R: [pace] Del Grande e gli altri: guardate cosa dicevano un anno fa!! "I ribelli libici sono bravi ragazzi"
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- Date: Sat, 7 Apr 2012 19:23:47 +0200
Leggete cosa fanno i “ribelli libici” in
Siria: seb SIRIA: ECCO CHI VIOLA I DIRITTI UMANI
Maurizio
Blondet 20 Marzo 2012
Un’immagine passata una sola volta alla TV siriana: una famiglia
di Baba Amro – centro di aspri combattimenti nelle settimane scorse – presso la
tavola apparecchiata, sterminata. Tutti, bambini, zii, parenti. Sul muro, gli
assassini hanno scritto col sangue delle vittime: «Da Misurata (Libia, ndr) siamo
venuti a liberare la Siria». A
denunciarlo è la dottoressa Nadia Khost, siriana, scrittrice di molte opere
sulla conservazione del patrimonio culturale della civiltà araba. Ora che il
regime siriano inferisce gli ultimi colpi alla «resistenza», e gli arrestati
cominciano a confessare, ne esce un quadro alquanto diverso dalla narrativa
mediatica occidentale. Gente costretta ad assistere all’esecuzione di un
giovane sconosciuto, portato legato in una piazza pubblica a Douma, sobborgo di
Damasco. Un arrestato, Ayman et Fahd Arbini, ha raccontato di aver sparato un
RPG sulla chiesa cristiana di Arbin, altro sobborgo di Damasco, «su ordine di
Zaher Qweider di Al Qaeda», un tale venuto dall’Iraq. I
ribelli avevano liste di persone da eliminare. Sulla base di queste liste,
hanno ammazzato ad Aleppo il campione di boxe Ghiath Tayfur, ad Homs hanno
sequestrato e fatto sparire il politico Mosbar Al Chaar; il numero degli
eliminati meno famosi è ancora incerto. «Hanno assassinato uomini d’affari e professori
d’università. Ora sappiamo che ciascuno di noi può morire in caso di attacco
delle bande armate se il suo nome figura in quelle liste», dice
Nadia Khost. Ora
che sul terreno la situazione si volge sempre più a favore del regime e delle
sue forze armate, la «narrativa» dei media diventa sempre più inverosimile.
Emerge che l’esercito di Assad ha risposto a gravissime provocazioni, ed è
spesso intervenuto per proteggere la popolazione. Via
via che la gente normale viene liberata dall’incubo dei «liberatori», racconta
com’era la vita nei territori «liberati»: «Nei quartieri che controllavano, le bande armate
hanno impedito ai bambini di andare a scuola, hanno ucciso operai che si
recavano al lavoro, hanno vietato ai contadini di andare a seminare sulla
propria terra e alle centrali elettriche di rifornirsi; hanno rubato ambulanze,
si sono impadroniti di automezzi di privati e delle municipalità. Hanno
distrutto la vita dovunque si sono installati». AD
Homs,un cittadino ha raccontato come un cecchino abbia tenuto nel terrore un
certo numero di strade, che controllava da una terrazza: fra gli uccisi, un
bambino di 11 anni, di nome Malek El Akta. Uno dei ribelli arrestati a Baba
Amra ha ammesso, senza batter ciglio, d’aver assassinato almeno cinquanta
persone e violentato decine di donne. Si considera un buon musulmano, perché
(racconta la Khost) «degli sheik wahabiti dell’Arabia Saudita, così come lo
sheik di Al-Jazira Kardawi, pronunciano delle fatwah che legalizzano l’assassinio
di alauiti, cristiani, drusi oltrechè dei sunniti favorevoli al governo»
siriano. «Le bande siriane che eseguono
queste fatwah ricevono fondi dal Katar e dall’Arabia Saudita, insieme alle
droghe, che l’armata regolare siriana confisca in quantità insieme alle armi». L’armamento
trovato ai ribelli sconfitti merita un capitolo a parte: «obici, mitragliatori
di ogni genere, bombe assordanti, obici anti-carro, visori notturni, giubbotti
anti-proiettile, materiale di trasmissione sofisticato», insieme a «valute
occidentali e israeliane, diversi passaporti». Fra questi, un notevole
«passaporto per il paradiso» emesso dagli sceicchi sauditi. «Questi sceicchi non conoscono la raccomandazione
fatta, all’inizio dell’Islam, dal califfo Omar bin el Khattab: ‘Non uccidete
donne né bambini né vecchi, non tagliate alberi, e lasciate i monaci nei loro
conventi». In
che progetto si iscrive questa violenza di massa indiscriminata, questo
terrorismo pagato dall’estero e che si vale di guerriglieri stranieri, chi è
colpevole di questi delitti? Perché questa non è una strategia di «liberazione»
di un popolo oppresso, ma di «conquista» e di terra bruciata. «L’obbiettivo di questo terrorismo», scrive Nadia
Khost, «è frantumare la società siriana, infliggere perdite all’esercito, fare
a pezzi la Siria, paralizzare la produzione agricola, industriale, artigianale.
Distruggere la struttura dello Stato». (Qui est
responsable des crimes en Syrie?) È
un’analisi che coincide con l’allarme che da mesi lancia Madre Agnes-Mariam de
la Croix, carmelitana, superiore del convento di San Giacomo l’Interciso, su tutti
i mezzi cattolici specialmente francesi, inascoltata. La stessa Madre
Agnes-Mariam ha riferito ai ricercatori di una commissione francese (ne
riparleremo) che nella orribile giornata del 6 dicembre, ad Homs «liberata»,
più di cento persone «sono state ammazzate
in combattimenti interconfessionali… ci sono state scene spaventose, donne
violate, seni tagliati, persone trucidate e troncate a pezzi. Un commerciante è
stato ucciso per aver venduto qualcosa a un polizotto. Un giovane sposo
cristiano è stato assassinato perché rifiutava di manifestare a fianco degli
insorti». Facile
ritenerle voci isolate di minoranze che hanno tutto l’interesse alla stabilità
del regime siriano, da cui sono protette e garantite; o a pura propaganda del
regime. Ma va segnalato che tre sperimentati giornalisti di Al Jazeera,
praticamente tutto l’ufficio di Beirut, si sono dimessi denunciando le
falsificazioni dell’emittente sulla tragedia siriana, la censura ai loro
reportages che documentavano ciò che non andava documentato, e le pressioni
subite dal proprietario, l’emiro del Katar. Non capita spesso in Occidente che
tre grandi firme si licenzino, giocandosi la carriera e il prestigio di
lavorare per una catena internazionale, per difendere la verità e la dignità
professionale. È strano che i loro colleghi in Occidente non abbiano dato
rilievo alla loro decisione, anzi l’abbiano nascosta. Diamo
almeno i nomi: Ali Gashem, inviato speciale da Beirut in Siria, il direttore
dell’ufficio Hassan Shaaban, e il produttore, quest’ultimo in protesta perché
Al Jazeera «ha totalmente ignorato il referendum tenuto in Siria per la riforma
costituzionale, che ha visto alle urne il 57% degli aventi diritto e il 90% dei
voti a favore del cambiamento». (Al Jazeera
exodus: Channel losing staff over ‘bias’) Accuse
di reportages falsi e video «fabbricati» sulla Siria, allo scopo di screditare
il regime, sono venute da più parti, non solo contro Al Jazeera, ma contro la
CNN e la BBC. Molte scene di bombardamento della città-martire di Homs da parte
dell’esercito siriano sono state messe in dubbio dal giornalista investigativo
Rafik Lotf, che ha esaminato i video: in molti casi, le nubi di fumo nero che
si elevano dai palazzi sarebbero pneumatici incendiati sui terrazzi… (Wag the dog: How to cook-up Syrian drama) | (Hollywood
in Homs and Idlib?) Notizia
parimenti censurata dai media occidentali: tre dirigenti del blocco anti-Assad,
o Consiglio Nazionale Siriano, se ne sono andati sbattendo la porta. Si tratta
di Haitham al-Maleh, Kamal al-Labwani e l’attivista dei diritti civili, la
cristiana Catherine al-Telli. Labwani ha spiegato che «non vogliamo essere complici del massacro del popolo
siariano», accusando il Consiglio di «essere legato a progetti stranieri che
puntano a prolungare la battaglia in attesa che il Paese sia trascinato nella
guerra civile». La
Lega araba, egemonizzata dai sauditi e dal Katar, ha come si sa condannato
subito il regime siriano, chiedendogli di accettare l’ispezione sul terreno di
una Commissione di osservatori arabi: Damasco ha accettato – probabilmente
contro le speranze dei sauditi, che dal rifiuto avrebbero tratto altri
argomenti di propaganda antisiriana – e la Commissione, una volta sul terreno,
ha dovuto ascoltare il grido di dolore dei siriani che denunciavano le atrocità
dei ribelli. Nel suo rapporto, ha dunque riferito di tali atrocità delle bande
armate, tenute nascoste dai media e ignorate dalle capitali occidentali e dalle
retrive monarchie arabe. Risultato: la Lega Araba ha gettato via il rapporto ed
ha preteso le dimissioni del capo-missione il generale sudanese Mohaed Ahmed
Mustafa Al-Dabi, colpevole di aver turbato la «narrativa» corrente. Infine,
una fonte insospettabile il «Centre Français de Recherche sur le
Renseignement», un gruppo d’intelligence privato allestito da vecchi dirigenti
del DST, insieme al Centre International de Recherche et d’Études sur le
Terrorisme & l’Aide aux Victimes du Terrorisme», hanno condotto una
inchiesta sul terreno. Il titolo del loro rapporto: «Siria, una libanizzazione
artificiale», già dice molto di quel che hanno appurato. Ma il testo merita una
lettura integrale. Si può trovare qui: www.cf2r.org Senza
lesinare critiche al regime siriano e alla sua gestione della crisi, non senza
sottolineare la crisi sociale di un Paese dove la disoccupazione giovanile è
altissima (e il 75% della popolazione ha meno di 24 anni) e la vita è
tragicamente rincarata nell’ultimo anno (condizioni comuni alle altre
«primavere arabe») il rapporto francese denuncia «la falsificazione orchestrata degli eventi, il gioco degli attori
stranieri che perseguono, attraverso il loro sostegno agli oppositori,
obbiettivi di politica estera che nulla hanno a che vedere con la situazione
interna del paese». Gli
ex agenti dei servizi di Parigi inquadrano la rivolta nella nuova politica
americana in Medio Oriente, politica che è stata battezzata come «instabilità
costruttiva». Tale strategia, dicono, «posa su tre principii: creare e gestire
conflitti a bassa intensità – favorire lo spezzettamento politico e
territoriale – e promuovere il settarismo, se non la pulizia
etnico-confessionale». Il
concetto e la tecnica di «instabilità costruttiva» sono stati elaborati, dicono
i francesi, dai centri neoconservatori americani. E citano al proposito una
analisi condotta da Robert Satloff, l’ebraico direttore del WINEP, Washington
Institute for Near East Policy (un braccio molto influente della lobby
israeliana), datato 15 marzo 2005. Dove Satloff scriveva che «gli americani non
hanno interesse alla sopravvivenza del regime di Assad, regime minoritario che
si regge sull’intimidazione»: nel 2005, al contrario, persino la presidenza
Bush jr. riteneva necessario puntellare il regime, a scanso di esplosioni
incontrollabili nell’area. Ma
Satloff, previdente, già consigliava tre tipi di azione: 1)
raccogliere un massimo d’informazioni sulle dinamiche sociali ed etniche
interne alla Siria; 2)
Agitare una campagna su temi come la democrazia, i diritti umani e lo Stato di
diritto; 3) «non offrire al regime siriano alcuna uscita di
sicurezza, a meno che il presidente Bashar Assad non sia disposto ad andare in
Israele nel quadro di una iniziativa di pace o se espelle dal territorio
siriano tutte le organizzazioni anti-israeliane, e rinunci alla violenza «lotta
armata o resistenza nazionale, come detta il gergo locale». Questa
politica americana (chiamiamola americana), dicono gli agenti francesi, «è stata largamente influenzata da una direttiva di
Oded Yinon, alto funzionario del ministero degli Esteri israeliano, datata
febbraio 1982, dove si delinea il progetto geostrategico di frammentare
l’insieme medio-orientale in unità le più minuscole possibile, fino allo
smantellamento puro e semplice degli Stati vicini ad Israele». Si
tratta dell’articolo apparso sulla rivista ebraica «Kivunim», stampata dal
Dipartimento propaganda della Organizzazione Sionista Mondiale, che i nostri
lettori già conoscono. Il rapporto francese ne cita un passo: «La decomposizione del Libano in cinque provincie prefigura
la sorte che attende l’intero mondo arabo, compreso Egitto, Siria, Iraq e la
penisola araba… La disintegrazione della Siria e dell’Iraq in provincie
omogenee dal punto di vista etnico e religioso, è l’obbiettivo prioritario di
Israele a lungo termine; a breve, l’obbiettivo è la dissoluzione militare di
questi Stati. La Siria si dividerà in più Stati secondo le linea di frattura
delle comunità etniche, sicchè la costa diverrà uno Stato alauita sciita; la
regione di Aleppo, uno Stato sunnita; a Damasco, un altro Stato sunnita ostile
al suo vicino (…). I drusi costituiranno il proprio Stato, che si estenderà sul
nostro Golan: questo Stato garantirà la pace e la sicurezza della regione (…).
È un obbiettivo fin d’ora alla nostra portata». Per
ora il piano ha avuto una battuta d’arresto. Le bande armate sono state
sconfitte, e con esse i loro manovratori internazionali. L’Iran ha affiancato
efficacemente il regime siriano (1). Russia e Cina hanno detto con chiarezza
che considereranno un intervento militare esterno contro Damasco una minaccia
alla propria sicurezza nazionale. La
specifica ancorché fragile «unità» del Paese, unica nel quadro del Medio
Oriente – espressa nella frase «siamo tutti siriani, qualunque sia la nostra
religione» – ha tenuto; le atrocità commesse dai ribelli e dalle bande
terroriste islamiste appunto per eccitare agli scontri religiosi e settari,
hanno prodotto una revulsione della maggioranza silenziosa che, se non appoggia
il regime, ancor più teme la libanizzazione, o la riduzione della Siria al caos
libico e iracheno. Il 40% della popolazione appartiene a qualche minoranza, ha
dunque solo da perdere dalla radicalizzazione eccitata da fuori. «C’è più tolleranza e libertà religiosa in Siria che
in qualunque altro Paese arabo», dice il patriarca melchita
Gregorios III. La
Costituzione approvata dal 90% dei siriani – chiamati al voto in quella
situazione – vieta i partiti fondati su base etnica e religiosa, e garantisce
il rispetto delle libertà personali. È stata oggetto di un vasto dibattito
nazionale nelle università, in TV, nei centri culturali. Quel
che vogliono distruggere, dice Nadia Khost, è «un
Paese che si distingue per un tessuto sociale dove le religioni, le confessioni
e le etnie si mescolano in una unità nazionale. Un Paese che traduce le opere
della letteratura mondiale, che ascolta la musica classica e la musica locale,
e dove le donne partecipano alla vita produttiva e pubblica». Nulla
sarà più come prima, dicono però molte altre voci consapevoli. Anche il Libano
era un modello di convivenza, prima che «la sicurezza di Israele» diventasse la
priorità a cui tutto si deve sacrificare, vite umane, civiltà, verità. Perché,
naturalmente, la strategia del terrore continua. Il 16 marzo due auto-bomba
piazzate davanti alle sedi dell’intelligence della forza aerea siriana e della
Polizia a Damasco hanno fatto 27 morti e 97 feriti; immediatamente dopo, una
bomba è esplosa in un autobus che portava membri dell’Armata di Liberazione
palestinese, una entità di palestinesi filo-Iran, nel sobborgo Al Yarmouk di
Damasco. Attentati-stragi «tipo Al Qaeda» in cui persino il sito ebraico DEBKA
Files indica la mano «dell’Arabia Saudita e del Katar per ravvivare la rivolta
anti-Assad, dopo che il regime ha schiacciato l’ultima ribellione armata ad
Idlib». Il vile gesto di rabbia dei regimi dove non si traducono libri della
letteratura mondiale, e dove alle donne non è permesso nemmmeno guidare l’auto
– e tuttavia godono del favore della Casa Bianca come promotori della
«democrazia». (At least 27 dead in Damascus bombings.
Russians man Syrian air defenses ) 1) Secondo DEBKA
Files, Teheran ha addirittura messo in opera un ponte aereo, «il più grande che
l’Iran abbia mai organizzato», per far giungere armi, munizioni ed esperti
militari ad Assad. Il ponte aereo è stato reso possibile «dal permesso di
Baghdad agli iraniani di sorvolare l’Iraq direttamente. Il presidente Barak
Obama ha cercato di intercedere con il primo ministro iracheno Nuri Al Maliki,
solo per riceverne un rifiuto». Anche Mosca ha dato un sostegno diretto,
fornendo le batterie di intercezione anti-aerea 50 Pantsyr S1, quasi certamente
operate da tecnici russi. È a queste batterie, secondo DEBKA, che si deve
l’ammissione del generale Martin Dempsey, capo degli Stati Maggiori USA, che
«la difesa aerea siriana è cinque volte più sofisticata di quella che c’era in
Libia, rendendo degli attacchi aerei più rischiosi e più complicati»: insomma,
l’intervento umanitario è rimandato. Insomma questa fase del conflitto segna
una netta sconfitta dei poteri occidentalisti i quali – è documentato – dal
canto loro avevano spedito elementi delle forze speciali francesi e inglesi a
fianco dei terroristi ribelli. Azione, è il caso di ricordarlo, contraria alla
legalità internazionale. Da:
pace-request at peacelink.it [mailto:pace-request at peacelink.it] Per conto di Mari Cor Stasera a Presa diretta cè un reportage dalla Libia fatto fra gli
altri da Gabriele Del Grande e altri giovani giornalisti rampant-umanitari. L'anno scorso, Del Grande e altri si erano decisamente schierati
(con tanto di interviste televisive a plasmare l'opinione pubblica) a favore
degli alleati locali della Nato - i cosiddetti ribelli libici. E
ovviamwente non ritenevano che la guerra Nato fosse un proble,a. Guardate qui cosa diceva il Gabriele Del Grande un anno
fa alla tivù (inneggiando alla guerra Nato e ai "giovani ribelli che
si sacrificano contro il feroce dittatore": Ex post Del Grande ha dovuto ammettere
che i mercenari non c'erano, e che chi ha compiuto violenze efferate sono stati
i suoi amici ribelli. Ma queste sue contraddizioni sono state la sua fortuna:
adesso la Rai lo fa manda come inviato a documentare le violenze nella Libia
post-Gheddafi. Da intervistato proribelli a inviato (ovviamente a
pagamento) che documenta le violenze contro i gheddafiani.Non si sente a
disagio? Ci sarebbero analoghe considerazioni da
fare su certi giornalisti e registgi che da tempoi campano sulle disgrazie dei
migranti in transito dalla Libia, sempre accuratamente evitando di dire quante
di queste sono state procurate dalla guerra Nato (criticano solo l'episodio del
mancato soccorso in mare, ma il milione di lavoratori di paesi poveri che
lavoravano in Libia e che la guerra Nato ha espulso, non sono un problema per
loro). Complimenti per la faccia tosta Marinella
Da: Vittorio Moccia
<v.moccia at itb.it>
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- References:
- Del Grande e gli altri: guardate cosa dicevano un anno fa!! "I ribelli libici sono bravi ragazzi"
- From: Mari Cor <mari.liberazioni at yahoo.it>
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