Re: Benedetto XVI, il capialismo, il marxismo e il lavoro
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- Date: Mon, 29 Sep 2008 11:55:03 +0200
08 10 Il lavoro del servoArticolo di
Raniero La Valle per il n. 20 di Rocca 15 ottobre 2008 (rocca at cittadella.org ) nella rubrica RESISTENZA E PACE C’è una parola di Benedetto
XVI, tra le tante consuete e inconsuete che ha detto nel suo viaggio a Parigi ed
a Lourdes, che si distacca dalle altre
e resta come motivo di illuminazione e di ripensamento. È stato quando,
nell’ex monastero benedettino dei Bernardins, dinanzi al mondo culturale
francese, a due ex Presidenti della Repubblica e ai musulmani che vi erano stati
invitati, è passato dal discorso sulla preghiera (“ora”) a quello sul
lavoro (“labora”); e per dire quanto a questo riguardo il monachesimo era
stato innovativo, ha ricordato da dove veniamo: veniamo da una cultura, da una
società, da una storia nella quale il lavoro era considerato spregevole ed era
addossato esclusivamente ai servi, agli schiavi. Ha detto il Papa: “Nel mondo
greco il lavoro fisico era considerato l’opera dei servi. Il saggio, l’uomo
veramente libero, si consacrava unicamente alle cose spirituali; egli lasciava
il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che erano
considerati estranei a questa esistenza superiore, quella dello spirito”. Dunque
c’erano due categorie di esseri umani: l’una fatta per le cose fisiche, l’altra
per quelle spirituali; l’una atta ad obbedire, l’altra a comandare, come diceva
Aristotele riferendosi egualmente all’altra grande subordinazione gerarchica,
quella della donna rispetto all’uomo. Questo era il “logos” greco, la percezione
razionale greca della realtà umana. È
significativo che il Papa, che è un gran sostenitore della radice greca
del cristianesimo, metta a nudo proprio questa tara congenita dell’antropologia
greca. Anche il suo predecessore,
Giovanni Paolo II, aveva denunciato questo peccato originale del mondo classico:
“L’età antica – aveva scritto nella Laborem excersens, introdusse tra gli
uomini una propria tipica differenziazione in ceti a seconda del tipo di lavoro
che eseguivano. Il lavoro che richiedeva da parte del lavoratore l’impiego delle
forze fisiche, il lavoro dei muscoli e delle mani, era considerato indegno degli
uomini liberi e alla sua esecuzione venivano perciò designati gli schiavi”.
Nulla poteva essere più contrario alla sensibilità di papa Wojtyla, che in
quella sua enciclica faceva del lavoro il segno distintivo dell’uomo, fino a
dire che il lavoro costituisce “la sua stessa natura”: dunque non solo il lavoro
come opera dell’uomo, ma l’uomo è lavoro. Quali sono i motivi più
profondi di questo rovesciamento cristiano della filosofia antica? Sia Giovanni
Paolo II che Benedetto XVI ne pongono il fondamento nella somiglianza dell’uomo
con Dio: come Dio ha lavorato per la creazione del mondo e tuttora “lavora”
nella storia (“ergázetai”, ha detto il Papa a Parigi), così anche l’uomo
lavora partecipando alla sua opera. Giovanni Paolo II aggiungeva a questa
apologetica il richiamo al fatto che anche Gesù, come Giuseppe, lavorava come
artigiano, per non parlare del lavoro dei Dodici e di quello di
Paolo. Ma c’è un motivo ancora più
dirompente nel messaggio cristiano, per il quale il lavoro non dovrebbe mai più,
mai più, essere diffamato, alienato, sfruttato, ridotto a merce, assimilato agli
altri “mezzi di produzione”, comprato “per un paio di sandali” e reso pericoloso
e precario, come fa “l’economismo” capitalistico; né mai la liberazione umana
dovrebbe essere concepita come liberazione “dal” lavoro, come fa il marxismo. E
la ragione sta nella radicalità della decisione di Dio, che non solo si è fatto
uomo, assumendo l’una e l’altra delle due categorie della società greca, i
signori e i servi, ma si è fatto servo, assumendo come primariamente divina la
condizione più disprezzata, e nemmeno tenuta per umana, e assumendo perciò nella
nuova realtà teandrica proprio l’opera esclusivamente addossata ai servi, cioè
il lavoro. La Chiesa si è dimenticata
questa parte del suo messaggio, che tuttavia è decisiva. Le prime comunità
cristiane dicevano che il Logos, il Verbo, Cristo Gesù, pur essendo nella natura
di Dio aveva assunto la natura del servo. Poi lo proclamò nella sua definizione
di fede il Concilio di Calcedonia. Oggi lo diciamo nella liturgia della messa,
quando si legge la lettera di Paolo ai Filippesi; ma questo “kerigma” arriva a
noi depotenziato, perché il “farsi servo” viene interpretato in senso spirituale
e l’essere servo di Gesù viene sublimato come “servo di Dio” o come il “servo”
di Isaia. La novità è invece che Dio si è fatto servo, nel senso di schiavo,
perché tutti i servi fossero uomini e la loro opera, il lavoro, fosse riscattata
ed esaltata come l’opera stessa di Dio fatta nella storia “dalla mente e dalle
mani dell’uomo”. Raniero La Valle
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