Gustavo Zagrebelsky, Sulla democrazia
Teatro Carignano, Biennale
Democrazia,
Torino 23 aprile
2009
Anticipata dal discorso
del presidente Napoletano, davvero discorso “politico” in senso alto, la
Biennale Democrazia di Torino si è aperta con la lezione di Gustavo
Zagrebelsky (iniziata con un’ora di ritardo per dare tempo alla passerella
pubblicitaria degli sponsors). Sarà da leggere bene il testo intero, perché
l’oratore ne ha fatto solo un riassunto per mancanza di tempo. Molti rimasti
fuori dal teatro seguivano sul maxischermo, nella storica piazza Carignano.
Bello spettacolo gli studenti seduti a terra che prendevano appunti sui
quaderni (come me). Ho pregato un fotografo di riprendere questa immagine
simbolica.
Qui riporto una prima
sintesi dai miei appunti. Tra parentesi quadra qualche mia breve
nota.
La democrazia è come
l’aria: ci si accorge della sua importanza quando manca. Nella definizione
di Rousseau, è quella forma di associazione in cui ciascuno, obbedendo a
tutti, non obbedisce che a se stesso. [Avrei gradito la scelta di una
definizione meno individualistica]. La democrazia è irraggiungibile, ma
ci deve stare a cuore. Tutte le società sono sempre state governate da
oligarchie, anche nelle dittature. Questa è una legge ferrea della storia.
Nell’Atene democratica, Cimone dal patrimonio privato, Pericle dal
patrimonio pubblico (le cariche pubbliche), svendettero beni per acquistare
il favore dei più, con la corruzione. È un rovesciamento della democrazia,
che vorrebbe essere il governo di tutti.
Elias Canetti dice che
il segreto sta nel nucleo più centrale del potere. È vero anche il
viceversa: il potere sta nel nucleo più centrale del segreto (arcana
imperii). La democrazia ha bisogno di pubblicità [questo termine tecnico
poteva richiedere di precisare, con una prima allusione all’attualità, che
non si tratta della pubblicità commerciale, usata contro la democrazia].
Tutto quello che deve restare segreto è ingiusto, insegna Kant. Le
oligarchie agiscono in segreto. Pubblicità democratica non è l’esibizione,
la “teatrocrazia” (o politica-spettacolo), mentre il vero potere se ne sta
dietro le quinte; non è l’esibizione del privato sulla scena pubblica per
dire al volgo «siamo come voi».
Che cosa è la forza? In
altre epoche era la cultura, la fama, l’onore [ma era proprio così?].
Oggi è il denaro: “pecunia regina mundi”. Schumpeter, sulla democrazia
contemporanea, dice: è una competizione fra potentati per la conquista dei
voti. Perciò dipende dal denaro. Diventa un’impresa, un investimento più
fruttuoso dell’investimento finanziario. Così la democrazia si rovescia in
plutocrazia.
Allora, lasciamo che ci
cadano le braccia? Sulla democrazia non ci facciamo
illusioni.
È dunque un inganno? I
neri che in Sudafrica per la prima volta facevano la fila piangendo per
votare, mentre i bianchi li guardavano dai caffè loro riservati, erano
illusi? Gli italiani che, dopo il fascismo, ugualmente fecero la fila ai
seggi per votare, erano illusi? No!
L’oligarchia è il potere
monopolizzato, la democrazia è il potere diffuso fra tutti, o fra il maggior
numero possibile di cittadini. La democrazia è un sistema sempre in crisi
(su questo tema, c’è una quantità di libri e di convegni). Eppure non è un
falso scopo. Non dobbiamo rassegnarci.
Nell’accusare la
democrazia di essere una ideologia che copre la necessaria oligarchia, si
incontrano reazionari e rivoluzionari.
La democrazia non è un
sistema assestato. Dove c’è assestamento c’è oligarchia.
Si può dare questa
definizione della democrazia: è quel regime in cui esistono le condizioni
per la democrazia. È il regime della possibilità di
democrazia.
L’ideale democratico
dovrebbe essere l’ideale degli esclusi. La salvezza viene dagli esclusi.
Sono loro che garantiscono – devono garantire – la democrazia. [Per
questo, la massima falsificazione della democrazia si ha quando gli ultimi
sono così tanto ingannati da ammirare e votare chi li
inganna].
La democrazia è una
cornice di possibilità, che deve essere riempita di un ethos. Dalla storia
antica all’epoca moderna, ci sono (Senofonte, Machiavelli, Erasmo, … ) opere
di educazione del principe. Sembra che non esistano opere analoghe per
l’educazione del cittadino democratico. E invece occorrono, perché certe
democrazie si sono suicidate a causa di questa
mancanza.
Non bastano buone
costituzioni, occorrono uomini buoni, cioè che vivono lo spirito democratico
delle costituzioni. Nella storia si riscontra un “ciclo delle costituzioni”:
c’è una capacità degli uomini di corrompere ottime
costituzioni.
Qui Zagrebelsky ha
ricordato il “decalogo dell’etica democratica” da lui proposto in
Imparare democrazia (Einaudi 2007, pp. 15-38), soffermandosi su due
soli punti: la fede in qualche valore; la cura delle
parole.
1) La fede in qualche
valore. La politica è stare insieme, ma senza uno scopo comune non ha senso
stare insieme. L’apatia è nemica della democrazia. Ci sono regimi più
semplici, che ci scaricano dalla responsabilità. Resta la lotta per il
potere, senza idee generali, senza buone intenzioni, senza programmi. Il
potere ama presentarsi né di destra né di sinistra, onnicomprensivo
[quindi coincidente, anche nel nome, con il popolo]. Mussolini diceva
di avere «orrore per il dogma», cioè si sentiva libero dagli impacci della
coerenza.
Nemici della democrazia
sono il nichilismo del puro potere, come l’assolutismo dogmatico. La
democrazia è relativista, ma ciò non significa indifferenza etica, non
significa nichilismo. È relativista nel senso che non abbraccia a priori
nelle istituzioni alcuna verità. Però non può essere relativista rispetto ai
propri principi: la giustizia, l’eguaglianza., la partecipazione di tutti.
Quindi, la democrazia è fine a se stessa.
2) La cura delle parole.
Il dispotismo usa la paura e il bastone, la democrazia usa le parole, che
sono il mezzo per decidere insieme. Ha una cura quantitativa delle parole:
se ci sono poche parole, poche idee, c’è poca democrazia; se ci sono più
parole, più discussione, c’è più democrazia. Il solo sì o no, è il
plebiscito. Il solo sì è quello di un gregge che obbedisce al
pastore.
Nella scuola di Barbiana
don Milani insegnava che comanda chi conosce più parole, come il parolaio,
come i sofisti. La democrazia esige uguaglianza nella distribuzione delle
parole: è necessarissima una scuola egualitaria. C’è il pericolo del
linguaggio ipnotico, che seduce le folle. Occorre un linguaggio come quello
di Primo Levi: asciutto, concreto, preciso. Bisogna combattere ogni
neo-lingua (Orwell, 1984), che capovolge i significati, in cui la
cosa detta prevale sulle cose reali. Come dice il profeta Isaia: «Guai a
coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in
luce e la luce in tenebre, l’amaro in dolce e il dolce in amaro»
(5,20).
La politica è
con-vivere. Ma oggi si parla di politica di guerra, politica coloniale,
ecc., e sono locuzioni contraddittorie. Carl Schmitt parlava di politica
come divisione amico-nemico, ma questa è la definizione del bellico, non del
politico.
È in uso un linguaggio
rovesciato. I pogrom erano azioni di popolo: erano forse democratici? Così i
cafoni del cardinale Ruffo erano popolo, ma erano democratici? C’è una
perversione delle parole: la politica attraverso il popolo non è sempre
democratica. La domanda decisiva è questa: «Da che parte stai? Dalla parte
degli inermi o dei potenti?».
Le dittature ideologiche
disprezzano i fatti. La realtà viene ridotta a parole mutevoli, che
prevalgono sui fatti. La storia la scrivono i vincitori, ma la democrazia
vuole che non ci siano né vincitori né vinti, e che la storia non la
scrivano i vincitori.
La frode è occulta, la
violenza è manifesta. È quasi più facile opporsi alla violenza che alla
frode. I mentitori sono corruttori della politica, non sono uomini abili,
degni di ammirazione. Socrate distingueva filologi e misologi, amanti o
odiatori della parola corretta. Un grande pericolo è che nel ragionare si
possa «andare su e giù» (come dice Socrate).
I dati di fatto devono
essere verificati, e le parole devono avere lo stesso significato
comune.
«Chi ama il dialogo si
rallegra di essere scoperto in errore», dice Socrate molte volte nei
dialoghi di Platone, e preferisce essere confutato che confutare, essere
liberato da un male più che liberarne altri (Gorgia 458a). Hannah Arendt dice che nessuno da
solo e senza compagni può vedere ciò che è obiettivo, perché a lui appare in
un’unica prospettiva e diventa comprensibile solo se molti ne parlano
insieme.
Se invece ci offendiamo
per le confutazioni siamo fuori dall’etica della democrazia. Ora, dice
Zagrebeslsky, non ricordo neppure un solo caso di un uomo politico che abbia
ammesso un errore in uno dei tanti dibattiti
televisivi.
L’art. 1 della
Costituzione - «L’Italia è una repubblica democratica…» - descrive, ma anche
impegna all’azione per la democrazia. Due sono i modi per prosciugare la
democrazia dell’acqua che la fa vivere: chiudere le condotte, spegnerne il
desiderio.
Enrico Peyretti,
23/04/2009, ore 22.30
e.pey at libero.it
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