«Procedere come in Libia». Da un lato armando i ribelli. Dall’altro bombardando i centri militari nevralgici del regime. Perché – è questo il ragionamento che viene fatto – la misura è colma. Non si può più aspettare. Soprattutto dopo che i soldati lealisti di Assad hanno deliberatamente ucciso i due giornalisti, Marie Colvin e il fotografo Remi Ochik, decidendo di bombardare l’albergo che ospitava i reporter stranieri. Altri tre colleghi sono rimasti feriti.
La crisi siriana sembra quindi giunta a una svolta. In molti ambienti diplomatici sull’asse Tel Aviv-Gerusalemme è circolata per tutto il giorno la notizia – non smentita – che almeno cinque grandi Paesi si starebbero preparando militarmente per intervenire contro Assad. Si tratta – o meglio: si tratterebbe – di Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Turchia e Italia.
Negli ultimi giorni – rivelano alcune fonti – ci sarebbero state telefonate delicatissime tra Washington e Londra, tra Parigi, Roma e Ankara. Ma la cabina di regia delle operazioni sarebbe il ministero degli Affari esteri di Londra, dove i più acuti osservatori avrebbero notato un gran via vai di diplomatici e capi militari. Al centro delle discussioni: cosa fare per risolvere la situazione nel Paese e come muoversi in seguito. Dicono, le stesse fonti, che sul fronte americano, il Pentagono starebbe aspettando soltanto il via libera del presidente Barack Obama, il comandante in capo.
Sarebbe tutto pronto: i piani di attacco militare, quelli di protezione della popolazione. L’unico impedimento sarebbe costituito dal ruolo dell’intervento dei cinque Paesi e da una sua eventuale contraddizione con il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, dove c’è il veto della Russia a qualsiasi attacco. Intanto già da qualche giorno sarebbe iniziato il rifornimento – con armi e denaro – dei ribelli. Le munizioni sarebbero stati trasportati attraverso i confini con la Turchia e la Giordania.
I cinque governi di «volenterosi» starebbero vagliando la possibilità di sfruttare l’incontro degli «Amici della Siria» che ci sarà oggi – 24 febbraio – a Tunisi e dove un’ottantina di Paesi si riuniranno per decidere cosa farne del regime di Assad e come fermare le violenze. Ecco, l’occasione potrebbe essere quella giusta per dare il via definitivo al piano per fermare il bagno di sangue che dura ormai da mesi. Qui un ruolo cruciale lo giocherà il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton: inviata nel Paese nordafricano non solo per tastare gli umori, ma anche per allargare il gruppo di nazioni che decidono di intervenire. Cercando, nello scenario migliore, di convincere Arabi Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Qatar di abbandonare Assad al suo
destino.
«I governi di tutto il mondo devono raddoppiare gli sforzi per fermare la campagna di terrore del regime di Assad», ha detto il ministro degli Esteri britannico William Hague. Non ha precisato come. Un modo, a sentire certi vertici militari israeliani, «per lasciare aperta qualsiasi opzione». Certo, resta da capire cosa stanno facendo russi e cinesi. Secondo l’intelligence francese e quella britannica il presidente siriano Assad resta ancora al comando grazie all’aiuto dei satelliti dei due colossi che gli forniscono in tempo reale i movimenti dei ribelli, la loro posizione, le «criticità» del regime. Sembra che anche il palazzo che ospitava i giornalisti stranieri a Homs sarebbe stato individuato grazie ai satelliti russi e cinesi.
© Leonard Berberi
(ultimo aggiornamento: ore 01.50 del 24 febbraio 2012)