l'aquila e papa celestino
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- Date: Tue, 21 Apr 2009 12:40:54 +0200
CELESTINO di Raniero La Valle Articolo della rubrica
“Resistenza e pace” in uscita sul prossimo numero del quindicinale di Assisi,
Rocca (rocca at cittadella.org
) L’Aquila, il centro del
terremoto, è stata per un momento, alla fine del Duecento, il centro della
cristianità e il luogo da cui sarebbe potuto partire un tutt’altro corso della
Chiesa e un ben diverso edificio del mondo. Chissà se il terremoto che ha
travolto anche la basilica di Collemaggio, salvando però la teca con i resti di
Celestino V, allude a quei lontani eventi. Fu nella chiesa di Santa
Maria di Collemaggio, da poco costruita come abbazia dei monaci morroniani, che
il 29 agosto 1294 Pietro da Morrone, tratto dalle spelonche dei monti d’Abruzzo,
fu fatto papa, un “papa di transizione”, in attesa che si quietassero le feroci
lotte tra i cardinali. Nella grande piazza gremita per l’incoronazione, fra i
pellegrini toscani c’era anche un giovane poeta ventinovenne che si chiamava
Dante Alighieri. Non che quella presenza gli abbia giovato perché, come risultò
poi, Dante non capì nulla di Celestino, tanto da metterlo nel suo inferno,
accusandolo di aver fatto “per viltà”, cinque mesi dopo l’elezione, il “gran rifiuto” del pontificato. Né
Dante poteva capire Celestino, che una sola cosa veramente grande aveva fatto
nel suo breve pontificato: e stando al potere, una sola cosa veramente grande si
può fare, e quasi di sorpresa, perché quando l’hai fatta, ti scoprono, e il
potere ti viene tolto o se ne scappa lontano da te. Celestino aveva istituito il
perdono, anzi “la perdonanza”, per “tutti i veramente pentiti”, ricchi e poveri,
che, visitando quella chiesa aquilana
il 29 agosto, festa di San Giovanni Battista, sarebbero stati liberati
(assolti, sciolti) “dalla colpa e dalla pena”, a culpa et poena, “fin dal
battesimo”; ciò voleva dire che chi aveva peccato – cioè tutti – in virtù del
perdono erano non solo graziati della pena, ma fatti innocenti della colpa, resi
liberi come se non avessero peccato; che era poi null’altro che prendere sul
serio l’economia della redenzione, col suo rivoluzionario passaggio dalla
giustificazione mediante la legge, alla giustificazione donata per grazia. E
certo Dante questo non lo poteva capire, lui che della teologia della
retribuzione aveva fatto un sistema totale, dentro il quale aveva imprigionato
Dio, inquisitore, giudice ed esecutore penale, e aveva imprigionato l’uomo,
tutti distribuendo in tre carceri diverse, l’inferno, il purgatorio e il
paradiso. La scelta di Celestino, che
ben presto il suo successore Bonifacio VIII avrebbe istituzionalizzato,
rarefatto e svuotato nella pia pratica dell’ anno santo, era di “rottura”
rispetto al modello di Chiesa che si stava affermando in Occidente a partire
dalla “riforma papale” di inizio millennio. Da un lato essa intercettava lo scandalo della
compravendita delle indulgenze, messe sul mercato da chi poteva concederle, ed
elargite in cambio di denaro o lasciti, sicché solo i ricchi potevano goderne; e
questo mordeva su una patologia della Chiesa; ma dall’altro lato incideva sulla
fisiologia della Chiesa, per la quale sembrava normale che essa facesse del
peccato il criterio assoluto del suo giudizio sul mondo – perciò considerato
tutto malnato e perduto se fuori della Chiesa – e nello stesso tempo il
fondamento del suo potere. Solo poco più di un secolo prima un altro monaco,
Bernardo di Chiaravalle, con una intuizione geniale quanto perversa, aveva
spiegato al papa Eugenio III, che era suo discepolo, che il vero potere della
Chiesa non poggiava su terre e proprietà, ma si ergeva sul peccato: “in
criminibus, non in possessionibus potestas vestra”. E perfino il potere
temporale della Chiesa esteso oltre gli Stati pontifici, era legittimato
“ratione peccati”, in ragione del peccato; e tanto più universale era il
peccato, tanto più universale era il potere; cosa che doveva durare fino al
‘900, se Dietrich Bonhoeffer, dal carcere di Tegel, rivendicherà un Dio che “non
approfitta dei nostri peccati, ma sta al centro della nostra vita”, contro
“l’atteggiamento che chiamiamo clericale, quel
fiutare-la-pista-dei-peccati-umani, per poter prendere in castagna
l’umanità”. È stato poi il Concilio
Vaticano II che ha raccolto l’eredità di Celestino, promuovendo una Chiesa
capace di accogliere l’umano, tutto l’umano; e che dunque non consideri
l’umanità una massa dannata, preda di un illuminismo e di un nichilismo gaio e
trionfante; che non attribuisca all’uomo moderno l’idea di essere solo uno
sghiribizzo culturale fluttuante nella storia; che non consideri l’attuale come
una generazione di omicidi, da Obama a Peppino Englaro alla Corte
Costituzionale, perché nella moderna disputa sull’inizio e sulla fine della vita
“umana” essi non sarebbero “pro
life”; che non percepisca la storia come un mare di morte, sul quale a
galleggiare sia solo la Chiesa., come
pur si è sentito nelle veglie dell’ultima Pasqua. Raniero La Valle
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