Re: Re: R: Re: [pace] Lettera a Roberto Saviano (in risposta alla sua lettera agli studenti)



----- Original Message -----
From: alfonsonavarra at virgilio.it
To: pace at peacelink.it
Sent: Saturday, December 18, 2010 11:17 AM
Subject: I: Re: R: Re: [pace] Lettera a Roberto Saviano (in risposta alla sua lettera agli studenti)

Non bisogna parlare dall'alto di questo movimento, di questi movimenti, ma neanche dall'esterno.
La crisi di questo sistema infatti sta per travolgerci tutti ed il problema della mancanza di futuro non è solo affare dei giovani studenti.
La situazione si farà chiara ben presto, ed anche le nicolette (al pari del sottoscritto) si troveranno concretamente a fare i conti con la loro personale rabbia ed angoscia.
Non la salverà, non ci salverà, avere il "posto" nel pubblico impiego, o essere pensionata, o avere qualche gruzzoletto risparmiato in banca.
Grecia ed Irlanda cominciano ad insegnare su questo (ed anche per questi Paesi il crollo del tenore di vita è appena cominciato).
Il punto diventa quindi come organizzarsi per una risposta collettiva che vada oltre lo sfogo rivoltoso, più o meno soggettivo, e ponga le basi per una vera alternativa sistemica.
Non si tratta solo di affermare: non vogliamo pagare la "crisi", come si urla oggi nei cortei di tutta Europa.
Si tratta anche di avere delle "ricette" valide per gestire una società con delle dinamiche che non siano quelle che hanno prodotto la "crisi".
Ho chiesto ad uno dei ragazzi di ritorno da Roma: perchè non chiudi il tuo conto corrente in Banca Intesa?
Make school non war significa anche non affidare i propri soldi alle banche armate e nucleari...
Risposta del giovane "rivoluzionario", che mi aiuta nello Sportello legale pro immigrati: Sarebbe "destabilizzante". L'economia rischierebbe il caos facendo fallire le banche. I soldi di chi ritira i depositi perderebbero valore. Poi il problema non è il denaro, ma come rilanciare lo sviluppo produttivo".
Questo giovane è intriso della stessa cultura economicista della "sinistra" dei Ferrero, del "Manifesto", di "Carta": non coglie l'importanza della rivendicazione di avere la moneta pubblica, statale (bene comune al pari dell'acqua); e la necessità di nazionalizzare la funzione del grande credito (che stiamo oltretutto già sostenendo con denaro pubblico).
Né è capace, lui con noi, di organizzare da subito cooperative finanziarie per gestire prestiti che sostengano, qui ed ora, che so, "distretti di economia solidale".
E' veramente desolante: stiamo a discutere di violenza e di nonviolenza degli studenti, mentre - ripeto - il problema è che noi tutti oggi non siamo in grado di esprimere culturalmente, politicamente, una società diversa, al di là di singoli momenti di resistenza o di pratiche settoriali dal valore molto limitato.
Anche per questo la Storia non ci risparmierà grandi lutti e sofferenze, come abbiamo purtroppo visto per il passato.
Non siamo affatto così speciali, anzi dal punto di vista della capacità di creare forza collettiva e percorsi generali siamo molto più indietro rispetto ai movimenti degli anni '60-'70 (per riferirsi solo a quelli che abbiamo personalmente vissuto)...
Io comunque sono ottimista: sbagliando, sputando lacrime e sangue, sbattendo la testa contro i muri, alla fine ce la faremo ad imboccare la strada per l'uscita dal labrinto in cui (anche per colpa nostra, non dimentichiamolo!) ci hanno cacciati ...

----Messaggio originale----
Da: info at helptochange.org
Data: 17-dic-2010 9.01 PM
A: <pace at peacelink.it>
Ogg: Re: R: Re: [pace] Lettera a Roberto Saviano (in risposta alla sua lettera agli studenti)

Ancora, ancora una volta si vogliono dare spiegazioni a certi fenomeni con categorie economiciste: i giovani sono arrabbiati perché non hanno un futuro, perché non troveranno un lavoro, perché il loro papà o la loro mamma sono precari o senza lavoro. E' una fissazione! 
C'è ingenuità, ignoranza o manipolazione?

Vito

Il giorno 17 dicembre 2010 18:42, Roberto Vignoli <rvignoli at gmail.com> ha scritto:
La rabbia
di Giuliano Santoro, edioriale da Carta.org
[16 Dicembre 2010]

«E’ stata la giornata più bella della mia vita». Un ragazzo appena diciottenne utilizza queste parole per raccontare il 14 dicembre scorso di Roma. Ragionare sul grande corteo di sfiducia a Berlusconi e sulla rabbia che è esplosa nelle piazze e nelle strade, significa mettersi all’ascolto della sua anima più difficile alle classificazioni. Per farlo, bisogna sgomberare il campo dallo scandalo per le pratiche di piazza come dal feticismo della azione fine a se stessa. Sono, questi, due punti vista che sono molto più simili di quanto possa sembrare, perché condividono l’impostazione generale di concentrarsi sull’«evento» [sulle sue rappresentazioni mediatiche e sulle conseguenti speculazioni politiche] più che sulla sostanza delle cose.
Chi sostiene la tesi, al fondo complottista e quindi per definizione indimostrabile, degli «infiltrati» così come chi va alla ricerca di «black bloc» separati dal blocco sociale degli studenti, dei precari e dei movimenti che hanno manifestato il 14 dicembre, ha deciso di girare la testa dell’altra parte e di non guardare all’essenza della questione, quella cioè di una composizione sociale che è refrattaria all’organizzazione. Checché ne dicano Alemanno e Maroni, infatti, i gruppi organizzati – per quanto radicali – hanno giocato un ruolo minimo negli scontri più duri.
Lo stesso pm romano che ha gestito le sorti giudiziarie dei fermati ha spiegato così la sua decisione di procedere per direttissima: «ci troviamo di fronte a ragazzi e ragazze incensurati e giovanissimi». Il dato anagrafico merita una riflessione. La generazione degli attuali trentenni ha imparato a capire che il futuro non era più quello di una volta da alcuni segnali profetici: dalle parabole di San Precario e dai percorsi minati nella selva di contratti dei pacchetti Treu e delle leggi 30. Quelli che si sono laureati negli anni scorsi, si sono messi a cercare fatica o magari stanno provando a costruirsi un lavoro nella disastrata università pubblica, accovacciandosi nella umiliante condizione di dover godere di rimbalzo dei «privilegi» delle famiglie fondate negli anni delle assunzioni del pubblico impiego, del lavoro fisso, dei mutui a tasso agevolato e dell’equo canone. Ma quelli che la scuola e l’università ancora la frequentano, quelli che all’inizio degli anni zero frequentavano la scuola elementare, in molti casi sono figli della primissima generazione di precari. Non hanno ammortizzatori sociali familiari ed ereditano – sono i primi a sperimentarlo – dal Dna precario dei loro genitori la condizione «no future».
Due persone dal lato opposto della barricata, in altrettante interviste comparse oggi, dicono cose che in qualche modo sono compatibili. Il capo della polizia Antonio Manganelli in un’intervista all’Unità lamenta che «le tensioni sociali e l’instabilità politica ed economica costringono le forze dell’ordine a svolgere una attività di supplenza e di superlavoro». Per l’ex leader di Potere operaio Franco Piperno, i fatti di piazza del Popolo testimoniano «l’esistenza di una rabbia sociale diffusa». La rabbia, scrive invece sulla Stampa Marco Belpoliti, è dovuta al fatto che ci troviamo nell’era delle rivolte. Ci si ribella a Roma come a Londra e ad Atene. Ci si scambiano simboli e tattiche di piazza. Dall’Italia si porta in dote a un movimento che tende a essere continentale la capacità e l’intelligenza di non farsi ingabbiare in un’etichetta, di diversificare le pratiche, di muoversi su più livelli, di alternare il flash-mob al book-bloc, la barricata alla performance di piazza e al seminario autogestito. Di essere davvero imprevedibili.
La rivolta, sostiene ancora Belpoliti, è «l’analogo della catastrofe cui ci ha abituato il nuovo capitalismo finanziario». È un dato di fatto con cui devono fare i conti i movimenti e le reti sociali che cercano di uscire dalla morsa della crisi. Per questo. nessuno di quelli che puntano davvero a ricostruire l’opposizione ai tagli e cercano di conquistare nuovi diritti, può chiamarsi fuori dai fatti di Roma.

Il 17/12/2010 12:47, alfonsonavarra at virgilio.it ha scritto:

L'intelligenza strategica e l'esperienza storica diretta (per quel che
mi riguarda, dal '68 in poi) dovrebbero ormai averci fatto capire che
la violenza fisica organizzata è il terreno privilegiato della "forza"
del potere oligarchico, mentre l'unità popolare è la "forza" della
nonviolenza tendente al potere di tutti.
Dietro gli scontri di piazza,
come sempre, ci sono i soliti "cattivi maestri" politici e un po' di
giovani attivisti imbecilli, come ero imbecille io a suo tempo, quando
militavo nella sinistra gruppettara.
Nessun popolano di buon senso si
affiderebbe ai teppisti - visibilissimi in TV - che attaccano le
camionette della polizia sradicando i cartelli segnaletici del
traffico. E non ditemi che si stavano solo "difendendo"!
A conti fatti,
tutto grasso che cola e che colerà per Berlusconi ed il berlusconismo.
Il vero problema per questi ragazzi è che - spero tanto di sbagliarmi -
non hanno una minima idea di una vera alternativa culturale e sociale -
proprio a partire dalla questione dell'istruzione pubblica - e che
proprio per questo molti di loro (specialmente gli arroganti figli di
papà che giocano la vita loro e con quella degli altri: ricordate
Pasolini she stava con i poliziotti "proletari"?) sono sensibili allo
sfogo rabbioso che lascia il tempo che trova.
E non hanno gli strumenti
culturali per tacitare ed isolare i "ribellisti", infiltrati o meno,
che sono tutt'altra cosa dai rivoluzionari"...
Il leaderetto
presuntuoso che concionava dal balcone di "Annozero" mi sembrava la
perfetta controfigura del post-fascista La Russa in studio... uniti, al
fondo, dalla stessa disgustosa mentalità dell'"ho ragione, sono nel
giusto, quindi tutto quello che faccio è giusto" (che implica il
disprezzo del prossimo, del diverso da te, del chi non la pensa come
te).
Dio ci salvi, egualmente, dallo Stato militarista e dal
controstato guerrigliero!
Buone feste a tutti e che l'anno nuovo ci
porti consiglio.








----Messaggio originale----
Da: nicam6@gmail.
com
Data: 16-dic-2010 8.46 PM
A:<pace at peacelink.it>
Ogg: Re: [pace]
Lettera a Roberto Saviano (in risposta alla sua lettera agli studenti)

A me la lettera di femminismo a sud è sembrata molto bella,
condivisibile, e
spero che Saviano la legga ed impari qualcosa,  e non
mi sembra tanto un
inno alla nonviolenza, ma alla nonviolenza di chi
subisce, mentre non vuol
vedere la violenza del potere...
Non riesco a
capire come si riesca a guardare la situazione con un simile
filtro,
per cui quello che fa la polizia, che fa lo stato, che hanno
vergognosamente fatto i "nostri " rappresentanti in parlamento , in
tutto
ciò non c'è violenza contro tutte e tutti, in particolare contro
la vita ed
il futuro? Come chiamiamo i giovani alla nonviolenza?, senza
riconoscere la
violenza del potere e proponendo se mai delle forme
attive di resistenza
davvero non violente?  Io credo che la violenza
sia funzionale al potere, e
che questi giovani o erano provocatori o
semplicemente persone incavolate
che non hanno trovato altri mezzi per
far sentire il loro disagio: ma chi
gli da rappresentanza? chi gli
offre dei mezzi diversi? non sono certo le
lettere di Saviano che
salveranno un paio di generazioni senza alcun futuro
che assistono
impotenti allo scempio quotidiano !
Nicoletta

Il giorno 16 dicembre
2010 17:43, Claudio Pozzi<clany at clany.it>  ha scritto:

 Grazie Nada
per aver messo il link alla lettera di Saviano su Repubblica.
Sono
andato a leggerla anche io, la condivido in pieno mentre ovviamente non
condivido affatto la lettera di insulti gratuita e, peraltro, anonima
uscita
sul sito femminismo al sud.
La lettera di Saviano è un inno
alla nonviolenza, alla forza della verità,
delle parole che quelle sì
possono davvero sfondare i blocchi della polizia
e raggiungere non
solo Piazza Montecitorio ma propagarsi dovunque e
soprattutto nei
cuori delle persone a differenza delle pietre che ottengono
l'effetto
contrario.
Ciao Claudio Pozzi


----- Original Message -----


*From:* Nada<maschera0 at virgilio.it>
*To:* pace at peacelink.it
*Sent:
* Thursday, December 16, 2010 4:41 PM
*Subject:* Re: [pace] Lettera a
Roberto Saviano (in risposta alla sua
lettera agli studenti)



----- Original Message -----
From: "Roberto Vignoli"<rvignoli@gmail.
com>
To: "Mailing List ListaSinistra"<ListaSinistra@yahoogroups.
com>;
<pace at peacelink.it>;<fori-sociali at yahoogroups.com>
Sent:
Thursday, December 16, 2010 1:41 PM
Subject: [pace] Lettera a Roberto
Saviano (in risposta alla sua lettera
agli
studenti)


da

http://femminismo-a-sud.noblogs.org/post/2010/12/16/lettera-a-roberto-
saviano/
La popolarità t’ha fatto proprio male perché oggi mi
rendo conto che il
mondo della cultura ha perso Monicelli e ci sei
rimasto tu.
...sono andata a leggere la lettera...spero che oltre
lui ci siano anche
altri ...che la pensano come lui...
..io quando
sono stata in piazza ma non avevo il casco...c'è stato un tempo
che
avevo mio figlio in braccio...
certo è che il risultato lo hanno
ottenuto..sono due giorni che mostrano le
auto incendiate...e non
mostrano più le maree di persone che sono scese
nelle varie piazze
d'italia...
comunque io credo che meglio ognuno giudichi da se...
quindi..
http://www.repubblica.
it/scuola/2010/12/16/news/lettera_saviano-10251124/?ref=HRER3-1
un
saluto nada
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Non Osiamo Perché Le Cose Sono Difficili; Le Cose Sono Difficili Perché Non Osiamo. - Seneca



Marco Revelli: -Postpolitici e arrabbiati, figli di un sogno interrotto-
 










 

 

Chi sono gli studenti scesi in piazza l’altro giorno? E chi sono gli operai che hanno partecipato alla manifestazione delal Fiom del 16 ottobre? Operai e studenti, sembra la riedizione del biennio ’68-’69, ma forse è solo un’analogia superficiale. L’impressione è che si stia affacciando sulla scena pubblica una nuova generazione, cresciuta in piena epoca berlusconiana, in regime di pensiero unico e che oggi sperimentano il fallimento del grande sogno del benessere e dell’individualismo trionfante. Ma con quale rappresentazione di sé? Quella che un tempo si chiamava "coscienza di classe" non è determinata solo dalle condizioni sociali o dal proprio ruolo nella produzione, è anche un prodotto della storia, delle culture e degli stili di vita. Ne parliamo con Marco Revelli, storico e sociologo, docente all’università del Piemonte Orientale.

Qual è la soggettività di questo movimento, nuovo, oltre che il primo sorto nell’epoca della crisi?

Trovo insopportabile il modo in cui in questi giorni si è discusso del movimento degli studenti e delle varie forme di insorgenza che si stanno manifestando. E’ un atteggiamento banalizzante, privo di curiosità e di interrogazione. Tutti pronti a scandalizzarsi per il minimo gesto di devianza come se ci muovessimo in un ambiente politico-istituzionale perfetto, corretto, eticamente inappuntabile Non ci sto a buttare la croce addosso agli studenti, a fare le pulci col microscopio. Ma cosa importa se gli studenti hanno letto tutti gli articoli della riforma Gelmini oppure no? Detto questo, trovo che questo sia un movimento post-politico. Non so neppure se sia un movimento. Sicuramente è un comportamento massificato per quel che riguarda gli studenti, ma non solo. Ci sono anche i migranti che salgono sulle gru o gli operai di Pomigliano che si ribellano ai ricatti. E’ un pezzo di società che fa da sé, che ha staccato la spina, che ha capito che le dinamiche politico-istituzionali e la propria vita sono due mondi separati. E’ un movimento che si misura con l’inedita durezza della vita contemporanea mentre tutto il resto della società si muove dentro la bolla della narrazione della società del benessere. Sono il prodotto della fine dello sviluppo e lo sanno. Questo li rende diversi da tutti i soggetti collettivi novecenteschi che stavano dentro il progetto dello sviluppo. Questi nuovi movimenti abitano il declino. I protagonisti di martedì erano in gran parte minorenni che non sono decodificabili con nessuna delle chiavi dell’analisi politica e sociale precedente. Sono i figli del benessere interrotto, la generazione futuro zero. Ma questo valeva anche per Genova, solo che allora, alle spalle, c’era l’accumulazione politica precedente. Questi hanno invece un linguaggio inedito, non hanno neppure Che Guevara sulle bandiere. Sono il prodotto della seconda Repubblica e della tabula rasa di tutte le culture politiche. Faccio un esempio. Qui a Torino il Politecnico è sempre stato una scuola di elite e un luogo d’ordine. Sfornava gli ingegneri che si formavano dentro l’orizzonte della grande impresa e ne assumevano i codici di funzionamento. Erano i custodi del sapere del grande capitalismo. Bene, oggi il Politecnico è il più radicalizzato. Ho sentito parlare ricercatori e ingegneri, sembrava di ascoltare gli operai di Mirafiori degli anni Ottanta. Forza lavoro utilizzata in un grande ciclo improvvisamente privata di diritti e orgoglio.
Una proletarizzazione dei lavoratori intellettuali...
Esattamente, una forza lavoro che si trova proiettata in un segmento periferico. I ragazzi che si laureano al Politecnico descrivono uno scenario di deprivazione di ruolo sociale, di status, di controllo sulla propria vita. E questi sono la elite. Davanti all’aula magna, l’altra mattina, c’era uno striscione con la scritta: "Ci avete tolto troppo, adesso rivogliamo tutto". C’è la tragica verità, sono stati davvero deprivati di tutto, gli abbiamo lasciato un mondo senza futuro. Ma è anche un’affermazione irrealistica, perché non esiste un luogo dove puoi riprenderti quello che ti hanno tolto. Le risorse sono evaporate nei grandi circuiti finanziari globali, sono delocalizzate. Insomma, esprimono una domanda sulla propria identità. Chi siamo?
Per costruire un blocco sociale bisogna anche conseguire qualche risultato. Come possono essere efficaci i movimenti nello scenario attuale di una democrazia oligarchica?
E’ un movimento post-politico, ma non pre-politica...
Il conflitto, oggi, ha una sua politicità per il fatto stesso di esistere, no?
Non dobbiamo pensare che il conflitto sia pre-politico per cui sarebbe compito di quelli che vedono più lontano offrire la prospettiva perché il conflitto possa elevarsi alla dimensione nobile della politica. La dimensione della politica di oggi è trasversalmente ignobile, con punte di degrado nella destra. E’ una dimensione in cui rischi di perderti. Certo ci sono delle eccezioni, ma sono mosche bianche. Lo spettacolo che si è celebrato l’altro giorno alla Camera e al Senato non è il luogo che possa fare da sponda al movimento. E’ il deserto dei tartari. L’efficacia di questo movimento non passa per la sua capacità di salire alla politica, ma consiste nel fatto stesso d’esistere. Oggi è già una cosa enorme che i movimenti esistano come corpi che riempiono le strade.
Cosa possiamo fare se non custodirli nella loro capacità d’esistere?
Se lo tocchi muore, è delicato, è fragile. E’ stata fatta un’operazione di rappresentanza politica del movimento di Genova col risultato di frammentarlo in mille rivoli. Il loro esistere indifferenziato - i negriani direbbero come "moltitudine" - sarà pure un linguaggio disarticolato, se vogliamo, ma testimonia la propria irriducibilità al discorso ufficiale, alla narrazione dominante. Come evolverà? Non so dirlo. La crisi può generare esiti imprevedibili in una società che si è costruita sul mito dell’opulenza e del consumo. L’impoverimento può anche produrre rancore e odio.
(intervista di Tonino Bucci)