Fw: "Sta per diventarlo" (Piero Stefani sullo stato ebraico)
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- Date: Sat, 5 Jun 2010 16:01:57 +0200
Piero Stefani, insigne studioso di ebraismo e uomo del dialogo
tra le religioni, scrive questo drammatico commento alle ultime amare vicende di
Israele.
Enrico Peyretti, Torino
Il pensiero della settimana n. 297 «Sulla strada
per diventarlo» Nell’immediato
secondo dopoguerra lo storico francese Jules Isaac, che aveva visto
sterminata nei lager gran parte
della sua famiglia, pubblicò un
libro intitolato Gesù e Israele (Marietti, 2001). Esso si proponeva di
contribuire a estirpare il pregiudizio antiebraico all’interno della Chiesa
cattolica. Il testo, costruito per argomenti, dopo aver sottolineato l’appartenenza di Gesù al
popolo d’Israele e l’origine ebraica del cristianesimo, inizia a confutare le
varie accuse antigiudaiche, a cominciare da quella secondo cui la dispersione
del popolo ebraico rappresenta una punizione divina per aver rifiutato il
vangelo e per aver messo a morte Gesù. In realtà, afferma Isaac, la diaspora ha
un’origine molto più antica: già all’inizio del I secolo d. C. la maggior parte
degli ebrei viveva fuori della terra d’Israele. Si tratta di una semplice verità
storica; eppure il pregiudizio cristiano, che ben sapeva della grande, antica
comunità ebraica di Alessandria e della predicazione evangelica nelle sinagoghe
dei paesi mediterranei, continuava a ripetere: fino al 70, il popolo d’Israele era
indipendente, poi, persa (per punizione divina) la patria, iniziò la triste
diaspora. Il
sionismo ha creato molti miti
nazionali. Eventi prima trascurati nella tradizione ebraica (per es. Masada)
sono stati eroicizzati; la diaspora è stata considerata spesso in modo cupo;
tuttavia alcuni dati storici continuavano a imporsi. Non è vero che tutto è
cominciato con il 70, né sul fronte del prima, né su quello del dopo: la seconda
guerra giudaica terminò solo nel 135 e la “paganizzazione” di Gerusalemme a
opera di Adriano ebbe luogo soltanto allora. Tuttavia, almeno all’interno
dell’attuale dirigenza dell’ebraismo italiano, anche i riferimenti agli inizi
del II sec. sembrano ormai
particolari trascurabili. Non è raro perciò assistere a una paradossale, quanto
consapevole, riproposizione del
pregiudizio antiebraico (eccezione fatta, si intende, delle motivazioni
teologiche). «I
fattori che rendono veramente speciale la presenza ebraica in Italia sono
molteplici. Innanzi tutto la sua antichità poiché la sua origine risale a 2 mila
200 anni fa, al periodo della Roma repubblicana, oltre due secoli e mezzo prima di quel fatale anno 70 che vide la
distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte dell’imperatore Tito e l’inizio
della diaspora, la dispersione degli ebrei nel bacino del Mediterraneo e nei tre
continenti» (Renzo Gattegna). La frase accosta due termini incompatibili: gli
ebrei vivono in diaspora prima che essa cominci. Si potrebbe obiettare che si trattava di
piccoli frange. Tuttavia, come si è detto, si trattava di ben altre dimensioni:
già nel primo secolo – senza che
intervenissero particolari coercizioni esterne – la maggioranza del
popolo ebraico viveva fuori della terra d’Israele. L’invenzione di miti storici è parte
organica della costruzione di ogni identità collettiva. Spesso importa poco se essi siano
palesemente falsi sul piano dei fatti. Per affermarsi, il regime di cristianità fu obbligato a inventare il mito della
punizione ebraica e a esasperare la cessazione del culto sacrificale del Tempio
di Gerusalemme; per buona parte dell’ideologia sionista è inevitabile riferirsi
alla visione della patria perduta e riconquistata. Il pericolo più alto che si
annida nella retorica di un ritorno all’antica indipendenza, è di presentare lo
Stato d’Israele come fatalmente costituito in base all’intreccio di due
componenti: l’essere a un tempo ebraico e democratico. È una contraddizione di
fondo che grava su di esso fin dalla sua nascita nel 1948 e che ha reso tuttora impossibile – assieme a molti altri
fattori – la soluzione del nodo israelo-palestinese. Non si tratta solo di
problemi istituzionali e civili di non poco conto legati al confronto interno
tra religiosi e laici; quanto è in gioco è il modo stesso di presentarsi come
stato. Prospettarsi come «Stato ebraico» significa rendere la componente
demografica un problema costituzionale e politico ineliminabile. Se i territori
occupati nella guerra del 1967 non sono stati mai annessi in modo definitivo è
solo perché tale operazione avrebbe impedito di mantenere a Israele anche solo
la parvenza di essere sia ebraico sia democratico. Tuttavia, sull’altro
versante, la non volontà di dar luogo, in tempi storicamente ragionevoli, a uno
stato palestinese indipendente ha trascinato Israele in una contraddizione da
cui non è più uscito: da più di quarant’anni la sua indipendenza nazionale si
regge anche in virtù della negazione di quella di un altro popolo. Tutti gli
scadimenti etici e politici israeliani derivano, in ultima analisi, da questo
nodo. Un grande
intellettuale israeliano del Novecento – da sempre sionista – Y. Leibowitz
dichiarò in un’intervista nel 1988: «“Le sue posizioni relative ai territori
occupati sono basate su una valutazione puramente pragmatica, razionale,
strategica, economica, sociologica, politica di questo stato di cose?”
“Politica. Detesto il fascismo. E lo Stato d’Israele, mantenendo una dominazione
violenta sopra un’altra nazione diverrà necessariamente fascista. Non lo è
ancora. Possediamo un alto grado di libertà di stampa e di libertà di parola. A
tutt’oggi lo Stato non è ancora fascista. Ma è sulla strada per diventarlo»
(Il Regno documenti 1,1989, p. 62). Più di vent’anni dopo siamo in realtà
allo stesso punto, «è sulla via per diventarlo», il che è, a un tempo, conferma e
smentita delle previsioni di allora.
Per comprendere adeguatamente questa qualifica bisogna però tener
presente cosa Leibowitz intendesse per fascismo: si trattava innanzitutto di una
posizione che attribuisce all’esistenza dello stato un valore in se stesso.
Nella fattispecie, ciò lo
renderebbe non già (come per
l’originaria ispirazione della maggior parte del sionismo) «Stato degli
ebrei», ma appunto integralmente
«Stato ebraico». Una conseguenza di ciò è che la difesa dello stato diventa
valore supremo in base al quale tutto diviene lecito. Tutto si giustifica in
virtù della sicurezza, il diritto è quindi sistematicamente calpestato. Con ogni
probabilità è già irrimediabilmente tardi, né all’orizzonte si vedono tendenze
che vanno in questa direzione; rimane comunque un passaggio imprescindibile alla
pacificazione dell’area: il fatto che Israele cessi, una volta per tutte, di
essere «Stato ebraico» per diventare solo democratico. Piero
Stefani |
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