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Newsletter Sopralluoghi in Palestina N.3
- Subject: Newsletter Sopralluoghi in Palestina N.3
- From: Associazione per la Pace <assopace.nazionale at assopace.org>
- Date: Mon, 16 Feb 2009 13:38:17 +0100
A seguire e in allegato la Newsletter n.3 di
"Sopralluoghi in Palestina" e la prossima proiezione del cineforum.
Assopace Roma – Sumud – www.assopace.org Associazione Culturale Aktivamente - www.aktivamente.it Associazione giovani palestinesi Wael Zwaiter – www.palestinawz.org Presentano SOPRALLUOGHI IN PALESTINA Fotogrammi di un conflitto 7 film da Palestina/Israele ArciArcobaleno Via Pullino 1 (Garbatella – Roma) www.arciarcobaleno.it Entrata a sottoscrizione libera (e’ necessaria la tessera ARCI valida per il 2009 – costo 5€) Info: +39 331 7858469 sopralluoghipalestina at gmail.com Prossima proiezione: Domenica 1 marzo 2009, ore 20.30 Occupation 101, di Sufyan and Abdallah Omeish (USA/Palestina, 2005, 90’, Sott. Italiano - www.occupation101.com) Un film-documentario sulle cause storiche
del conflitto Israelo-Palestinese. La vita sotto il controllo militare
israeliano, il ruolo degli Stati Uniti nel conflitto e gli elementi che
ancora ostacolano il raggiungimento di una pace duratura e giusta. A
parlare sono Palestinesi,Israeliani ed Internazionali, giornalisti,
politici, storici, attivisti, capi religiosi. Tra questi, Ilan Pappe,
Rashid Khalidi, Noam Chomsky, Phyllis Bennis, Jeff Halper, Amira Hass,
Dr. Iyad Sarraj, Yael Stien .
NEWSLETTER n.3
…tutte le notizie da Israele e Palestina della settimana In breve… • Secondo fonti palestinesi, Hamas e Fatah si sono accordati al Cairo per mettere fine agli arresti politici da entrambi le parti e alle campagne di incitamento mediatico, in vista della preparazione per un clima che favorisca il dialogo nazionale. Secondo quanto dichiarato dal Segretario Generale della Lega Araba Amr Mousa, la Lega parteciperà alle sessioni del dialogo palestinese previste a Il Cairo per il 22 febbraio. • Secondo quanto dichiarato dal Primo Ministro Salam Fayyad, l’Autorità Nazionale Palestinese farà richieste tangibili a qualsiasi governo si formerà in Israele. Le diverse aree del PLO hanno espresso preoccupazione per l’avanzata della destra Israeliana, in quanto potrebbe significare il congelamento del processo di pace. • Il PM Salam Fayyad e i rappresentanti della Commissione Europea si sono incontrati a Gerusalemme e hanno siglato un accordo secondo il quale la UE verserà 168 milioni di Euro all’AP per sostenere in Cisgiordania e a Gaza le spese per coprire i costi dei salari dei dipendenti pubblici e altri bisogni di base. Da mesi infatti Israele ha proibito l’import di banconote a Gaza, causando una ulteriori crisi della valuta. • ELEZIONI IN ISRAELE: la preferenza è andata alla destra, quella rappresentata dalla leader di Kadima, Tzipi Livni, e quella del Likud di Benjamin Netanyahu. La prima ha ottenuto 28 seggi, il secondo 27. All’estrema destra di Avigdor Lieberman e al suo Yisrael Beitenu, sono andati 15 seggi, due in più di quelli ottenuti dall'attuale ministro della Difesa e leader del partito Laburista, Ehud Barak, che ne ha vinti 13. Certarmente, la grande sconfitta è la sinistra: il partito Meretz ha ottenuto soltanto 3 seggi. Gli altri sconfitti sono le formazioni religiose: United Torah Judaism ha 5 seggi, National Union 4 e Bayit Hayehudi 3. Il partito arabo-israeliano Ra'am Ta'al ha guadagnato 4 seggi e Balad 3. (Tutte le notizie sono tratte dalle principali Agenzie Stampa Palestinesi e Israeliane). Qualche news… L’organizzazione israeliana per i diritti umani “B’tselem” ha pubblicato in questi giorni un nuovo rapporto che illustra le linee guida perché avvenga un processo di investigazione sui reati commessi da Israele nel corso dell’operazione militare “Piombo fuso” a Gaza. Il rapporto è scaricabile al seguente link: http://www.btselem.org/English/Publications/Index.asp ARTICOLI
Da israele… Articolo di Gideon Levy, giornalista israeliano
del quotidiano “Haaretz”
(http://www.haaretz.com/hasen/spages/1063597.html)
“Il sionismo può giustificare qualsiasi atto di
violenza e ingiustizia?”
di Gideon Levy La sinistra israeliana e' morta nel 2000. Da allora il suo corpo e' rimasto insepolto fino a che non e' stato redatto il suo certificato di morte, firmato, sigillato e spedito martedi'. Il boia del 2000 e' stato anche il becchino del 2009: il ministro della difesa Ehud Barak. L'uomo che e' riuscito a spargere la bugia riguardo la non esistenza di partner ha raccolto il frutto delle sue malefatte in queste elezioni. Il funerale e' stato celebrato due giorni fa. La sinistra israeliana e' morta. Per i passati nove anni ha preso inutilmente il nome del campo della pace. Il Labour, Meretz e Kadima hanno preteso di parlare in suo nome ma era un inganno e una frode. Il Labour e Kadima hanno fatto due guerre e continuato a costruire insediamenti ebraici in Cisgiordania; il Meretz ha supportato entrambe le guerre. La pace e' stata resa orfana. Gli elettori israeliani che sono stati ingannati a pensare che non c'e' nessuno con cui parlare e che la sola risposta sia la forza - guerre, omicidi mirati e insediamenti - hanno parlato chiaramente in queste elezioni: una svendita finale del Labour e del Meretz. E' stata solo la forza d'inerzia che ha concesso a questi partiti i pochi voti che hanno preso. Non c'e' altrimenti nessun'altra ragione. Dopo tanti anni in cui difficilmente ci fossero moti di protesta provenienti da sinistra e le piazze, le stesse che si infuriarono dopo Sabra and Chatila, sono rimaste silenziose, questa mancata protesta si e' riflessa anche nelle urne. Il Libano, Gaza, i bambini uccisi, le bombe a grappolo, le bombe al fosforo e tutte le atrocita' dell'occupazione - niente di tutto questo ha spinto l'indifferente vigliacca sinistra in strada. Le idee della sinistra hanno trovato un piccolo punto d'appoggio nel centro e a volte anche nella destra, e tutti dall'ex primo ministro Ariel Sharon al primo ministro Ehud Olmert hanno parlato con un linguaggio che una volta sarebbe stato considerato radicale. Ma la voce era quella della sinistra mentre le mani quelle della destra. Nelle frange di questo ballo mascherato e' esistita un'altra sinistra - determinata e coraggiosa, ma minuscola e non legittimata. Il gap tra questa e la sinistra presumibilmente era il sionismo. Hadash, Gush Shalom e altri come loro sono fuori dal campo. Perche'? Perche' non sono sioniste. E cos'e' oggi il sionismo? Un concetto arcaico e obsoleto nato in realta' differenti, un concetto vago e deludente che marca la differenza tra gli autorizzati e gli esclusi. Il sionismo significa insediamenti nei territori? Occupazione? La legittimazione di ogni atto di violenza e ingiustizia? La sinistra balbetta. Ogni dichiarazione critica verso il sionismo, anche il sionismo dell'occupazione, era considerato un tabu' che la sinistra non ha mai osato rompere. La destra ha ottenuto il monopolio sul sionismo lasciando la sinistra alla propria ipocrisia. Uno stato ebraico e democratico? La sinistra sionista risponde automaticamente si, evitando la differenza tra le due cose e non osando dare priorita' a nessuna delle due. Legittimazione per qualsiasi guerra? La sinistra sionista balbetta di nuovo - si all'inizio e no alla continuazione, o qualche cosa di simile. Risolvendo il problema dei rifugiati o il diritto al ritorno? Riconoscimenti alle male azioni del 1948? Innominabili. Questa sinistra e' ora, giustamente, giunta alla fine della sua strada. Chiunque voglia una sinistra significativa deve innanzi tutto sloggiare il sionismo dalla soffitta. Fintanto che' un movimento non ridefinisca coraggiosamente il sionismo che deriva dalla tradizione, non ci sara' qui un'ampia sinistra. Non si puo' essere sia di sinistra che sionisti secondo la definizione della destra. Chi ha deciso che gli insediamenti sono sionisti e legittimi e non lo sia la lotta contro di essi? Questo tabu' deve essere infranto. E' lecito non essere un sionista, come oggi e' comunemente definito. E' lecito credere nel diritto degli ebrei ad uno stato e contemporaneamente essere contro il sionismo impegnato nell'occupazione. E' lecito credere che cio' che e' accaduto nel 1948 debba essere messo nell'agenda, per chiedere scusa delle ingiustizie e darsi da fare per ricompensare le vittime. E' lecito opporsi ad una guerra inutile dal suo primo giorno. E' lecito pensare che gli arabi di Israele conservino gli stessi diritti, culturalmente, socialmente e come nazione, degli ebrei. E' lecito sollevare domande scomode riguardo l'immagine delle forze di difesa israeliane come un esercito di occupazione, ed e' anche lecito voler parlare con Hamas. Se preferite, questo e' sionismo, o se preferite e' anti-sionismo. In ogni caso, e' lecito ed essenziale per coloro che non vogliono che Israele cada vittima dell'insania della destra per molti anni ancora. Chiunque voglia un Israele di sinistra deve dire basta al sionismo, il sionismo del quale la destra ha preso il completo controllo. (Traduzione a cura di Giampiero Ruani) Due articoli di Zvi Schuldiner docente di politica e di pubblica amministrazione al “Sapir Academic College” di Hof Ashkelon, Israele.. “Grazie alla guerra”
di Zvi Schuldiner Nessuna sorpresa: le elezioni le ha vinte la destra e ogni speculazione sul presunto trionfo di Tzipi Livni non ha alcuna base reale. La guerra «vittoriosa», la guerra criminale, la guerra che «è stata interrotta troppo presto», la guerra ha rafforzato la destra israeliana. E le elezioni generano un futuro buio. Dal conteggio dei voti la Livni ottiene un seggio più di Netanyahu, ma il dato importante è che l'insieme dei partiti di destra ha ottenuto 65 seggi su 120 - calcolo che si basa sulla finzione israeliana che mette Kadima, il partito della Livni, nel centrosinistra. Ma Kadima è una creazione di Sharon, che si portò via dal Likud gli elementi più pragmatici e più opportunisti. La Livni ha ottenuto i voti di elettori più che confusi, che l'hanno vista come alternativa moderata a Netanyahu scordando che quella colomba è stata uno dei falchi più attivi nel promuovere l'ultima guerra. Si è guadagnata una reputazione straparlando di politica pulita, argomento cardine quando si è trattato di cacciare il premier Olmert, ma ha taciuto prima su Sharon e ora su Lieberman nonostante quest'ultimo stia per essere indagato dalla polizia per presunta corruzione. Netanyahu non ha ottenuto il numero di deputati che voleva ma può contare sull'appoggio della destra e bloccare così i tentativi della Livni di formare una coalizione moderata. La chiave? Ce l'ha Avigdor Lieberman, il Le Pen israeliano, il nostro Haider, che si è aggiudicato 15 seggi e che con il suo gruppo potrebbe teoricamente appoggiare Livni o puntare a un governo di grande coalizione. Grande come quella che vuole anche Netanyahu. Entrambi i leader sanno bene che sarebbe facile formare una coalizione di destra, ma sono coscienti che ciò aumenterebbe il deterioramento della posizione internazionale di Israele, e in fondo Netanyahu vorrebbe aggregare alla sua coalizione elementi più moderati, per non cadere prigioniero della destra radicale. Anche se Netanyahu ha ripetuto che potrebbe stabilire buone relazioni con Washington, è probabile che Hillary Clinton ricordi ciò che suo marito le disse: che l'allora primo ministro israeliano mente sempre, e che con lui non si può trattare. E se la segretaria di stato non lo ricordasse, assistenti come Dennis Ross o Aharon Miller - non sospettabili di essere anti-israeliani - potrebbero riferirle ciò che hanno scritto dell'ex primo ministro israeliano nei rispettivi libri. Grazie alla guerra il ministro della difesa Barak ha guadagnato alcuni seggi più di quelli che gli assegnavano i sondaggi prebellici ma si è fermato al quarto posto mentre Meretz, partito presuntamente moderato, è sceso a soli tre seggi. Singolare il «pacifismo» di Meretz: ha appoggiato lo scoppio della guerra, salvo chiederne la fine dopo i primi due giorni. Ubriacati collettivamente dalla guerra, gli elettori hanno votato per la politica della violenza e ora il loro dilemma è di che colore rivestire la prossima coalizione. Ma è un dilemma che non passa solo da queste urne. Ed è intimamente connesso alle decisioni americane e al supposto interesse di Barack Obama a cambiare davvero la politica del presidente Bush. “I partiti della guerra cancellano il futuro”
di Zvi Schuldiner Il criminale periodo di Bush ha significato un enorme punto d'appoggio per Sharon, per Olmert e per i venti di destra che dominano il paese. La legittimazione dell'uso della forza si è anzi trasformata nel paradigma vincente dell'intero Occidente. Un cambiamento a Washington potrebbe avere effetti formidabili anche sull'Europa, dove resterebbero isolati gli amici di Bush e del bushismo. Ma un cambiamento vero dovrebbe influire soprattutto sul Medio Oriente, e cozzare contro Netanyahu e la sua coalizione: se Netanyahu si arrenderà al gioco più facile coalizzando solo le forze di destra, ciò porterà per forza di cose a una recrudescenza del conflitto e a un maggiore isolamento di Israele. In nome del più puro patriottismo la maggioranza degli israeliani ha votato per un parlamento che produrrà i mostri più minacciosi per l'esistenza di Israele. Destri moderati, destri estremisti, fondamentalisti religiosi e fascisti minacciano di alzare il livello di un conflitto che i presunti moderati hanno cercato di risolvere solo a parole. Valente soldato di mille guerre, Barak ha creato e radicato la teoria del «non c'è partner», sotto l'impulso e la pressione di Miss Mani Pulite Livni, che per dimostrare di non essere semplicemente una donna, incitava a aumentare le azioni militari. Per due anni ha parlato e straparlato di pace, come il suo rivale Olmert, e non sono giunti ad alcun accordo, non hanno interrotto la costruzione delle colonie, non hanno migliorato nulla nei Territori occupati. Quei tre hanno condotto a una guerra cruenta, e adesso fanno strada a una versione anche più genuina del partito della guerra. Quei tre hanno costruito un triste presente, dal quale potrebbero emergere futuri anche più terribili. Dall’Italia… Intervento di Filippo Landi, corrispondente della Rai a Gerusalemme, e pubblicato su “Mosaico di pace” n.2 del febbraio 2009. Silenzio stampa
Il sangue nelle strade di Gaza svela i silenzi della stampa e delle coscienze. Attribuire falsi pregiudizi a persone di altre culture è grave responsabilità. E la colpa è di tutti. Il lungo silenzio su Gaza dei media italiani e l’immobilismo interna¬zionale sulla situazione in Medio Oriente è stato spezzato, il dicembre scorso, dal suono delle armi e dei pianti di uomini, donne e bambini. Se quel silenzio si fosse interrotto prima, forse la comunità interna¬zionale sarebbe stata costretta a guardare in faccia la realtà e si sarebbe evitato un bagno di sangue. Su questo, proponiamo un testo dolorosamente attuale tratto dall’intervento di Filippo Landi, corrispondente della RAI da Gerusalemme, al convegno “Terra Santa, terra ferita. Dalla memoria alla profezia”, tenutosi a Firenze il 29 novembre 2008. Tema di questo intervento è il silenzio complessivo calato sulla vicenda mediorientale, silenzio che riguarda tanti episodi della vita di un intero popolo, quello palestinese, e di quello israeliano. Innanzitutto mi chiedo: io sono dentro o fuori da questo silenzio? Ne faccio parte! Non mi sento assolto solo perché il TG3 e il giornale radio per i quali lavoro mi consentono di tanto in tanto di parlare di qualcuno di questi episodi. Spesso ricevo richieste per fare altri servizi che mi sembrano perlomeno folkloristici: mi salvo, perché preparando il servizio lo inquadro in contesti più rilevanti. Così in testa metto, su 17 righe, 11 righe sul tema commissionatomi, mentre uso le altre 6 righe per dar notizia di altro, aggiungendo: “ma oggi è accaduto anche questo...”. Utilizzo così la mia autonomia professionale anche per apportare spicchi di verità che a Roma sembrano non interessare. Ma perché questo accade? Perché i media frenano anche giornalisti che, per la loro cultura, esperienza e storia,vorrebbero dire più cose? Ho individuato alcune risposte, che aiutano a comprendere la complessità di fatti che in parte ci sovrastano, in parte ci vedono dentro e in parte, ora, non possiamo cambiare. IL SILENZIO DEI MEDIA 1. La sindrome del terrorismo. È sufficiente aprire un giornale per verificarla a tutti i livelli. La sindrome denuncia come onnipresente il terrori¬smo e fa sì che venga ritenuto più importante di ogni altro problema. 2. La fobia verso il mondo arabo e islamico. C’è una grande responsabilità dei media italiani e una responsabilità morale di una parte dei giornalisti nell’aver alimentato e nell’alimentare oggi tale ossessione. 3. Un senso religioso (e cattolico) anti-islamico. Talvolta, a Gerusalemme incontro pellegrini e guide religiose di gruppi di visitatori. Fermandosi davanti alle moschee della Città Vecchia, le guide proferiscono: “Ecco, queste sono le moschee costruite contro le chiese cattoliche!”. Il pellegrinaggio diventa allora, purtroppo, la ricerca della propria radice cristiana in Terra Santa, ma in una continua sfida contro gli islamici. 4. Il senso di colpa europeo per la Shoah. Questo fa sì che vengano giustificate molte cose. E' anche in aumento una pregiudiziale politica filoisraeliana, che è un passaggio successivo. Accade così che vengano scagionati molti atti compiuti dai governi israeliani, indipendentemente da ogni valutazione etico-morale. Non si devono esprimere “giudizi” su quello che i governi israeliani fanno e si cade così nel ridicolo. I giornalisti israeliani appaiono molto più liberi di noi: hanno una capacità critica verso gli atti del loro governo che noi italiani non abbiamo più. 5. Le pressioni di istituzioni israeliane e di gruppi ebraici europei e italiani. Le istituzioni israeliane incidono sui corrispondenti e, saltandoli, direttamente sui quartieri generali a Roma, Londra, Parigi, ecc. Ci sono dei corrispondenti a Gerusalemme che dopo un po’ di tempo diventano sgraditi e le istituzioni israeliane, comprese le ambasciate all’estero, chiedono, ad esempio, al direttore della BBC di sollevare dall’incarico una collega perché troppo filopalestinese. Oggi questa collega lavora in Pakistan. Inoltre, ci sono i gruppi ebraici dei singoli paesi che cercano di incidere su chi fa informazione, arrivando direttamente al direttore della testata. Una collega finlandese mi raccontava che era letteralmente subissata di e-mail per quello che scriveva a Gerusalemme. La stessa cosa capita a noi italiani. 6. La divisione all’interno dei palestinesi. Dal punto di vista di chi fa informazione, questa divisione ha accentuato la scelta di non parlare dei problemi dei palestinesi. L’IMMAGINARIO Questi sei elementi fanno sì che non solo venga censurata una parte della realtà palestinese, ma anche una parte della società israeliana. Il problema è che si è formata un’immagine della società israeliana a livello di chi dirige i mezzi di comunicazione di massa e di chi influenza la politica, per cui è difficilmente accettabile un servizio che, ad esempio, faccia vedere il livello di povertà che c’è a Gerusalemme. Nell’immaginario, gli israeliani sono ricchi. I poveri, per loro colpa, sono i palestinesi. Le violenze sessuali nelle famiglie ebree osservanti sono uno dei fenomeni più in crescita e più rilevanti della società israeliana: ma questo non coincide con l’immaginario che qualcuno vuole trasmettere, perché sono invece le donne musulmane le sole vittime di cattivi mariti, ovviamente anch’essi musulmani. Emblematico è stato il caso di un rabbino fuggito in Canada inseguito da un ordine di cattura per violenza: l’avvenimento è stato ignorato, in primo luogo dalle agenzie di stampa. Così anche il fenomeno dei refusnik, i ragazzi israeliani che non vogliono fare il servizio militare nei Territori occupati: “Ok, si può fare un pezzo, ma senza esagerare!”. L’immaginario è fermo al fatto che tutti I giovani israeliani difendono la loro patria. SEMPLICEMENTE PERSONE In otto anni vissuti tra Il Cairo e Gerusalemme e in diciassette in Medio Oriente, ho imparato che gli arabi e i musulmani sono innanzitutto persone come noi. Hanno desideri esattamente uguali ai nostri. L’aspirazione, ad esempio, a una felicità familiare, a far studiare i propri figli. Nel mondo arabo, molto più che da noi, le famiglie si ammazzano di lavoro e di debiti pur di mandare i figli a scuola. Inimmaginabile è stato il dolore delle famiglie di Gaza, quando all’inizio dell’anno scolastico si è dovuta fare una selezione perché non c’erano soldi per comperare i quaderni e i libri per tutti all’interno di ciascun nucleo familiare. Alcuni figli sono potuti andare a scuola mentre altri sono stati costretti a lavorare. Di loro, moltissimi sono musulmani, come ci sono anche arabi cristiani. Quello che non può sfuggire è che tutti sono realmente delle persone! Questo dato è stato cancellato dall’informazione. Così, le persone vengono descritte come “musulmani”, intendendo con ciò che sono potenzialmente dei terroristi: ciò è gravissimo! Inoltre, dal punto di vista dei cattolici, è in gioco il nostro modo di guardare alle persone. Mi chiedo: la fede permette a un cattolico di avvicinarsi a un musulmano senza paura? Uno è abbastanza convinto di quello che ha incontrato nella propria vita da potersi avvicinare all’altro senza timore oppure no? Ci sono cattolici che hanno invece questo timore e questo fa sì che il rapporto si complichi. Sono spesso invitato alla prudenza su questo argomento, io rispondo in un altro modo: ricordo il giorno dei funerali di papa Giovanni Paolo II, che ho vissuto a Gerusalemme. Non c’era televisione nelle case o nei negozi dei musulmani che non fosse accesa sulle “televisioni dei terroristi”, Al Jazeera e Al-Arabyia, che trasmettevano in diretta i funerali da San Pietro. Non c’era musulmano che quel giorno, incontrandomi, non mi abbia fatto le condoglianze. Anche i musulmani sanno riconoscere chi tra i cattolici parla a loro avendo a cuore la loro umanità. Per questo, nell’affrontare i problemi dei cristiani in Palestina, e nel parlare dell’esodo dei cristiani da Betlemme, si deve ricordare che spesso i problemi riguardano, ad esempio, ogni singola persona che vive a Betlemme. Cristiana o musulmana che sia. Se poi il cristiano ha la fortuna di avere il visto per espatriare e il musulmano no, l’esodo si fonda su un problema comune. CARE INTERNATIONAL: “A Gaza situazione
catastrofica”
di Andrea Dessi (per Osservatorio Iraq) * Care internazionale è un’organizzazione no profit che opera globalmente in più di sessanta paesi, è composta da una confederazione di dodici organizzazioni membri il cui scopo è combattere la povertà globale e favorire la distribuzione di aiuti d’emergenza in casi di crisi umanitaria. È presente in Cisgiordania e a Gaza dal 1948 e durante quest’anni ha avviato una serie di progetti all’interno di varie comunità palestinesi concentrandosi sul rafforzamento della società civile, dell’infrastruttura sanitaria e di quella scolastica, così come sullo sviluppo della produzione agricola, delle risorse naturali e dell’economia locale Nel marzo 2008 otto ong attive in Palestina posero l’attenzione sulla situazione umanitaria di Gaza, definendola “la peggiore dall’inizio dell’occupazione militare israeliana del 1967”. Oggi le condizioni di vita nella Striscia sono divenute, se possibile, anche più gravi. “Quando fu pubblicato quel rapporto – ci dice Martha Myers*, direttrice nazionale di Care International, una delle organizzazioni firmatarie della denuncia del marzo scorso - l’80 per cento della popolazione di Gaza [1,5 milioni] dipendeva dalla comunità internazionale per sopravvivere, mentre il 50 per cento si trovava in condizioni di povertà estrema. Inoltre, una maggioranza di loro consuma la metà della quantità d’acqua consigliata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), per la maggior parte inquinata o salina. Quindi, nel marzo 2008, la situazione in termini degli indicatori umani basilari, cibo, possibilità di rifugio e accesso alle più fondamentali necessità sanitarie, erano già in grave carenza. Poi a dicembre abbiamo avuto questa guerra, e l’impatto è stato catastrofico”. A pezzi è l’economia della Striscia. “Come risultato dei diciotto mesi di blocco prima dell’conflitto – spiega Myers - il 93 per cento dell’infrastruttura del commercio privato non aveva la possibilità di operare; ora queste aziende sono state bombardate. La fabbrica di succhi, la più grande azienda di farina, le fabbriche di cemento sono state tutte distrutte; anche la centrale elettrica è stata colpita più volte e non è più in grado di servire Gaza per intero. Perfino il sistema idraulico e le fognature sono state colpite”. Secondo la direttrice di Care, “l’unica ragione per la quale Gaza non è sprofondata in una situazione di totale carestia e pestilenza è l’assistenza che arriva attraverso le organizzazioni internazionali, principalmente il Programma alimentare mondiale (Pam) e l’Agenzia Onu per i profughi palestinesi (Unrwa), e i salari che vengono pagati dall’Autorità Palestinese (Ap), anche essa aiutata dalla comunità internazionale. Durante gli ultimi mesi però gli israeliani hanno bloccato molti trasferimenti di fondi, causandone una grave scarsità. Adesso, quindi, non c’è elettricità o carburante, non esiste alcuna forma di import o export, e c’è anche una mancanza di fondi liquidi nell’economia”. Grazie alla sua continua presenza all’interno della striscia di Gaza, Care International è riuscita a mantenere in attività i vari progetti che dirige sul territorio, sia durante i diciotto mesi di blocco israeliano che hanno preceduto il conflitto che durante le tre settimane di guerra poi seguite. “Nonostante per ovvi motivi alcuni nostri progetti, come quello sulla democrazia governativa, siano stati interrotti durante il conflitto - spiega Myers - nel complesso siamo riusciti a proseguire con il nostro lavoro. Il progetto sulla sicurezza alimentare, nel quale compriamo verdure fresche a prezzi di mercato dagli agricoltori locali per poi consegnarli alle famiglie più vulnerabili della Striscia, è stato mantenuto in funzione con qualche piccola modifica. A causa dei violenti scontri registratisi nel nord della Striscia è stato impossibile raggiungere alcune delle famiglie, ma grazie alla flessibilità dell’European Commission’s Aid Office (Echo), il nostro donatore principale per questo progetto, siamo riusciti a deviare il materiale a loro destinato, consegnandolo invece agli ospedali di Gaza”. L’importanza di questo progetto è incrementato dal fatto che mentre il Pam e Unrwa sfamano la maggior parte della popolazione di Gaza distribuendo alimenti secchi, quali riso e lenticchie ad esempio, Care International fornisce alimenti freschi. Abbiamo inoltre mantenuto in funzione il nostro programma sanitario con la raccolta di medicinali e rifornimenti ospedalieri da consegnare poi ai nostri soci nella Striscia, anche se – ovviamente - il loro bisogno è cresciuto in maniera esponenziale a causa del numero crescente di morti e feriti”. Rispondendo ad una domanda sulla mancata apertura dei valichi di frontiera tra Israele e Gaza sia prima che durante l’operazione “Piombo Fuso”, e se qualcosa fosse cambiato da quando è stata dichiarata la tregua, Myers risponde seccamente; “No, non ancora. I mesi di novembre e dicembre sono stati particolarmente duri per quanto riguarda le frontiere. Ci sono tre valichi principali che collegano la striscia di Gaza con Israele e di questi solo uno, Kerem Shalom è rimasto in funzione durante i mesi passati. Ultimamente però, prima del conflitto, anche Kerem Shalom è rimasto chiuso per gran parte dei mesi di novembre e dicembre, e comunque nei suoi momenti migliori Kerem Shalom riesce a sostenere 150 camion al giorno, mentre Gaza ne richiede almeno 500 solo per soddisfare le esigenze più basilari della popolazione”. Per quanto riguarda i materiali ammessi nella Striscia “la situazione non è cambiata”, nonostante le mutate esigenze post-conflitto. “Lo standard degli israeliani su ciò che viene considerato materiale umanitario – afferma la direttrice dell’ong - non include nulla che possa servire alla ricostruzione di Gaza. Non vengono permessi pezzi di ricambio di alcun genere, tubature per l’acqua o per l’irrigazione, plastica, bacchette metalliche, cemento, attrezzature agricole o fertilizzante. Non ci resta che continuare a lavorare immaginando che la comunità internazionale farà pressione su Israele affinché possa passare almeno il materiale necessario per rispondere alla crisi a un livello umanitario. Per tutto il resto, è chiaro che non si può pensare di aggiustare il sistema idraulico o di costruire nuove case se non si ha accesso a un materiale essenziale come il cemento”. * Martha Myers ha vissuto nei Territori palestinesi occupati per molta della sua vita adulta. È stata direttamente coinvolta in questioni riguardanti lo sviluppo della società palestinese e del conflitto con Israele da più di trent’anni |
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