l'aquila e papa celestino



CELESTINO

di Raniero La Valle

Articolo della rubrica “Resistenza e pace” in uscita sul prossimo numero del quindicinale di Assisi, Rocca (rocca at cittadella.org )

 

L’Aquila, il centro del terremoto, è stata per un momento, alla fine del Duecento, il centro della cristianità e il luogo da cui sarebbe potuto partire un tutt’altro corso della Chiesa e un ben diverso edificio del mondo. Chissà se il terremoto che ha travolto anche la basilica di Collemaggio, salvando però la teca con i resti di Celestino V, allude a quei lontani eventi.

Fu nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio, da poco costruita come abbazia dei monaci morroniani, che il 29 agosto 1294 Pietro da Morrone, tratto dalle spelonche dei monti d’Abruzzo, fu fatto papa, un “papa di transizione”, in attesa che si quietassero le feroci lotte tra i cardinali. Nella grande piazza gremita per l’incoronazione, fra i pellegrini toscani c’era anche un giovane poeta ventinovenne che si chiamava Dante Alighieri. Non che quella presenza gli abbia giovato perché, come risultò poi, Dante non capì nulla di Celestino, tanto da metterlo nel suo inferno, accusandolo di aver fatto “per viltà”, cinque mesi dopo l’elezione,  il “gran rifiuto” del pontificato. Né Dante poteva capire Celestino, che una sola cosa veramente grande aveva fatto nel suo breve pontificato: e stando al potere, una sola cosa veramente grande si può fare, e quasi di sorpresa, perché quando l’hai fatta, ti scoprono, e il potere ti viene tolto o se ne scappa lontano da te.

Celestino aveva istituito il perdono, anzi “la perdonanza”, per “tutti i veramente pentiti”, ricchi e poveri, che, visitando quella chiesa aquilana  il 29 agosto, festa di San Giovanni Battista, sarebbero stati liberati (assolti, sciolti) “dalla colpa e dalla pena”, a culpa et poena, “fin dal battesimo”; ciò voleva dire che chi aveva peccato – cioè tutti – in virtù del perdono erano non solo graziati della pena, ma fatti innocenti della colpa, resi liberi come se non avessero peccato; che era poi null’altro che prendere sul serio l’economia della redenzione, col suo rivoluzionario passaggio dalla giustificazione mediante la legge, alla giustificazione donata per grazia. E certo Dante questo non lo poteva capire, lui che della teologia della retribuzione aveva fatto un sistema totale, dentro il quale aveva imprigionato Dio, inquisitore, giudice ed esecutore penale, e aveva imprigionato l’uomo, tutti distribuendo in tre carceri diverse, l’inferno, il purgatorio e il paradiso.

La scelta di Celestino, che ben presto il suo successore Bonifacio VIII avrebbe istituzionalizzato, rarefatto e svuotato nella pia pratica dell’ anno santo, era di “rottura” rispetto al modello di Chiesa che si stava affermando in Occidente a partire dalla “riforma papale” di inizio millennio. Da un lato essa  intercettava lo scandalo della compravendita delle indulgenze, messe sul mercato da chi poteva concederle, ed elargite in cambio di denaro o lasciti, sicché solo i ricchi potevano goderne; e questo mordeva su una patologia della Chiesa; ma dall’altro lato incideva sulla fisiologia della Chiesa, per la quale sembrava normale che essa facesse del peccato il criterio assoluto del suo giudizio sul mondo – perciò considerato tutto malnato e perduto se fuori della Chiesa – e nello stesso tempo il fondamento del suo potere. Solo poco più di un secolo prima un altro monaco, Bernardo di Chiaravalle, con una intuizione geniale quanto perversa, aveva spiegato al papa Eugenio III, che era suo discepolo, che il vero potere della Chiesa non poggiava su terre e proprietà, ma si ergeva sul peccato: “in criminibus, non in possessionibus potestas vestra”. E perfino il potere temporale della Chiesa esteso oltre gli Stati pontifici, era legittimato “ratione peccati”, in ragione del peccato; e tanto più universale era il peccato, tanto più universale era il potere; cosa che doveva durare fino al ‘900, se Dietrich Bonhoeffer, dal carcere di Tegel, rivendicherà un Dio che “non approfitta dei nostri peccati, ma sta al centro della nostra vita”, contro “l’atteggiamento che chiamiamo clericale, quel fiutare-la-pista-dei-peccati-umani, per poter prendere in castagna l’umanità”.

È stato poi il Concilio Vaticano II che ha raccolto l’eredità di Celestino, promuovendo una Chiesa capace di accogliere l’umano, tutto l’umano; e che dunque non consideri l’umanità una massa dannata, preda di un illuminismo e di un nichilismo gaio e trionfante; che non attribuisca all’uomo moderno l’idea di essere solo uno sghiribizzo culturale fluttuante nella storia; che non consideri l’attuale come una generazione di omicidi, da Obama a Peppino Englaro alla Corte Costituzionale, perché nella moderna disputa sull’inizio e sulla fine della vita “umana” essi non sarebbero  “pro life”; che non percepisca la storia come un mare di morte, sul quale a galleggiare sia solo la Chiesa., come  pur si è sentito nelle veglie dell’ultima Pasqua.

 

  Raniero La Valle

 

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