Sulle dimissioni del PD



LE CULTURE DISMESSE

di Raniero La Valle

Articolo della rubrica “Resistenza e pace” in uscita sul prossimo numero del quindicinale di Assisi, Rocca (rocca at cittadella.org )

 

L’abbandono di Veltroni non è stato un “beau geste” di cui si possa discutere se era opportuno o non opportuno, elegante o inelegante, come hanno fatto molti dei suoi. La rinuncia alla leadership del Partito democratico era un atto dovuto, dopo una serie ininterrotta di sconfitte, dalla caduta del governo Prodi alla rivincita elettorale e politica di Berlusconi, alla batosta in Sardegna.

Il messaggio reiterato di queste sconfitte è chiaro: era sbagliata la politica, era sbagliata l’orgogliosa percezione che il Partito democratico aveva di sé, era sbagliato lo stesso strumento di un partito che diceva di voler governare al posto di Berlusconi e “riformare” l’Italia tutto da solo, era sbagliato il “sogno”. Invece si sono indicate tutt’altre cause: è colpa di Di Pietro, è colpa della litigiosità interna, è colpa delle componenti ex comunista ed ex democristiana che  non si sono fuse, è colpa della “sinistra” e magari è colpa dell’appannato carisma di Veltroni. Solo Saragat, in quella ripudiata “Prima Repubblica” si era rifiutato di fare l’analisi politica di una sconfitta, dicendo che era stato “il destino cinico e baro”.

Nel caso del Partito democratico interpretare i ripetuti disastri come una fatalità, serviva a dire che tutto doveva continuare come prima, che il progetto era giusto – “ci vuole del tempo, ma poi vedrete!” – e che anzi senza Veltroni, grazie al piglio subito mostrato da Franceschini, le cose sarebbero andate molto meglio, il che, detto dai veltroniani, non era molto lusinghiero per il leader caduto.

Ciò significa che nonostante la dura replica dei fatti, l’ideologia sottostante veniva estratta dalle macerie e riproposta tale e quale: il Partito democratico non come un nuovo partito ma come “partito nuovo”, un partito che per ora ha solo una “vocazione maggioritaria” ma che un giorno avrà la maggioranza davvero, le proposte e le forze politiche italiane che devono fondersi in due sole, il destino dell’Italia che è bipolare e bipartitico, e “indietro non si torna”. Anzi non solo il partito, ma anche il bipolarismo deve essere “nuovo”.

Questa ideologia non ha attinenza alla realtà, perché la realtà non è dualistica, ma plurale. Essa sfugge alle semplificazioni, che è invece proprio ciò che la politica dualistica vorrebbe imporle, tagliando le ali, estirpando i cespugli, alzando le soglie, sopprimendo i nanetti, contando i voti in un modo e conteggiando i seggi in un altro. E il rischio è che non si fermi qui, e che tale politica sveli la sua vera vocazione, che non è maggioritaria, ma monistica: una sola realtà, un solo potere.

La destra con questo sistema ci va a nozze; dal referendum Segni in poi, di legge elettorale in legge elettorale, tutto sembra fatto su misura per lei. A tal punto, che se sono gli altri a governare, lei la prende come un’usurpazione. Ed è tanto sicura di sé che la nuova domanda da salotto, nelle sue televisioni, è: “Perché vince la destra?”, come se fosse un destino.

Ma il Partito democratico che cosa c’entra con questo destino? Crede forse che se si tratta di gestire il capitalismo e le sue crisi, l’Occidente e le sue guerre, la bioetica e i suoi dilemmi, è meglio che a farlo sia la destra? Oppure è uno sbaglio di calcolo, come quando sogna di prendersi due milioni di voti dalla destra, e così toglierle il potere? Oppure è una caduta verticale di cultura politica, che impedisce al Partito democratico di interpretare la realtà e di comprendere che se non si cambia sistema, se non si apre al pluralismo, se non si torna in società, la destra è per sempre?

In verità il Partito democratico mettendo insieme i due filoni di ascendenza cattolico-democratica e comunista, ha licenziato quelle culture, disdegnate come novecentesche e definite magari anche “gloriose” ma “stanche se non esauste”, e si è proposto di cercarne una nuova: nelle parole del sen. Tonini ai parlamentari del PD, “un pensiero nuovo, una nuova cultura politica, nuove categorie concettuali meno inadeguate di quelle ereditate dal Novecento”.

Se si parla di una cultura politica nuova, quella che oggi sarebbe necessaria è una compiuta teoria dei diritti e della democrazia, come quella disegnata da ultimo nei “Principia iuris” di Luigi Ferrajoli. Ma il partito democratico ha lasciato le culture vecchie, senza averne trovato una nuova. E così naviga nella prassi, senza avere più tra le mani le culture dismesse, cioè la cultura della Costituzione, il pensiero rivoluzionario (di cui il riformismo è il risvolto incruento), la cultura dell’analisi di classe, la cultura della democrazia partecipativa, la critica dell’economia politica, l’antropologia cristiana del Concilio, la cultura della pace, l’idea di una giustizia sbilanciata dalla parte dei poveri e degli ultimi, che sono le culture che hanno riscattato il Novecento e che con la loro eredità potrebbero forse ora aiutarci a uscire dalla crisi del Duemila. 

    Raniero La Valle

 

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