articolo Fisk su Siria



da Internazionale in edicola

Damasco
va alla guerra
Robert Fisk, The Independent, Gran Bretagna

Le violenze in Siria non accen­
nano a fermarsi. La Lega araba
non sa più che fare. La segreta­
ria di stato statunitense Hillary
Clinton continua ad alzare la
voce alle Nazioni Unite, ma il regime siria­
no e i suoi fedeli sostenitori del partito Ba­
ath non fanno passi indietro. Gli unici a non
essere sorpresi dalla situazione sono i paesi
arabi: la Siria – che è considerata dai baathi­
sti la madre del popolo arabo – è da sempre
un osso duro. I suoi leader sono tra i più te­
naci del Medio Oriente, abituati a quelli che
Shakespeare avrebbe definito “i colpi di
fionda e i dardi” scagliati dai nemici e dagli
amici. Il no di Damasco alla pace con Israe­
le senza un ritiro incondizionato dalle altu­
re del Golan è famoso quanto il no di Char­
les De Gaulle all’ingresso della Gran Breta­
gna nel mercato comune europeo. Ma il re­
gime siriano non ha mai dovuto affrontare
una crisi come quella in corso. Il numero dei
morti è ancora lontano dalle diecimila o
ventimila vittime della rivolta di Hama del
1982, stroncata da Hafez al Assad. Tuttavia
le dimensioni della ribellione, le defezioni
nell’esercito siriano, la perdita di tutti gli
alleati arabi (tranne naturalmente il Liba­
no) e il lento scivolamento verso la guerra
civile dimostrano che siamo di fronte al
momento più difficile nella storia del paese
dall’indipendenza.
Un simbolo
Assad può resistere? Ha l’appoggio della
Russia. Il primo ministro russo Vladimir
Putin e il presidente Dmitrij Medvedev non
hanno intenzione di farsi mettere i piedi in
testa dall’occidente alle Nazioni Unite, co­
me è successo l’anno scorso quando l’impo­
sizione della no ly zone sulla Libia ha porta­
to alla caduta di Muammar Gheddai. E c’è
anche l’Iran, per il quale la Siria resta l’allea­
to più solido in Medio Oriente. I sospetti del
governo iraniano, sul fatto che la comunità
internazionale stia attaccando Damasco a
causa dei suoi rapporti con Teheran, po­
trebbero non essere infondati. Colpire la
Siria e il suo presidente alawita significhe­rebbe colpire al cuore l’Iran.
Israele resta in disparte, perché teme
che il prossimo regime siriano possa essere
più intransigente di quello attuale. Ma la
Siria è anche un simbolo. Agli occhi degli
arabi è l’unico paese che abbia osato oppor­
si agli occidentali. Damasco è stata l’unica
a condannare l’accordo di pace del presi­
dente egiziano Anwar Sadat con lo stato
ebraico, l’unica a voltare le spalle a Yasser
Arafat e al suo fallimentare progetto di pace
con Israele. Damasco ha sfidato coraggio­
samente l’invasore francese nel 1920 e di
nuovo nel 1946, fino a quando il parlamento
di Damasco è stato dato alle fiamme per
stroncare la resistenza. Washington accusa
la Siria di essere uno stato espansionista,
ma la verità è che negli anni Damasco ha
costantemente perso territori. Ha perso il
Libano a causa delle mire francesi. Nel 1967
ha perso le alture del Golan, passate sotto il
controllo di Israele. Nel mondo arabo c’è
grande simpatia per la Siria, anche se non si
può dire lo stesso per il regime che la gover-
na. Bashar al Assad, che non è servile come
Hosni Mubarak, ma nemmeno un pazzo
scriteriato come Muammar Gheddafi, ne è
perfettamente consapevole. Decenni di
stabilità non hanno liberato la Siria dalla
corruzione e la dittatura si è affermata gra-
zie alla tendenza molto radicata nei popoli
arabi a tollerare il male minore: meglio la
dittatura dell’anarchia, meglio la pace della
libertà, meglio il laicismo delle divisioni re-
ligiose. Per rendersi conto di quali fossero
le conseguenze di uno stato confessionale,
ai siriani bastava guardare il Libano, dila-
niato dalla guerra civile.
Provo un certo imbarazzo per le parole
che ho scritto ai tempi del conflitto in Liba-
no, quando sostenevo che un giorno, dopo
che l’esercito siriano era stato per anni in
missione di pace in Libano, l’esercito liba-
nese avrebbe potuto essere chiamato in
missione di pace in Siria. All’epoca era una
provocazione, ma forse oggi non lo è più.
Una missione di pace dell’esercito libanese
in Siria potrebbe essere una soluzione. Sa-
rebbe paradossale, considerando la presen-
za dell’esercito siriano in Libano dal 1976 al
2005. Ma rende l’idea del cambiamento in
corso in tutto il Medio Oriente. La verità è
che il regime siriano dovrà sbrigarsela da
solo. La dottrina degli Assad è sempre stata
quella di resistere a tutti i costi.
Ma il bagno di sangue a Homs e nel resto
del paese e le torture fanno pensare che As-
sad sia davvero al capolinea. I siriani vengo-
no uccisi in strada come gli egiziani, i libici
e gli yemeniti. Assad sembra ancora con-
vinto di poter realizzare le riforme prima
che il paese si disintegri. Nessuno crede che
possa farcela. Ma c’è una domanda che non
ci siamo ancora posti. Se il regime siriano
riuscirà davvero a sopravvivere, che ne sarà
della Siria? as
Robert Fisk è il corrispondente mediorien-
tale del quotidiano britannico The Indepen-
dent.