LA VENDETTA AFGHANA
di Raniero La Valle
Articolo della rubrica
“Resistenza e pace” in uscita sul prossimo numero del quindicinale di Assisi,
Rocca (rocca at cittadella.org
)
L’Afghanistan è l’ultimo – ma non ultimo – frutto avvelenato che si è
lasciato dietro il fallimento del “nuovo secolo americano”: un secolo che,
nella visione parossistica di Bush e della destra americana,
irresponsabilmente sostenuta dai Blair e dai Berlusconi europei, avrebbe
dovuto fare degli Stati Uniti il sovrano del mondo, del dollaro il metro di
misura dell’universo, del sistema neoliberista l’unico regime economico e
politico consentito, e degli “Stati canaglia” un deserto. Questa politica ha
devastato l’economia mondiale, ha diffuso la povertà perfino tra i ricchi e
reso più miserabili i poveri, ha distrutto l’Iraq, ha compromesso le
prospettive di pace in Medio Oriente e ha impantanato gli eserciti occidentali
in Afghanistan.
Se noi stiamo in Afghanistan a morire, ci stiamo per questo; ma non
moriamo solo noi, ma anche sono morti quasi 2000 soldati della coalizione, e
40.000 afghani tra militari e civili, mentre centinaia di reduci americani ed
inglesi si sono suicidati, come denuncia un appello lanciato dall’ex vescovo
di Caserta mons. Nogaro. Se siamo lì in quel contagio di morte, ci stiamo non
perché abbiamo fatto una scelta di valori (mettendo in campo per esempio la
Costituzione italiana), ma perché, senza scelta, ci siamo messi al servizio di
quell’empio disegno. Poi, quando tornano nelle bare, un vescovo militare dice
a quei ragazzi uccisi che erano “profeti del bene comune, decisi a pagare di
persona per ciò in cui hanno creduto e per cui hanno vissuto”, e che lo
stavano facendo “nella consapevolezza di una strategia chiara e armonica”; ma
non è vero, né per la coscienza di ciò che essi stavano facendo (in realtà
“lavoravano”), né per la chiarezza della strategia, di cui l’unica cosa chiara
è che non si sa come uscirne.
Neanche Obama lo sa; perché è più facile entrare in una guerra che
uscirne. Quando ci si entra garriscono i gagliardetti e la stampa incita al
rapido massacro; ma quando se ne esce si porta a casa una sconfitta, e la
colpa di un’inutile strage.
Finché Obama non sa come uscirne (e ne avrebbe bisogno, per fedeltà
alla sua stessa immagine), non lo sappiamo neanche noi, e non saranno certo
quei giganti del pensiero che sono i nostri governanti e ministri a indicare
la via. La cosa più ingegnosa pensata dal ministro La Russa è di mettere le
bombe sugli aerei per impedire che saltino in aria gli automezzi a terra, che
sarebbe come bombardare Palermo per impedire che ammazzino Falcone
sull’autostrada di Capaci.
La guerra in
Afghanistan si ammanta delle sovrastrutture ideologiche e perfino dei conforti
religiosi che le Chiese sono solite offrire a tutte le guerre (fino a che non
si convertano). Ma l’Afghanistan è più di una guerra: è una vendetta in forma
di guerra, per lo stupro subito dall’America l’11 settembre, e non c’è mai
lucidità nella vendetta. Ancora di più, l’Afghanistan è il macigno che il
vecchio mondo, imperialista e violento, ha messo di traverso per impedire che
si faccia strada un altro mondo di accoglienza reciproca, di corresponsabilità
e di pace. È il manufatto con cui l’Occidente libero ha rimpiazzato il muro di
Berlino eretto dall’Oriente malvagio, per ottenere gli stessi risultati di un
mondo dominato e diviso.
Il ritiro dall’Afghanistan non è perciò solo la fine di una vendetta
(che di per sé non avrebbe bisogno di nessun altra motivazione), ma è anche la
condizione di un nuovo inizio, la svolta necessaria per rendere pensabile un
mondo diverso, e per rendere credibile ogni altra alternativa. È chiaro ad
esempio che Obama non può chiedere ad Israele di ritirarsi dai territori
occupati e di dare fiducia ai palestinesi, se non si fida degli afghani e ne
presidia il territorio. Coloni gli uni, coloni gli altri; buoni ad alzare muri
gli uni, a stabilire barriere gli altri, pronti a demonizzare i propri nemici
gli uni, a considerarli tutti terroristi gli altri.
L’Afghanistan è il simbolo di un tempo in cui non si sa più fare la
guerra, e non si sa fare la pace, non si sa più dominare, e non si sa
cooperare, non si sanno più dire le bugie, ma non si osa ancora dire la
verità. Senza chiudere il buco nero dell’Afghanistan, l’America non potrà
uscire dall’era di Bush, Obama non potrà governare, la storia resterà
rattrappita; e la guerra perpetua, come modello del rapporto tra i potenti ed
i deboli, non potrà avere fine: una guerra a bassa intensità, abbastanza bassa
da poter essere detta “missione di pace”; almeno, finché si riesca a
controllarla.
Raniero La Valle