Adesso Barack Obama andrà in
giro per il mondo con quel peso: che lo premia in anticipo, lo lega, lo
segna. Il comitato di Oslo non premia un’azione, una carriera compiuta.
Premia forze impalpabili eppure decisive come la parola, la speranza
suscitata, l’attesa che somiglia a un’enorme sete, il valore attribuito da un
leader all’imperio della legge e della Costituzione, più forte di ogni
convenienza. Ricompensa uno stile, un essere nel mondo che non è in sintonia
con il predominio americano e la sua dismisura, la sua hybris nazionale.
Siamo abituati a pensare che la speranza sia poco più di uno scintillio
ineffabile, essendo fatta di cose non avvenute, malferme.
Siamo abituati a pensare che la parola, diversamente dall’atto, sia fame di
vento. Che ripensare la politica e le sue routine sia vano. Non è così.
Abbiamo solo dimenticato che la parola è tutto nei testi sacri che fondano le
civiltà, compresa la nostra. Per il Siracide, nella Bibbia, «meglio scivolare
sul pavimento che con la lingua», e «un uomo senza grazia è pari a un
discorso inopportuno».
Da ora Obama porta questo fardello. Deve ancor più dar senso alla parola, e
in primo luogo tenerla. Lui stesso è parso colto da tremore, all’annuncio.
Era serio davanti al microfono, come Buster Keaton che non ride mai. Faceva
pensare a quei profeti o sentinelle turbati dall’appello, che ammutoliscono o
«hanno un gran bue sulla lingua», come nella Bibbia o nell’Agamennone di
Eschilo. Ha detto: «Onestamente non credo di meritarlo», intendendo che
ancora non è divenuto quello che pure già è - una transformative figure. La
notizia lo ha «sorpreso e reso umile», nel Nobel vede non una gratificazione
ma una «chiamata all’azione». I premi mettono sempre spavento. Se non lo
mettono, più che chiamare lusingano.
La parola che già oggi fa di Obama una figura trasformativa concerne
questioni essenziali: la coscienza che la solitaria superpotenza americana è
un’impotenza, se non cerca la cooperazione col mondo; l’ascolto dell’altro e
la mano tesa giudicati indispensabili, purché a essi non si opponga il pugno
che non s’apre. E ancora: inutile provare a fermare gli Stati aspiranti
all’atomica, quando il nucleare è l’unico passaporto di potenza e quando i
Grandi non cominciano da se stessi, riducendo i loro esorbitanti arsenali.
Anche questo cambiamento ha risonanze bibliche. Dice ancora il Siracide:
«Quando un empio maledice un avversario, maledice la propria psiche». Inferni
e assi del male non sono fuori: vedere anche in se stessi il male che suscita
caos è inizio di conversione e guarigione.
Obama non fa discorsi facili, è un comunicatore ma non un semplificatore: il
suo discorso sulla razza, a Philadelphia il 18 marzo 2008, il discorso al
Cairo del 4 giugno 2009 e quello del 17 maggio 2009 all’università cattolica
di Notre Dame in Indiana, il discorso infine su clima, disarmo nucleare e
multilateralismo, all’Onu il 23 settembre, non sono lisci, non hanno due
colori, uno puro e uno impuro. Neppure la chiusura di Guantanamo è facile e
ancor meno la rinuncia agli antimissili in Est Europa, che mette fine alla
strategia del divide et impera nel Vecchio Continente e sicuramente urta il
complesso militare-industriale Usa. Sono discorsi che educano alla
complessità, e a vedere le cose da più punti di vista, non uno solo.
I cambiamenti decisivi esordiscono così: dalla parola e dallo sguardo su di
sé. Non eravamo avvezzi a questo con i presidenti Bush, con Reagan e Clinton.
Paziente, ostinato, Obama tenta di far capire che la potenza Usa non ha il
destino manifesto che la mette sopra le altre e ne fa un’eccezione, «città
sulla collina» come nel messianesimo politico teorizzato nell’800. Il punto
da cui parte è il precipizio: il declino della supremazia Usa dopo la fine
dell’Urss, in politica ed economia; il dominio non solo contestato ma
inefficace. Come gli europei presero atto che la hybris nazionalista aveva
prodotto mostri, e dopo il ’45 escogitarono l’Unione per recuperare in Europa
le perdute sovranità nazionali, Obama scopre che sovrano è chi può far
seguire l’azione alla parola, non opera da solo, calcola le conseguenze di
quel che fa. A cominciare dalla guerre: quella finita in Iraq, e quella che
stenta a finire in Afghanistan. Anche qui il Nobel è fardello. Difficile
l’escalation chiesta dai militari, con un sacco sì ingombrante da trascinare.
Ma c’è anche qualcosa di conturbante nel Nobel, di ominoso. Il premio è come
dato in grande fretta, come se non vi fosse molto tempo e occorresse lanciare
un segnale subito. A circondare Obama infatti non ci sono solo attese,
speranze. C’è, sempre più acuta, un’immensa fragilità, se non un pericolo che
incombe. Thomas Friedman ha scritto un articolo impaurente, il 29 settembre
sul New York Times. Racconta di un clima in America che non tollera
l’intruso, che trama tribali ordalie: che ricorda, tenebroso, l’atmosfera in
Israele prima dell’omicidio di Yitzhak Rabin. Rabin aveva preso il Nobel con
Arafat e Peres, nel ’94. L’anno successivo, il 4 novembre, il colono
estremista Ygal Amir l’uccise ma alle sue spalle c’era un’opposizione che lo
demonizzava da tempo, Netanyahu in testa con il Likud e molti rabbini.
Lo stesso sta avvenendo in America. Nei manifesti ostili e in numerosi
discorsi dell’opposizione e di giornalisti astiosi, Obama appare come un
alieno comunista, ma secondo l’analista Philip Kennicott è altra la colpa che
gli viene imputata: non il socialismo ma il suo essere afro-americano,
meticcio, dunque antiamericano (Washington Post 6-8-09). Su Facebook è
apparso un sondaggio che chiede se Obama debba o no essere ucciso. Con
risposte a scelta tra «sì-no-forse» e «sì, se taglia la sanità».
Tutto questo il Presidente nero non l’ignora. Sappiamo che l’ha messo in
conto fin dalla candidatura. Ciononostante insiste: nel voler trasformare il
proprio paese, nel dire che da una specie di conversione urge ricominciare.
Per questo la parola è tanto importante: perché disturba, scavando. Chi a
Oslo ricompensa questa cocciutaggine sembra anche tremare per la sua vita.
Chi dice che il premio giunge troppo presto non sa quel che dice e che
accade, è cieco alla campagna di odio disseminata negli Stati Uniti.
Obama impersona l’America complicata, che diffida di sé. Non la nazione di
Bush che si compiace nel parlar perentorio e approssimativo, ma l’America
della grande contorta letteratura, della musica, del cinema, che ragiona
sottile e resuscita le parole di John Quincy Adams, il segretario di Stato
che nel 1821 dice: «L’America non si avventura nel mondo in cerca di mostri
da abbattere. Essa auspica la libertà, l’indipendenza di tutti. È campionessa
solo della propria libertà, indipendenza. Si batte per grandi cause con la
compostezza della sua parola e la benigna simpatia del suo esempio. (...)
Potrebbe divenire dittatore del mondo: non sarebbe più padrona del proprio
spirito».
Obama dice spesso che la sua ascesa è frutto di americani come Reinhold
Niebuhr, un autore che stima per aver raccomandato al paese non il
messianesimo politico ma l’umile consapevolezza dei propri limiti. Solo una
cultura di questo genere poteva permeare le svolte del Presidente. Solo in
un’America simile, la discendente di un’adolescente schiava nera stuprata da
un padrone bianco poteva divenire first lady degli Stati Uniti.
I gesti e la parole possono molto. Creano storie e cammini nuovi. Willy
Brandt che il 7 dicembre 1970 cade d’un tratto in ginocchio di fronte al
memoriale del ghetto distrutto di Varsavia non aveva ancora riconosciuto la
linea Oder-Neisse tra Germania e Polonia. Quel gesto cambiò tutto, prima che
lo scabro itinerario cominciasse. Così Obama a Philadelphia, al Cairo, a
Notre Dame, all'Onu.
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