Ai miei amici giornalisti e
dintorni…
Cari amici,
vi trasmetto copia di questa mia lettera
che esce sul n. 4 della rivista Settimana (edita dai
Dehoniani di Bologna).
Prima di questa, a seguito dell’uscita
su Avvenire di una pubblicità a FINMECCANICA, avevo scritto al direttore di quel
giornale e al vescovo che presiede la Soc. Editoriale a nome
della CEI, senza avere alcuna risposta.
A quel
punto ho buttato giù il testo che vi allego. Il mio sogno
(chiamatelo pure presunzione… o illusione) sarebbe che
fossimo un bel po’ di preti e laici a sollecitare
ciascuno i rispettivi Vescovi per un “richiamo” ad Avvenire e
soprattutto perché il tema della pace — che è sia la
produzione e vendita di armi, sia l’affossamento del
servizio civile, sia soprattutto l’educazione alla pace delle
giovani generazioni… — venga messo all’ odg nell’assemblea
generale della CEI.
Si può almeno
provarci?
Saluti
d. Antonio Lecconi
***
Cara Settimana,
in questo mese di gennaio, aperto
ancora una volta con la giornata mondiale della pace, vorrei
lanciare qualche provocazione sul tema, magari aprendo
un confronto da queste colonne per riflettere se e come la pace è
un punto fermo importante nella coscienza dei credenti, e quanto nelle
nostre attenzioni pastorali abbia spazio e significato
l’educazione alla pace, anche in riferimento a quella “vita buona del
Vangelo” messa a tema dalla CEI. E per
ricordarci, poiché mi pare che ce ne sia bisogno, che non si può
affrontare il tema della pace senza condannare quello che è il
suo contrario, cioè la guerra, la violenza non solo
personale ma anche istituzionalizzata, né
senza criticare scelte politiche insensibili o
inadatte ad attivare percorsi di
pacificazione.
Ho parlato di provocazione
a partire dal fatto di essermi sentito provocato
trovando, sul numero di Avvenire del 30 dicembre u.s., una
pubblicità a tutta pagina (l’ultima) della FINMECCANICA, azienda italiana — o meglio, gruppo di
aziende — la cui attività principale è nel settore difesa e
aerospazio, vale a dire produzione e vendita di armi da
guerra. La stessa pubblicità è apparsa in quel periodo sul
Corriere della sera e altre grosse testate, portando nelle casse dei
giornali parecchi soldi. In cambio dei quali, in un colpo solo,
il “quotidiano della CEI” ha
sorvolato su un paio dei dieci comandamenti: “non
ammazzare” ma anche “non dire falsa testimonianza”. Infatti il
testo ospitato dall’Avvenire era estremamente reticente, al
limite del falso, sulla principale attività di
Finmeccanica. Che produce armi non solo difensive, ma
anche per l’attacco, strumenti sofisticati estremamente
devastanti, destinati a tutt’altro scopo che la
salvaguardia e la restaurazione della pace, o le azioni
di polizia internazionale che, sulla base della
Costituzione, dovrebbero essere le uniche attività
militari consentite alle nostre forze armate.
Finmeccanica produce gli “strumenti di lavoro” per
operazioni che un cristiano dovrebbe cercar di evitare
e, se ad esse obbligato, dichiarare la propria obiezione di
coscienza.
Il paginone pubblicitario, che
alludeva genericamente ad attività nel campo della
difesa senza che vi comparisse l’aggettivo militare,
evidenziava soprattutto il numero delle persone
occupate: 75.000 posti di lavoro, di cui 45.000 in Italia. Non so se
ciò basti a giustificare Avvenire. Con la stessa logica si
potrebbero pubblicizzare la prostituzione, le
attività mafiose, la produzione dei farmaci abortivi:
settori che danno lavoro a molte persone!
Purtroppo, quella
pubblicità mi è sembrata emblematica di una Chiesa che
fa sempre più fatica a parlare di pace, a educare alla pace, a
prendere le distanze dalla guerra e dagli apparati militari. Una
Chiesa che ripetutamente accetta e benedice le
cosiddette “operazioni di pace” anche quando si tratta di
interventi armati miranti soprattutto a tutelare interessi
strategici ed economici dell’Occidente. Anche
ultimamente, purtroppo in occasione delle esequie di
militari italiani uccisi in Afghanistan, si assistite a
riti e omelie in cui chi celebra non si limita all’annuncio della
morte e risurrezione di Gesù e della speranza cristiana
nella vita eterna, ma sconfina in concetti e toni da “religione
civile” con forme neanche troppo implicite di avallo a interventi
bellici sbrigativamente definiti di tutela della
pace, chiamando senza esitazione “operatori di pace” i
militari coinvolti. Credo che sia il caso di fermarci a
riflettere sul significato che sempre più
chiaramente assumono le missioni militari all’estero
del nostro paese, a cominciare dall’Afghanistan: operazioni di
cui è sempre più arduo definire la plausibilità,
l’obiettivo, la durata. Per di più, con la fine di fatto (se non di diritto)
dell’esercito di leva, gli operatori della difesa sono persone
che scelgono liberamente una professione ad alto
rischio, con relativi alti compensi. La Patria, la bandiera, gli
ideali hanno lo stesso valore simbolico per tutti i militari che
scelgono questo “mestiere”? Che differenza c’è, nella
sostanza, rispetto ad altri lavori pericolosi e ad altre morti sul
lavoro? E quali sono i “ritorni” di natura politica e anche
economica di queste operazioni?
Pur in presenza
di legittimi dubbi sull’ambiguità del concetto di “difesa”, sono in
atto forme di propaganda tra i giovani del servizio
militare, in particolare gli stages nei diversi corpi
delle forze armate di ragazzi e ragazze, con il rilascio di crediti
formativi. In contemporanea, il servizio
civile si avvia alla scomparsa per i continui tagli
apportati dal governo a quel che sopravvive dell’esperienza; con il
colpevole oblio del significato che ha avuto per molti dei
nostri giovani, in termini di educazione alla pace e alla
solidarietà.
Uno dei pochi settori statali (l’unico?) su
cui non si è abbattuta la scure di Tremonti è la difesa, o meglio il
riarmo, dal momento che il ministro Ignazio La Russa si prepara a
firmare il contratto per la fornitura di ben 131 aerei da
guerra, onorando così un impegno assunto 12 anni fa dal governo
presieduto da Massimo D’Alema. Costo finale stimato: oltre
15 miliardi di euro. Gli aerei in questione sono del tipo Joint Strike F
35, cacciabombardiere monoposto molto
sofisticato. Una ricerca dell’Archivio disarmo lo definisce
“dotato di grande forza distruttiva e in grado di trasportare
armi nucleari”. La recente legge di stabilità (l’ex
finanziaria) ha stanziato i primi 471 milioni, la cifra
iniziale che consente all’Italia di partecipare alla
progettazione e costruzione del nuovo aereo da guerra (per
fare un raffronto, alle politiche familiari sono stati
assegnati 47 milioni). Ma questa è solo una voce del nutrito
programma approvato, con l’astensione del PD,
dalla Commissione difesa del Senato: 10 elicotteri, siluri
per sommergibili, armamenti da attacco da montare sugli
elicotteri, mezzi navali, mortai e altro, per una cifra totale
che si aggira sui 700 milioni da spendere da qui al 2018. All’aumento della
strumentazione militare si accompagna la
progettazione di insediamenti e strutture
logistiche a supporto dell’utilizzo dei mezzi militari.
Proprio a Pisa, la mia città, l’aeroporto militare sarà ampliato per
diventare un hub, vale a dire una struttura di smistamento
del traffico aereo e di tutto ciò che dovrà essere inviato all’estero per
operazioni militari concertate in relazione alle
alleanze strategiche internazionali. Queste
forme di espansione dell’attività militare avvengono con poche e
incomplete informazioni ai cittadini, mentre è
pressoché scomparso il controllo parlamentare
sulla produzione e la vendita di armi. Le
amministrazione locali, indipendentemente dal
colore politico, vedono di buon occhio attività che forse
porteranno un po’ di lavoro e di denaro al
territorio.
Fermiamoci un poco a riflettere,
chiediamoci se le strategie in atto da parte dell’occidente,
Italia compresa, siano il mezzo più adatto a difendere la pace,
combattere il terrorismo, avviare processi verso
la democrazia. È sotto i nostri occhi il fallimento di
interventi come quelli in Aghanistan e in Iraq. Proprio in
quest’ultimo paese il Papa ha lamentato, nel recente messaggio
per la giornata della pace, il diffondersi della violenza
contro i cristiani: non è uno degli effetti della guerra “contro
il male”?
All’accresciuta militarizzazione della
politica estera, corrisponde il quasi totale
smantellamento, da parte dell’Italia, della
cooperazione allo sviluppo ridotta a stanziamenti
irrisori, frammentari, emergenziali, peraltro
causa di notevoli difficoltà per le ONG e
il volontariato internazionale; una delle
principali voci di spesa è per il respingimento degli
immigrati. Ciò attesta l’indifferenza delle istituzioni, e
anche di larga parte della società civile e dei mass-media, verso la povertà
planetaria, la fame, la disperazione dei popoli più
poveri soprattutto nel continente africano. In pochi anni è
quasi scomparsa la sensibilità maturata in
occasione del Giubileo del 2000 per la remissione del debito
estero dei paesi più poveri.
A questo punto mi chiedo se la Chiesa
italiana non possa e non debba manifestare
preoccupazione, prendere la parola contro le
prospettive di riarmo e l’assenza di politiche di
cooperazione internazionale, rilanciare
l’educazione alla pace soprattutto delle nuove generazioni.
Fatico a capire perché questa attenzione non debba essere
altrettanto forte delle ripetute prese di posizione contro
l’aborto e l’eutanasia, a difesa della sacralità della vita e del suo
valore inviolabile.
Affinché questo avvenga, oso
lanciare dalle colonne di Settimana una proposta: che
la CEI, nella prossima assemblea
generale, metta all’ordine del giorno il tema della pace e la
responsabilità rispetto ad essa di chi ci governa, prendendo
una posizione chiara, precisa, evangelica contro
l’aumento delle spese militari e in particolare contro
l’adozione da parte delle forze armate italiane di strumenti
tipicamente offensivi. Ogni credente, ogni
battezzato – preti, laici, religiosi, religiose – che ha a
cuore la pace come dono di Dio affidato all’umanità, ogni
cittadino cristiano che crede in Gesù Cristo “che è la
nostra pace” e vuole rispettare la Costituzione che “ripudia
la guerra” si faccia portatore della richiesta al
proprio Vescovo.
Non è tempo per affliggersi o
recriminare, per rassegnarsi o arrabbiarsi: con umiltà,
rispetto e fiduciosa speranza manifestiamo ai nostri pastori
il desiderio di pace affinché, se lo crederanno
opportuno, diano voce, forza e riconoscimento a una
passione che è nel cuore di tanta parte del popolo
di Dio
don Antonio Cecconi
parroco di Calci e della
Valgraziosa (Pisa)
18 gennaio 2011