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[Pace] I "panciafichisti" dell'incauto Massimo Giannini
- Subject: [Pace] I "panciafichisti" dell'incauto Massimo Giannini
- From: Alessandro Marescotti <a.marescotti at peacelink.org>
- Date: Tue, 11 Oct 2022 01:03:01 +0200
Massimo Giannini scrive alcune cose sensate nel suo articolo (che riportiamo qui sotto) ma fa uno scivolone incredibile quando usa il termine usato da Mussolini per dileggiare i pacifisti: "panciafichisti". Si legge infatti sull'Enciclopedia Treccani:
L’atteggiamento del panciafichista, di chi cioè vuole ‘serbare la pancia per i fichi’. Il termine fu coniato dai fautori dell’intervento italiano nella Prima guerra mondiale come alterazione polemica di pacifismo e fu usato frequentemente da Mussolini per indicare coloro che vi si opponevano.
(Enciclopedia Treccani online)
Massimo Giannini, La Stampa, 9 ottobre 2022
Siamo tutti ucraini. Consapevoli che la loro guerra è anche la nostra guerra, perché nasce dalla difesa dei principi di libertà e di autodeterminazione dei popoli sui quali questa parte di mondo si è fondata e forgiata nelle tragedie dell’era moderna. Siamo tutti europei. Coscienti che il macellaio di Mosca è la causa di questa mostruosa ecatombe di bambini, di donne, di uomini inermi e innocenti. Che il Grande Dittatore del Cremlino, comunque finisca il conflitto, dovrà rispondere a un Tribunale penale internazionale per i crimini contro l’umanità perpetrati a Bucha a Irpin a Kherson. Siamo tutti occidentali. Convinti che la Russia è ormai una minaccia globale, al di là dell’invasione in Ucraina. Che è giusto e legittimo sostenere anche militarmente la resistenza di quella nazione, tornata suo malgrado terra di mezzo tra Est e Ovest. Che ha ragione Sanna Marin, quando al vertice di Praga, a chi le chiede qual è la soluzione, risponde semplicemente «ce n’è una sola, il ritiro di Putin».
Ci rassicura, tutto questo. Stare dalla parte giusta della Storia. Sapere esattamente qual è il nostro posto su questa Terra. Quali sono i nemici che dobbiamo combattere e gli amici di cui ci dobbiamo fidare. Peccato però che il sorriso sicuro della premier finlandese disarma i cronisti ma non il Tiranno. E peccato che dopo i ripetuti accenni del Cremlino sul possibile ricorso agli armamenti nucleari tattici, adesso persino Joe Biden non può più escludere «un Armageddon atomico», per la prima volta dalla crisi dei missili a Cuba del 1962. Di fronte a tutto questo orrore, a questa drammatica escalation che va ormai ben oltre l’ubriacatura propagandistica dei generali al fronte o la sbornia geostrategica da salotto televisivo.
A questa cinica assuefazione del pensiero e del linguaggio davanti alla morte presente e futura, abbiamo un dovere etico e politico: quello di fermarci. Per respirare, per ragionare.
Dove può portarci questa spirale, a noi che per Costituzione ripudiamo la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali? E fino a che punto consideriamo possibile e utile spingerci, per supportare ormai non più solo la difesa, ma anche l’offesa di un Paese in armi? Non sono interrogativi leciti: sono necessari. Soprattutto alla luce dei fatti di queste ultime ore. Il primo, di venerdì scorso: l’attentato a Darya “Dugina”, figlia dell’ideologo del putinismo Aleksandr Dugin uccisa il 20 agosto alla periferia di Mosca, sarebbe opera dei servizi ucraini. Il secondo, di ieri: l’esplosione che ha distrutto il ponte di Kerch, raccordo tra Russia e Crimea e monumento-simbolo dell’occupazione del 2014, porterebbe la firma degli stessi ucraini. Che, giusto il giorno dopo la festa dei 70 anni dell’autocrate di San Pietroburgo, gli recapitano la rivendicazione con una pennellata di macabra ironia intinta nel mito di Marilyn Monroe: «Buon Compleanno, presidente Putin». Non pago, il consigliere ucraino Mykhailo Podolyak aggiunge: «E questo è solo l’inizio».
A’ la guerre comme à la guerre. Provateci voi, dentro un incubo iniziato il 24 febbraio, a guidare uno Stato sovrano asserragliati in un sottoscala, mentre l’Orso post-sovietico ti aggredisce e ti sbrana, i missili e le bombe distruggono le tue città, i soldati di Dvornikov massacrano la tua gente, i ceceni di Kadyrov stuprano e sgozzano le tue mogli e i tuoi figli. L’atroce mattanza russa sui civili ucraini dura ormai da nove mesi: al confronto, una carica di dinamite sotto l’auto della figlia di un simil-Rasputin convinto che il suo capo sia la reincarnazione di Pietro il Grande, o un camion bomba su un’infrastruttura che suggella un’altra Anschluss illegittima, sono una puntura di spillo. C’è poco da recriminare e da biasimare: è la guerra, stupido, e non ci puoi fare niente. Ma è davvero così? O non è forse il momento che le cancellerie euro-atlantiche aprano un confronto serio con Zelensky, non per accusarlo o isolarlo, ma almeno per capire qual è la sua strategia, e qual è per lui il confine tra protezione e aggressione.
È ovvio che il presidente ucraino combatte questa guerra con i mezzi che ha a disposizione e che ritiene più efficaci. Ma un conto sono le operazioni belliche che il suo esercito effettua (col nostro aiuto) per riconquistare i territori ucraini usurpati dagli invasori. Altro conto sono le missioni che i suoi 007 effettuano oltre i confini, andando a colpire l’Orso russo nella sua tana. Le implicazioni possono essere molto diverse. E poiché (come abbiamo detto) la sua guerra è pure la nostra, quelle implicazioni riguardano anche noi. L’Occidente ha un dovere nei confronti di Zelensky: lo deve sostenere, senza distinzioni pelose. Ma Zelensky ha un impegno nei confronti dell’Occidente: lo deve ascoltare, senza decisioni precipitose. Nella spirale che ci sta risucchiando, a ogni azione ucraina può corrispondere una reazione russa che potrebbe non colpire più soltanto Kiev, ma l’intera Alleanza Atlantica e l’intera comunità internazionale. Di questo il commander in chief ucraino deve tenere conto. A meno che (e non vogliamo crederlo) non pensi di trascinarci tutti nella Terza Guerra Mondiale. Che per altro, forse, è già cominciata. Senza che il pianeta se ne sia reso conto, come va ripetendo da tempo il Papa.
Ecco perché è ora di parlare di pace. Nel momento in cui ci accorgiamo che Putin, ispirato dal suo pantheon neo-imperiale in cui sono assisi Plotnikov e Berdjaev, Il’in e Danilevsky, predica l’apologia della guerra e rivendica il suo “immenso diritto morale” di ricostruire la Santa Madre Russia per proteggerla dall’Anticristo occidentale. Nel momento in cui realizziamo che Vlad The Mad questa “operazione speciale” l’ha probabilmente preparata da anni, convinto come I Demoni di Dostoevskij che “l’importante è la leggenda”. Nel momento in cui il falco Serghei Surovikin assume il comando delle truppe in Ucraina e i suoi Stranamore discutono di armi di distruzione di massa. Proprio in un momento come questo, non bisogna lasciare il monopolio della pace a Bergoglio e al mondo cattolico, oppure a Conte e al microcosmo pentastellato. La pace è un bene universale, non una dote elettorale.
Ha ragione Timothy Garton Ash, che avverte i moderni “panciafichisti” ancora fermi all’insopportabile «né con la Russia-né con la Nato»: non serve che andiate a cercare fascisti tra i governi d’Europa, perché un fascista al potere c’è già e si chiama Putin. Quindi le grandi manifestazioni pacifiste bisognerebbe farle innanzitutto davanti alle ambasciate russe. Ma ha altrettanta ragione Francesco, quando ripete che «la pace va cercata sempre e comunque». E ormai, tra i Grandi della Terra, nessuno la sta più cercando. Ci siamo dimenticati di Kant: «La pace perpetua può essere conseguita soltanto quando anche gli Stati saranno usciti dallo stato di natura… per stipulare un patto che li unisca in una confederazione permanente…». Ci stiamo rassegnando a Nietzsche: «Non conosciamo altri mezzi oltre le guerre mediante i quali si possano comunicare a popoli che vanno infiacchendosi quella rude energia del campo di battaglia e quell’ardore generale nella distruzione organizzata del nemico…».
All’ombra del nucleare che torna, ci sta sfuggendo anche l’idea di «pace provvisoria» di cui scriveva Norberto Bobbio: una «tregua d’armi in attesa di un evento straordinario», quanto è stato straordinario lo scoppio della prima bomba atomica che ha fatto dire agli osservatori più consapevoli che era cominciata una nuova era della storia umana. L’equilibrio del terrore, che ha dominato l’epoca della Guerra Fredda in base alla parità di forza tra Usa-Urss, pare ormai finito. La deterrenza atomica non ha impedito che esplodessero numerose e sanguinose guerre “convenzionali”. E ora, dentro quella più pericolosa perché risveglia i peggiori fantasmi del Novecento, l’uso di armi nucleari non è più escluso. Anche se mettono in questione “il destino dell’uomo” (Karl Jaspers). A questo punto è la notte.
Anche tra Russia e Ucraina servirebbe quel «Terzo per la pace» che invocava lo stesso Bobbio, mentre annotava amareggiato i fallimenti dell’Onu. Quel Defensor pacis che, nella sua funzione più debole, mette in contatto le parti, mentre in quella più forte interviene per farle giungere a un compromesso. «Nell’attuale sistema internazionale questo Terzo non esiste, né se ne profila uno credibile all’orizzonte». Il grande filosofo torinese lo scriveva nel 1989. Trentatré anni dopo, l’orizzonte è sempre più vuoto.
Ci rassicura, tutto questo. Stare dalla parte giusta della Storia. Sapere esattamente qual è il nostro posto su questa Terra. Quali sono i nemici che dobbiamo combattere e gli amici di cui ci dobbiamo fidare. Peccato però che il sorriso sicuro della premier finlandese disarma i cronisti ma non il Tiranno. E peccato che dopo i ripetuti accenni del Cremlino sul possibile ricorso agli armamenti nucleari tattici, adesso persino Joe Biden non può più escludere «un Armageddon atomico», per la prima volta dalla crisi dei missili a Cuba del 1962. Di fronte a tutto questo orrore, a questa drammatica escalation che va ormai ben oltre l’ubriacatura propagandistica dei generali al fronte o la sbornia geostrategica da salotto televisivo.
A questa cinica assuefazione del pensiero e del linguaggio davanti alla morte presente e futura, abbiamo un dovere etico e politico: quello di fermarci. Per respirare, per ragionare.
Dove può portarci questa spirale, a noi che per Costituzione ripudiamo la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali? E fino a che punto consideriamo possibile e utile spingerci, per supportare ormai non più solo la difesa, ma anche l’offesa di un Paese in armi? Non sono interrogativi leciti: sono necessari. Soprattutto alla luce dei fatti di queste ultime ore. Il primo, di venerdì scorso: l’attentato a Darya “Dugina”, figlia dell’ideologo del putinismo Aleksandr Dugin uccisa il 20 agosto alla periferia di Mosca, sarebbe opera dei servizi ucraini. Il secondo, di ieri: l’esplosione che ha distrutto il ponte di Kerch, raccordo tra Russia e Crimea e monumento-simbolo dell’occupazione del 2014, porterebbe la firma degli stessi ucraini. Che, giusto il giorno dopo la festa dei 70 anni dell’autocrate di San Pietroburgo, gli recapitano la rivendicazione con una pennellata di macabra ironia intinta nel mito di Marilyn Monroe: «Buon Compleanno, presidente Putin». Non pago, il consigliere ucraino Mykhailo Podolyak aggiunge: «E questo è solo l’inizio».
A’ la guerre comme à la guerre. Provateci voi, dentro un incubo iniziato il 24 febbraio, a guidare uno Stato sovrano asserragliati in un sottoscala, mentre l’Orso post-sovietico ti aggredisce e ti sbrana, i missili e le bombe distruggono le tue città, i soldati di Dvornikov massacrano la tua gente, i ceceni di Kadyrov stuprano e sgozzano le tue mogli e i tuoi figli. L’atroce mattanza russa sui civili ucraini dura ormai da nove mesi: al confronto, una carica di dinamite sotto l’auto della figlia di un simil-Rasputin convinto che il suo capo sia la reincarnazione di Pietro il Grande, o un camion bomba su un’infrastruttura che suggella un’altra Anschluss illegittima, sono una puntura di spillo. C’è poco da recriminare e da biasimare: è la guerra, stupido, e non ci puoi fare niente. Ma è davvero così? O non è forse il momento che le cancellerie euro-atlantiche aprano un confronto serio con Zelensky, non per accusarlo o isolarlo, ma almeno per capire qual è la sua strategia, e qual è per lui il confine tra protezione e aggressione.
È ovvio che il presidente ucraino combatte questa guerra con i mezzi che ha a disposizione e che ritiene più efficaci. Ma un conto sono le operazioni belliche che il suo esercito effettua (col nostro aiuto) per riconquistare i territori ucraini usurpati dagli invasori. Altro conto sono le missioni che i suoi 007 effettuano oltre i confini, andando a colpire l’Orso russo nella sua tana. Le implicazioni possono essere molto diverse. E poiché (come abbiamo detto) la sua guerra è pure la nostra, quelle implicazioni riguardano anche noi. L’Occidente ha un dovere nei confronti di Zelensky: lo deve sostenere, senza distinzioni pelose. Ma Zelensky ha un impegno nei confronti dell’Occidente: lo deve ascoltare, senza decisioni precipitose. Nella spirale che ci sta risucchiando, a ogni azione ucraina può corrispondere una reazione russa che potrebbe non colpire più soltanto Kiev, ma l’intera Alleanza Atlantica e l’intera comunità internazionale. Di questo il commander in chief ucraino deve tenere conto. A meno che (e non vogliamo crederlo) non pensi di trascinarci tutti nella Terza Guerra Mondiale. Che per altro, forse, è già cominciata. Senza che il pianeta se ne sia reso conto, come va ripetendo da tempo il Papa.
Ecco perché è ora di parlare di pace. Nel momento in cui ci accorgiamo che Putin, ispirato dal suo pantheon neo-imperiale in cui sono assisi Plotnikov e Berdjaev, Il’in e Danilevsky, predica l’apologia della guerra e rivendica il suo “immenso diritto morale” di ricostruire la Santa Madre Russia per proteggerla dall’Anticristo occidentale. Nel momento in cui realizziamo che Vlad The Mad questa “operazione speciale” l’ha probabilmente preparata da anni, convinto come I Demoni di Dostoevskij che “l’importante è la leggenda”. Nel momento in cui il falco Serghei Surovikin assume il comando delle truppe in Ucraina e i suoi Stranamore discutono di armi di distruzione di massa. Proprio in un momento come questo, non bisogna lasciare il monopolio della pace a Bergoglio e al mondo cattolico, oppure a Conte e al microcosmo pentastellato. La pace è un bene universale, non una dote elettorale.
Ha ragione Timothy Garton Ash, che avverte i moderni “panciafichisti” ancora fermi all’insopportabile «né con la Russia-né con la Nato»: non serve che andiate a cercare fascisti tra i governi d’Europa, perché un fascista al potere c’è già e si chiama Putin. Quindi le grandi manifestazioni pacifiste bisognerebbe farle innanzitutto davanti alle ambasciate russe. Ma ha altrettanta ragione Francesco, quando ripete che «la pace va cercata sempre e comunque». E ormai, tra i Grandi della Terra, nessuno la sta più cercando. Ci siamo dimenticati di Kant: «La pace perpetua può essere conseguita soltanto quando anche gli Stati saranno usciti dallo stato di natura… per stipulare un patto che li unisca in una confederazione permanente…». Ci stiamo rassegnando a Nietzsche: «Non conosciamo altri mezzi oltre le guerre mediante i quali si possano comunicare a popoli che vanno infiacchendosi quella rude energia del campo di battaglia e quell’ardore generale nella distruzione organizzata del nemico…».
All’ombra del nucleare che torna, ci sta sfuggendo anche l’idea di «pace provvisoria» di cui scriveva Norberto Bobbio: una «tregua d’armi in attesa di un evento straordinario», quanto è stato straordinario lo scoppio della prima bomba atomica che ha fatto dire agli osservatori più consapevoli che era cominciata una nuova era della storia umana. L’equilibrio del terrore, che ha dominato l’epoca della Guerra Fredda in base alla parità di forza tra Usa-Urss, pare ormai finito. La deterrenza atomica non ha impedito che esplodessero numerose e sanguinose guerre “convenzionali”. E ora, dentro quella più pericolosa perché risveglia i peggiori fantasmi del Novecento, l’uso di armi nucleari non è più escluso. Anche se mettono in questione “il destino dell’uomo” (Karl Jaspers). A questo punto è la notte.
Anche tra Russia e Ucraina servirebbe quel «Terzo per la pace» che invocava lo stesso Bobbio, mentre annotava amareggiato i fallimenti dell’Onu. Quel Defensor pacis che, nella sua funzione più debole, mette in contatto le parti, mentre in quella più forte interviene per farle giungere a un compromesso. «Nell’attuale sistema internazionale questo Terzo non esiste, né se ne profila uno credibile all’orizzonte». Il grande filosofo torinese lo scriveva nel 1989. Trentatré anni dopo, l’orizzonte è sempre più vuoto.
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