamista è il frutto appunto di un processo di questo tipo, anch'esso però
soprattutto un prodotto della modernizzazione e della globalizzazione. E'
un'ideologia che si impossessa su molti piani della tradizione culturale e
religiosa dell'Islam e la fa diventare un'arma micidiale al servizio di
progetti politici, strategie di egemonia, tattiche di controllo del
territorio di gruppi e élites che mirano a impossessarsi del potere e
competono per il potere. Basti pensare alla vicenda che ha insanguinato
l'Algeria nel decennio che abbiamo alle spalle, ai proclami di guerra santa
che si moltiplicano in Medio Oriente e non solo, alle convulsioni dinastiche
che incombono in molti Paesi arabi.
Foraggiato, alimentato, vezzeggiato dagli USA e dai servizi segreti
occidentali al tempo della guerra fredda con l'URSS e dell'invasione
sovietica dell'Afghanistan, il fondamentalismo islamista ha assunto oggi una
propria autonomia politica e nei padrini di ieri ha individuato i nemici di
oggi, nelle sofferenze planetarie prodotte dal mercato globale la fonte di
legittimazione di tutte le proprie strategie e il camuffamento delle vere
intenzioni che presiedono alle loro azioni terroristiche.
La guerra spietata condotta dagli Stati Uniti e dal codazzo dei loro alleati
contro l'Afganistan, i bombardamenti che uccidono la popolazione inerme e
colpiscono obiettivi civili di fondamentale importanza per la sopravvivenza
di donne e bambini potranno avere ragione del regime dei Taleban, far piazza
pulita degli studenti guerrieri di Kabul, snidare il nemico numero uno
(oggi) degli Stati Uniti, quell' Osama Bin Laden, che i Taleban proteggono e
che ai Taleban ha offerto non pochi sostegni e aiuti di ogni tipo.
Ma tutto ciò non significherà affatto il declino e men che meno la fine del
fondamentalismo islamista, che rischia di diventare o - è già diventato -
l'altra faccia del Nuovo Ordine Mondiale voluto dagli USA e dall'intero
Occidente. Faccia non meno ripugnante e altrettanto pericolosa, un
gigantesco ingombro frapposto ai processi di emancipazione e liberazione
umana, un alibi per misure liberticide che potranno far regredire, in tutto
il mondo, a cominciare da quell'Occidente che se ne fa vanto, ma dimentica
di quante lotte e sofferenze sociali esse siano il frutto, la coscienza e le
conquiste civili.
In quella piccola parte di società afghana che abbiamo incontrato nella
nostra missione in Pakistan, nei campi profughi nella zona di Peshawar, dove
è radicata l'iniziativa di RAWA e di HAWCA (Humanitarian Assistance for the
women and children of Afghanistan), una ong composta in maggioranza da
profughe afghane, la parola e l'agire di molte donne fa ordine. Un ordine
"altro", antitetico a quello imposto dal regime di Kabul, che scaturisce
proprio dall'esistenza di indicibili contraddizioni di genere - tra la parte
femminile e quella maschile dell'ordine sociale - e dalla scelta delle donne
di porsi consapevolmente al centro di esse per cercare di risolverle a
partire da sé e dalla solidarietà col proprio genere. Così nel Paese dove le
donne sono costrette al silenzio più totale - una fatwa proibisce loro di
indossare scarpe con i tacchi perché i Taleban non vogliono udirne il
rumore - la parola di molte donne contro il regime risuona tagliente come
una lama e produce nuovi luoghi mentali, nuovi spazi pratici di libertà e
autonomia. Anche per gli uomini ovviamente, non pochi dei quali
solidarizzano con le donne di RAWA e HAWCA e le aiutano a fondo nella loro
impresa. O le appoggiano, come un mullah aperto al mondo, che è a capo del
campo profughi di Nowshera e che ha permesso alla RAWA la costituzione di
un'intera scuola femminile, contrassegnata, nella sobria povertà dei luoghi
e dei mezzi a disposizione, da una passione femminile per l'apprendimento
che lascia veramente di stucco. Nel loro rischioso aprire piccole scuole
clandestine in case private in Afghanistan, nel battersi nei campi perché le
famiglie permettano alla bambine di studiare, le donne hanno continuato a
trasmettere la lingua, la cultura, la storia del proprio Paese, l'amore per
il proprio Paese. Hanno compiuto opera di civilizzazione delle relazioni
umane e sociali contro gli effetti devastanti della furia fondamentalista.
E' poco ma è già moltissimo, il segno concreto di un altro mondo possibile,
come il movimento no global va dicendo, dove le donne possono lasciare
nell'armadio il burqua e le bambine hanno diritto a essere curate e a
imparare, dove tra i sessi c'è solidarietà, scambio, rispetto. E dove i
bambini e le bambine possono giocare con gli aquiloni. A Peshawar, una sera,
il cielo ne era pieno e dalle terrazze piccole mani ne guidavano il volo.
Allora ho capito il perché di quella fatwa che a leggerla mi era sembrata
grottesca. Anche in Afghanistan i bambini giocano con gli aquiloni e
inseguono i loro sogni.
Che possano farlo in futuro dipende oggi molto dalle donne di quel Paese ma
certo anche da quanto la volontà politica della parte pacifista
dell'Occidente inciderà nelle dinamiche politiche di questa fase storica.







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