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articolo Fisk su Siria
- Subject: articolo Fisk su Siria
- From: semprecontrolaguerra <semprecontrolaguerra at gmail.com>
- Date: Fri, 03 Feb 2012 15:50:09 +0100
da Internazionale in edicola Damasco va alla guerra Robert Fisk, The Independent, Gran Bretagna Le violenze in Siria non accen nano a fermarsi. La Lega araba non sa più che fare. La segreta ria di stato statunitense Hillary Clinton continua ad alzare la voce alle Nazioni Unite, ma il regime siria no e i suoi fedeli sostenitori del partito Ba ath non fanno passi indietro. Gli unici a non essere sorpresi dalla situazione sono i paesi arabi: la Siria – che è considerata dai baathi sti la madre del popolo arabo – è da sempre un osso duro. I suoi leader sono tra i più te naci del Medio Oriente, abituati a quelli che Shakespeare avrebbe definito “i colpi di fionda e i dardi” scagliati dai nemici e dagli amici. Il no di Damasco alla pace con Israe le senza un ritiro incondizionato dalle altu re del Golan è famoso quanto il no di Char les De Gaulle all’ingresso della Gran Breta gna nel mercato comune europeo. Ma il re gime siriano non ha mai dovuto affrontare una crisi come quella in corso. Il numero dei morti è ancora lontano dalle diecimila o ventimila vittime della rivolta di Hama del 1982, stroncata da Hafez al Assad. Tuttavia le dimensioni della ribellione, le defezioni nell’esercito siriano, la perdita di tutti gli alleati arabi (tranne naturalmente il Liba no) e il lento scivolamento verso la guerra civile dimostrano che siamo di fronte al momento più difficile nella storia del paese dall’indipendenza. Un simbolo Assad può resistere? Ha l’appoggio della Russia. Il primo ministro russo Vladimir Putin e il presidente Dmitrij Medvedev non hanno intenzione di farsi mettere i piedi in testa dall’occidente alle Nazioni Unite, co me è successo l’anno scorso quando l’impo sizione della no ly zone sulla Libia ha porta to alla caduta di Muammar Gheddai. E c’è anche l’Iran, per il quale la Siria resta l’allea to più solido in Medio Oriente. I sospetti del governo iraniano, sul fatto che la comunità internazionale stia attaccando Damasco a causa dei suoi rapporti con Teheran, po trebbero non essere infondati. Colpire la Siria e il suo presidente alawita significherebbe colpire al cuore l’Iran. Israele resta in disparte, perché teme che il prossimo regime siriano possa essere più intransigente di quello attuale. Ma la Siria è anche un simbolo. Agli occhi degli arabi è l’unico paese che abbia osato oppor si agli occidentali. Damasco è stata l’unica a condannare l’accordo di pace del presi dente egiziano Anwar Sadat con lo stato ebraico, l’unica a voltare le spalle a Yasser Arafat e al suo fallimentare progetto di pace con Israele. Damasco ha sfidato coraggio samente l’invasore francese nel 1920 e di nuovo nel 1946, fino a quando il parlamento di Damasco è stato dato alle fiamme per stroncare la resistenza. Washington accusa la Siria di essere uno stato espansionista, ma la verità è che negli anni Damasco ha costantemente perso territori. Ha perso il Libano a causa delle mire francesi. Nel 1967 ha perso le alture del Golan, passate sotto il controllo di Israele. Nel mondo arabo c’è grande simpatia per la Siria, anche se non si può dire lo stesso per il regime che la gover- na. Bashar al Assad, che non è servile come Hosni Mubarak, ma nemmeno un pazzo scriteriato come Muammar Gheddafi, ne è perfettamente consapevole. Decenni di stabilità non hanno liberato la Siria dalla corruzione e la dittatura si è affermata gra- zie alla tendenza molto radicata nei popoli arabi a tollerare il male minore: meglio la dittatura dell’anarchia, meglio la pace della libertà, meglio il laicismo delle divisioni re- ligiose. Per rendersi conto di quali fossero le conseguenze di uno stato confessionale, ai siriani bastava guardare il Libano, dila- niato dalla guerra civile. Provo un certo imbarazzo per le parole che ho scritto ai tempi del conflitto in Liba- no, quando sostenevo che un giorno, dopo che l’esercito siriano era stato per anni in missione di pace in Libano, l’esercito liba- nese avrebbe potuto essere chiamato in missione di pace in Siria. All’epoca era una provocazione, ma forse oggi non lo è più. Una missione di pace dell’esercito libanese in Siria potrebbe essere una soluzione. Sa- rebbe paradossale, considerando la presen- za dell’esercito siriano in Libano dal 1976 al 2005. Ma rende l’idea del cambiamento in corso in tutto il Medio Oriente. La verità è che il regime siriano dovrà sbrigarsela da solo. La dottrina degli Assad è sempre stata quella di resistere a tutti i costi. Ma il bagno di sangue a Homs e nel resto del paese e le torture fanno pensare che As- sad sia davvero al capolinea. I siriani vengo- no uccisi in strada come gli egiziani, i libici e gli yemeniti. Assad sembra ancora con- vinto di poter realizzare le riforme prima che il paese si disintegri. Nessuno crede che possa farcela. Ma c’è una domanda che non ci siamo ancora posti. Se il regime siriano riuscirà davvero a sopravvivere, che ne sarà della Siria? as Robert Fisk è il corrispondente mediorien- tale del quotidiano britannico The Indepen- dent.
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