1918-2008 Contro la vittoria
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- From: "Enrico Peyretti" <e.pey at libero.it>
- Date: Tue, 26 Aug 2008 12:10:24 +0200
Ci sarà qualcuno che oserà, nel
novembre di quest'anno, celebrare i novant'anni della cosiddetta vittoria del
1918.
Vorrei dedicare a chi farà lutto
come a chi farà festa, questo racconto di Luca Sassetti. E' la storia
di un fante della "Grande Guerra": una storia possibile, perciò contenente
verità.
Mi permetto anche di ricordare
che qualche anno fa raccolsi in un libro 115 testi da tutti i tempi e le fonti
contro l'ideologia del vincere:
"Dov'è la vittoria? Piccola antologia
aperta sulla miseria e la fallacia del vincere", Il segno dei Gabrielli editori,
San Pietro in Cariano (VR), marzo 2005, pp. 110, euro 10,00 (scrivimi at gabriellieditori.it ;
tel 045 77 25 43 ).
Oggi ho collezionato alcune
altre decine di testi simili, scoperti dopo quel libro.
Enrico Peyretti,
Torino
***
Racconto Il fante già morto(su il foglio n. 316, novembre 2004;
www.ilfoglio.info
) L’anima del fante era distrutta. Il suo corpo, a parte la
stanchezza, era ancora integro, forte. Ma l’anima distrutta. Essere in guerra
era già la morte. Stare come una talpa nel fango della trincea; vedere la morte,
voluta e chiamata dai comandanti, che mangia vivi uomini sani e forti, come la
cornacchia mangia un passero innocente, era già essere morti. Il compaesano e
amico Beppe, il giorno prima, uscendo in quel folle attacco, era stato tagliato
in due dalla mitraglia, come un ramo dalla roncola. Una roncola che distrugge il
mondo, invece di potarlo e coltivarlo. Da casa, poche amare notizie: il padre era morto poco
dopo la partenza. Da vero socialista, non accettava nessuna guerra. Vedere, in
Europa e in Italia, anche i socialisti piegarsi a rispettare la guerra, che
poteva ammazzargli i figli, ed era sempre la guerra del capitale contro il
popolo, questo dolore e questa vergogna avevano cominciato con l’ammazzare lui.
Negli ultimi tempi pensava sempre a Jean Jaurès, e voleva imparare qualcosa di
francese per leggere i suoi discorsi. Andò persino dal parroco per farsi
aiutare. I due si capirono, senza altre parole. Nel lavoro dei campi, lo
vedevano spesso fermarsi pensoso, perché la stanchezza della mente pesava più di
quella dell’età sulle ossa e sui muscoli, e un ragazzo, dal quale non si nascose
come si nascondeva dagli adulti, lo aveva visto
piangere. La madre reggeva tutto. Il fante sapeva che il cuore di
sua madre sanguinava, ma non poteva spezzarsi, non le era permesso, perché lei
reggeva tutto, accudiva e pensava a tutti, i vivi e i morti, i nuovi nati e le
spose fresche. Non si può vivere in un mondo che uccide. Sua madre lo
può, lui no. Non solo uccide, ma, per suprema offesa, ti comanda di uccidere.
Lui non aveva ancora ucciso nessun austriaco, contadini come noi. Ma aveva paura
di farlo, un giorno o l’altro. Questa bestia della guerra ti condanna ad
ammazzare, quando ti prende all’improvviso il terrore dell’altro che hai di
fronte. Aveva già visto uomini miti, buoni cristiani, trasformati in assassini,
per la maledetta paura. Levarsi la paura di morire, questo era il coraggio da
conquistare per uscire dalla trappola. La volpe si stacca la zampa dalla
trappola coi denti, ed è libera, mutilata ma libera. Spararsi ai piedi, no, il
trucco è vecchio, ti condannano, ti dimostri vile, e lasci gli altri
nell’inferno. Non bisogna solo uscirne, bisogna maledire la guerra. Non si può
vivere quando la legge è uccidere. Bisogna uccidere questa legge.
Sapeva che un po’ più in là, i compagni avevano ammazzato
quel tenente pazzo, che gettava gli uomini nel fuoco come legna nel camino. Era
anche figlio di un industriale degli esplosivi. Un colpo diritto alla tempia,
mentre scrutava col cannocchiale per studiare un altro assalto. Subito i
superiori avevano proposto la medaglia: morto da eroe mentre sfida il nemico. Te
lo do io l‘eroe. Piano piano, gli venne l’idea. Prese corpo
nell’immaginazione fino a diventare un progetto preciso. Morire è destino quasi
certo, qui, sempre più certo. Se non sei morto oggi, domani è più facile. Almeno
morire per qualcosa. Non per quei pescicani, ma per la povera gente. Morire per
uccidere la guerra. Molto più che un tenente pazzo. La madre avrebbe retto anche
questa. La fidanzata si sarebbe rassegnata, forse lo è già, fin troppo, scrive
così poco. Al paese, e al circolo socialista, avrebbero capito, eccome. Suo
padre avrebbe sorriso contento, venendogli incontro. Quella notte dormì
tranquillo, come mai prima, per quanto è possibile in
trincea. Il giorno dopo, aspettò il momento teso che precede gli
assalti. Mentre il capitano guardava altrove, saltò fuori d’un balzo dalla
trincea, senza fucile. Le braccia aperte come una croce, camminava diritto
incontro a quelli che chiamano nemici. Vedeva le bocche dei fucili, la canna
delle mitraglie. Da lì sarebbe venuta la pace per lui, e forse per altri, per
tanti altri, sperava. Aspettava il fuoco nel corpo. Aveva visto tante volte come
agisce. Niente, non sparavano. Qualcuno gli gridò qualcosa, da quelle trincee là
davanti. Non capì, ma era un grido non ostile, sembrava un’invocazione, ma era
una voce festosa. Ricordava gridi lontani, nei giochi allegri da
ragazzi. Un colpo arrivò, duro e bruciante. Nella
schiena. La patria in armi è una madre feroce, che non sopporta
figli liberi. Quando lo seppe la madre vera, capì tutto, segretamente
orgogliosa del figlio, consolata nei suoi dolori. Nel paese ne discussero un
po’. La patria lo dimenticò. * * * Io non so se questa storia sia vera. So che è sempre
possibile ieri, oggi, domani. Quindi è vera. Luca Sassetti, 14 agosto 2004 |
Allegato Rimosso
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