8 grafici sullo scenario a due mesi dalla caduta di Assad |
La fine del regime baathista segna un punto di svolta a livello domestico e regionale per il paese, che ora ha davanti a sé due strade: creare un sistema finalmente democratico o sprofondare di nuovo nell’autoritarismo, stavolta in salsa islamista. |
|
|
La Siria che esisteva due mesi fa, semplicemente, non esiste più. Ma anche il sistema regionale, in cui il paese era inserito, non è più quello di prima. L’8 dicembre 2024 cadeva il governo di Bashar Al-Assad, salito al potere nel 2000 dopo suo padre Hafez, segnando la fine del regime baathista dopo mezzo secolo di dominio incontrastato sul paese arabo. La Siria è oggi nelle mani dei gruppi armati antiregime e delle milizie jihadiste che, in poco più di 10 giorni, sono riuscite a rovesciare un sistema di potere sopravvissuto a quasi 14 anni di guerra civile. Ma cosa succede oggi in Siria? E com’è cambiato lo scenario geopolitico a due mesi dalla caduta di Assad?
|
Al centro della scena c’è oggi Abu Muhammad Al-Jolani, che sin dalla caduta di Damasco ha dismesso questo pseudonimo di battaglia a favore del suo nome “civile”, Ahmed Al-Sharaa, operando un cambiamento d’immagine volto a dare di sé, e della sua amministrazione, un’immagine da politico rispettabile e affidabile. Leader di Hayat Tahrir Al-Sham, il cartello di milizie jihadiste nato da una costola di Al-Qaeda e che ha guidato il rovesciamento di Assad, il 30 gennaio è stato ‘nominato’ presidente di transizione della Siria e ha promesso di creare un governo di transizione inclusivo, che guiderà il paese fino alla celebrazione di elezioni libere ed eque. Lo stesso Al-Sharaa, tuttavia, ha dichiarato che potrebbero volerci anche fino a 4-5 anni prima che il paese torni alle urne. Oggi, intanto, l’immagine che può rappresentare meglio il paese, visitato per la prima volta dopo anni da decine di giornalisti provenienti da tutto il mondo, è quella di un vecchio edificio, la cui facciata è stata restaurata e imbiancata di fresco, ma che all’interno è ancora pieno di crepe e problemi strutturali.
|
|
|
Nel difficile bilancio del “chi ha vinto e chi ha perso” dalla caduta del regime si può dire con certezza che a perdere terreno è stato soprattutto l’Iran, che con Assad ha visto venir meno nel giro di pochi giorni un tassello centrale del suo “Asse della resistenza”, già duramente messo alla prova dallo scontro tra Israele e il partito-milizia libanese Hezbollah. Entrambe le circostanze, peraltro, sono effetti a lungo termine dell’escalation iniziata il 7 ottobre 2023 con l’attacco di Hamas. A trarre il massimo giovamento dalla caduta di Assad, invece, è stata certamente la Turchia, che insieme al Qatar non ha mai smesso di sostenere i gruppi di opposizione al regime negli anni della guerra civile e ora intende incassare il capitale politico investito. Ankara ha supportato attivamente una parte del fronte armato anti-Assad, in particolare il cosiddetto Esercito nazionale siriano (SNA), giocandola soprattutto in funzione anti-curda. Risulta più complessa, invece, la posizione della Russia, principale sponsor e alleato del vecchio regime, che tuttavia sta cercando canali di dialogo con la nuova amministrazione e negoziando per salvare il salvabile dei suoi asset nel paese (le basi costiere di Latakia e Tartus). Al-Jolani, in tal senso, avrebbe chiesto a Mosca l’estradizione di Assad, condizione difficilmente per il Cremlino (che ha rifiutato di commentare la faccenda). In generale però, i nuovi dominatori della Siria hanno cercato sin dalla caduta di Assad, fuggito proprio a Mosca, di allacciare relazioni positive e contatti politico-diplomatici, a livello regionale e internazionale, con l’idea di perseguire soprattutto tre obiettivi: scongiurare l’isolamento politico, dovuto in gran parte alla diffidenza verso la matrice salafita dei nuovi arrivati; rimuovere le sanzioni imposte al vecchio regime; rilanciare l’economia, fortemente provata da 14 anni di guerra, favorendo la ricostruzione.
|
|
|
Dopo lo shock iniziale per il repentino cambio di regime a Damasco, delegazioni da tutto il mondo hanno iniziato a effettuare visite diplomatiche nella ‘nuova Siria’. La prima in assoluto, non a caso, è stata la missione di una rappresentanza turca di alto livello guidata dal ministro degli Esteri, Hakan Fidan, il 22 dicembre scorso, seguita dalla riapertura dell’ambasciata a Damasco e dalla visita del capo dell’intelligence turca Ibrahim Kalin. Nelle settimane successive, è stata la volta di delegazioni provenienti non solo da paesi della regione – come Bahrein, Iraq, Libia, Kuwait – ma anche europei. Il ministro degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale italiano, Antonio Tajani, si è recato a Damasco il 10 gennaio, ma anche le controparti di Francia, Germania e Spagna – Jean-Noël Barrot, Annalena Baerbock e José Manuel Alvarez Bueno – hanno incontrato Al-Sharaa e il suo ministro degli Esteri, Asaad Hassan Al-Shaibani. Quest’ultimo, inoltre, ha rappresentato la Siria per la prima volta nella storia al World Economic Forum di Davos, dove è stato intervistato dall’ex premier britannico Tony Blair. Rappresentate a Damasco anche l’Unione europea con Hadja Lahbib, commissaria per la gestione delle crisi e l'uguaglianza, le Nazioni Unite tramite Filippo Grandi, Alto Commissario per i Rifugiati, e persino la Russia, con una delegazione guidata dal viceministro degli Esteri, Mikhail Bogdanov, e da Aleksandr Lavrentyev, inviato speciale per la Siria del presidente russo, Vladimir Putin. Decisamente più tiepide (e diffidenti) le reazioni di paesi arabi come Giordania, Egitto, Tunisia, Algeria e Marocco. Il primo Capo di Stato europeo e occidentale a sentire Al-Jolani è stato il presidente francese Emmanuel Macron, che secondo la versione fornita da Damasco lo ha invitato a Parigi per una visita ufficiale. Due giorni dopo è stata la volta del cancelliere tedesco Olaf Scholz.
|
|
|
Non è un caso, tuttavia, che la prima visita di un Capo di Stato nella Siria post-Assad sia stata quella, il 30 gennaio, di Tamim bin Hamad Al-Thani, Emiro del Qatar, che ha così ‘benedetto’ l’ascesa del nuovo leader siriano. E non è un caso, allo stesso tempo, che la prima visita all’estero di Al-Sharaa – accompagnato dal suo ministro degli Esteri su un aereo di stato saudita – sia stata proprio a Riad, dove i due hanno incontrato il principe ereditario Mohammed Bin Salman e altre importanti figure del regno arabo, dove il nuovo rais siriano ha anche effettuato la Umrah (pellegrinaggio minore) sui luoghi santi dell’islam, accompagnato per la prima volta dalla nuova first lady siriana, Latifa Al-Daroubi. Ultima visita, in ordine di tempo ma non per importanza, il 4 febbraio Al-Sharaa si è recato anche in Turchia, dove ha incontrato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Tuttavia, da Ankara la nuova amministrazione si aspetta soprattutto sostegno militare, politico e diplomatico, mentre la Siria continua ad essere un paese in grande difficoltà economica. Il PIL si è contratto del 64% dal 2011 al 2024, e più di 15 milioni di abitanti sono a rischio o in gravi condizioni di insicurezza alimentare. Attrarre investimenti stranieri, in particolare dal Golfo, è una priorità per il nuovo governo di Damasco, tanto che Al-Shaibani – in un’intervista al Financial Times da Davos – ha dichiarato l’intenzione di privatizzare i porti e le fabbriche di proprietà statale, mettendo gradualmente fine al dirigismo socialista dell’era Assad. L’opportunità per la nuova Siria di buoni rapporti con il Golfo non si basa solo su interessi economici, ma anche sulla necessità di propiziare sponde diplomatiche con un interlocutore ancora più importante: gli Stati Uniti di Donald Trump.
|
|
|
La nuova amministrazione americana non ha ancora sviluppato una precisa linea d’azione verso la ‘nuova Siria’, ma già durante il suo primo mandato Trump ha sempre avuto nell’Arabia Saudita (e negli Emirati Arabi Uniti) un punto di riferimento per la sua politica mediorientale, anche se le recenti affermazioni di Trump sulla deportazione dei palestinesi da Gaza hanno suscitato aspre critiche dal Golfo. Washington guarda sicuramente con favore il ridimensionamento in Siria sia dell’Iran che della Russia, alla luce del fatto che la nuova amministrazione ha annullato il contratto con l'azienda russa STG Stroytransgaz per la gestione e l'operatività del porto di Tartus. Gli USA, che continuano ad essere tra i principali fornitori di aiuti umanitari alla Siria, sono anche l’attore con cui interfacciarsi per il dossier sanzioni (che invece l’UE dovrebbe sospendere), ma anche per la rimozione di Hayat Tahrir Al-Sham e di Al-Sharaa dalla lista nera del terrorismo. Il leader siriano, d’altronde, ha inviato un messaggio di congratulazioni a Trump dopo il suo insediamento alla Casa Bianca, il 20 gennaio, e dichiarato che il suo governo intende ristabilire relazioni con gli Stati Uniti nei prossimi giorni e settimane, anche se non c’è stato ancora alcun contatto con l'amministrazione Trump. Niente di ufficiale è stato ancora deciso, ma il nuovo segretario di Stato Marco Rubio ha dichiarato in un’intervista: “Se c'è un'opportunità in Siria di creare un posto più stabile di quello che abbiamo avuto storicamente, soprattutto sotto Assad, dove l'Iran e la Russia hanno dominato e dove l'ISIS ha operato impunemente, dobbiamo cogliere questa opportunità e vedere dove ci porta”.
|
|
|
Dal punto di vista americano, però, il dossier Siria si incentra su un’altra questione: quella delle Forze democratiche siriane (SDF), dominate dalle YPG curdo-siriane (Unità di protezione popolare), che gli USA hanno sostenuto attivamente in funzione anti-ISIS durante la guerra. Il gruppo, filiazione siriana del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), è considerato un’organizzazione terroristica dalla Turchia (secondo esercito della NATO e principale sponsor della nuova amministrazione di Damasco) e anche da Stati Uniti e Unione europea. L’esercito di Ankara e le forze filoturche dell’SNA minacciano da settimane un’operazione su vasta scala contro Kobane, città simbolo della resistenza curda contro lo Stato Islamico, con l’obiettivo di congiungere i distretti – già sotto il loro controllo – di Jarablus e Tell Abyad. Secondo indiscrezioni di stampa, Trump avrebbe già intenzione di ritirare migliaia di soldati americani dalla Siria, tutti ed entro 3-4 mesi secondo l’emittente statunitense NBC. Una decisione simile, nel 2019, venne interpretata come il via libera americano all’operazione anti-curda “Sorgente di pace” da parte di Ankara. Il nuovo governo a Damasco vorrebbe integrare le forze curde nel nuovo esercito regolare siriano, ma al momento la leadership delle SDF non sembra intenzionata a fare un passo del genere, di fatto consegnare le armi, senza determinate garanzie. Il tutto avviene mentre, a livello interno, la Turchia sta negoziando con Abdullah Öcalan, leader del PKK in prigione dal 1999, perché il gruppo abbandoni la lotta armata dopo decenni di scontro con lo stato turco.
|
|
|
La questione curda chiama in causa la più ampia postura americana nella regione. L’eventuale ritiro completo dalla Siria sarebbe coerente con le promesse elettorali di Trump sul disimpegno militare dalle “guerre senza fine” in Medio Oriente, ma rischia di avere conseguenze enormi. Lo Stato islamico, motivo dichiarato per cui gli USA sono ancora presenti in Siria, è in grande difficoltà e ha perso la sua dimensione territoriale, ma questo si deve anche al fatto che 9.000 prigionieri legati a Daesh sono sorvegliati dalle SDF a guida curda nel nord-est del paese. Se gli USA si ritirassero, lasciando le forze curde in balia di Ankara, l’ex Califfato potrebbe approfittarne per rialzare la testa e questo sarebbe chiaramente un rovescio strategico per Washington. In questo contesto, tuttavia, si inserisce la nuova partnership strategica fra Damasco e Ankara, cementata dall’incontro tra Erdogan e Al-Sharaa il 4 febbraio, che prevedrebbe - tra le altre cose - la creazione di basi turche nel deserto della Siria centrale (una probabilmente a Palmira) e l'addestramento del nuovo esercito siriano da parte delle forze turche. Fidan, ministro degli Esteri turco, ha dichiarato per parte sua che Turchia, Siria, Iraq e Giordania si uniranno per combattere ciò che resta dello Stato islamico, sostituendosi di fatto agli Stati Uniti. Ankara, tuttavia, considera le formazioni curde terroriste tanto quanto le ultime sacche di Daesh e potrebbe approfittarne per colpirle frontalmente. Al-Sharaa, inoltre, ha rivelato di aver convinto la Turchia a ritardare un'operazione militare su vasta scala contro le forze curde già in fase di preparazione, in modo da far proseguire i negoziati tra SDF e Damasco, entrati però in crisi dopo che l’esplosione di un’autobomba a Manbij, nel nord della Siria, ha ucciso 20 persone. In effetti, lo Al-Jolani ha anche espresso scarso ottimismo circa il raggiungimento di un accordo con i curdi.
|
|
|
Un’altra importante questione, rimasta per ora irrisolta, è quella del vicinato con Israele. Tel Aviv non si fida minimamente dei nuovi dominatori della Siria, figli di un’ideologia salafita e meno prevedibili di Assad. Al-Sharaa e i suoi hanno ribadito più volte di non volere un conflitto con Israele, che dopo la caduta di Assad ha colto la palla al balzo per distruggere con decine di raid aerei depositi di armi, magazzini di razzi, missili e la flotta militare del vecchio regime (per evitare che finissero nelle mani dei nuovi arrivati). A dicembre, le Forze di difesa israeliane (IDF) hanno occupato la zona cuscinetto, sul versante siriano del monte Hermon, che divide il proprio confine da quello della Siria sulle alture del Golan, spingendosi poi anche in profondità con operazioni lampo nei governatorati della Siria sudoccidentale, dove si concentra buona parte della popolazione drusa. Il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha annunciato a gennaio che le IDF continueranno a occupare l’area “a tempo indeterminato” per garantire la sicurezza del paese, rischiando di esacerbare sin dal principio i rapporti con il nuovo vicino.
|
|
|
A livello interno, si può dire che quello per la nascita della ‘nuova Siria’ sarà probabilmente un travaglio lungo e complesso. La caduta di Assad è stata salutata da un’immensa ondata di gioia di una popolazione stremata da 50 anni di repressione e 14 di guerra. A fine gennaio, Al-Sharaa ha dichiarato il compimento della Rivoluzione siriana iniziata nel 2011. Il comandante militare Hassan Abdul Ghani ha quindi annunciato la nomina di Al-Jolani a “presidente di transizione”, l'annullamento della costituzione siriana del 2012, lo scioglimento del parlamento, la dissoluzione di tutti i gruppi armati ribelli (che rientreranno sotto il controllo del nuovo ministero della Difesa), dell’esercito e delle agenzie di sicurezza del vecchio regime. Le autorità hanno poi annunciato la formazione di un consiglio legislativo ad interim fino all'approvazione di una nuova costituzione, senza però specificare con che modalità saranno scelti i suoi membri né quali saranno i tempi. Il governo ad interim, invece, resta quello attualmente in carica guidato da Mohammed Al-Bashir, ma Al-Jolani ha annunciato in un’intervista all’Economist che la Siria post-Assad avrà, probabilmente già a marzo, un nuovo Consiglio dei ministri, scelti non su base etnica o confessionale. Questo significa che presto potrebbe nascere un esecutivo di transizione con ministri non solo musulmani sunniti, ma anche di altre comunità. Quanto alla costituzione, il leader siriano ha annunciato che sarà formato un comitato preparatorio per tenere consultazioni in tutta la Siria. "Inviteremo coloro che riteniamo rappresentino il popolo siriano in generale", ha spiegato. La conferenza discuterà "di tutti i problemi importanti della Siria" e produrrà una dichiarazione finale che costituirà la base di una "dichiarazione costituzionale", ha affermato Al-Sharaa.
|
|
|
Le prime mosse della nuova leadership – Al-Sharaa ‘acclamato’ presidente dai militari in un incontro praticamente a porte chiuse, l’ipotesi di non avere costituzione né elezioni per addirittura 5 anni – non sono piaciute a una grossa fetta dell’opinione pubblica siriana, in particolare a storici attivisti anti-Assad molto seguiti sui social. Secondo altri, tuttavia, quello attualmente in corso è un passaggio necessario per stabilire istituzioni nuove e solide, oltre che a garantire giustizia transizionale. In questo ambito, il nuovo governo ha assicurato che perseguirà ufficialmente i responsabili delle torture e dei crimini perpetrati dal vecchio regime. Si susseguono ogni giorno notizie di arresti di comandanti e rastrellamenti contro milizie leali verso il vecchio regime, ma non mancano voci su casi di redde rationem e persino di esecuzioni sommarie. Nelle ultime settimane il nuovo governo ha condotto diverse operazioni di sicurezza contro sacche di combattenti pro-Assad nella campagna di Homs e sulla costa, dove si concentra la comunità alawita di cui faceva parte l’ex famiglia presidenziale. Il Syrian Network for Human Rights (SNHR) ha denunciato torture, violazioni della dignità umana e dei simboli religiosi. Un tema cruciale, infatti, è quello della ‘islamicità’ del nuovo sistema politico, simbolicamente rappresentato – soprattutto nel dibattito in Occidente – dal ruolo delle donne, che sono praticamente assenti nell’esecutivo ad interim attualmente in carica. Nel suo faccia a faccia con Blair a Davos, il ministro degli Esteri Al-Shaibani ha ironizzato sull’argomento, affermando che la guida della Banca centrale siriana è stata affidata a una donna: Maysaa Sabreen, attuale governatrice dell’istituto. “Le abbiamo dato tutti i nostri soldi”, ha dichiarato il capo della diplomazia di Damasco. Nell'ultima settimana, inoltre, sono circolati sui social media video che mostrano le forze di sicurezza del governo ad interim che picchiano, umiliano e arrestano persone LGBTQA+ mentre li arrestano, scatenando commenti di odio contro di loro. Un segnale, denunciano gli attivisti di The Syrian Campaign, estremamente preoccupante per quanto riguarda il futuro del paese nel campo dei diritti civili.
|
|
|
| Anna Myriam Roccatello, ICTJ |
|
|
Il mondo – evidenzia l’intellettuale siriano Robin Yassin-Kassab – è preoccupato per il passato jihadista dei nuovi leader siriani, ma potrebbe non comprendere appieno la situazione attuale”. Sin dall’inizio dell’offensiva che in pochi giorni ha rovesciato Assad, Al-Sharaa ha predicato stabilità, tolleranza e diritti per le minoranze, ma la sua ‘trasformazione’ rischia di causare malumori tra le frange più oltranziste della base jihadista e comunque non scioglie dubbi e timori di un governo autoritario. La stessa scelta di confermare il nome del paese come “Repubblica araba di Siria” non lascia ben sperare in uno sbocco positivo per le questioni etniche ancora aperte, in particolare quella curda. Ad ogni modo la società siriana, variegata nei suoi orientamenti politici e religiosi, si trova in un momento di transizione delicatissimo, dove il bilanciamento tra libertà individuali e tradizioni islamiche è cruciale per evitare l’instaurarsi di un altro regime oppressivo, come quello deposto due mesi fa, ma stavolta con una chiara connotazione islamista.
|
|
|
A cura di: Francesco Petronella, ISPI
|
|
|
|