1918-2008 Contro la vittoria



    Ci sarà qualcuno che oserà, nel novembre di quest'anno, celebrare i novant'anni della cosiddetta vittoria del 1918.
    Vorrei dedicare a chi farà lutto come a chi farà festa, questo racconto di Luca Sassetti. E' la storia  di un fante della "Grande Guerra": una storia possibile, perciò contenente verità.       
    Mi permetto anche di ricordare che qualche anno fa raccolsi in un libro 115 testi da tutti i tempi e le fonti contro l'ideologia del vincere:
"Dov'è la vittoria? Piccola antologia aperta sulla miseria e la fallacia del vincere", Il segno dei Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), marzo 2005, pp. 110, euro 10,00 (scrivimi at gabriellieditori.it ; tel 045 77 25 43 ).
    Oggi ho collezionato alcune altre decine di testi simili, scoperti dopo quel libro.
    Enrico Peyretti, Torino
 
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Racconto

Il fante già morto

(su il foglio n. 316, novembre 2004; www.ilfoglio.info )

 

L’anima del fante era distrutta. Il suo corpo, a parte la stanchezza, era ancora integro, forte. Ma l’anima distrutta. Essere in guerra era già la morte. Stare come una talpa nel fango della trincea; vedere la morte, voluta e chiamata dai comandanti, che mangia vivi uomini sani e forti, come la cornacchia mangia un passero innocente, era già essere morti. Il compaesano e amico Beppe, il giorno prima, uscendo in quel folle attacco, era stato tagliato in due dalla mitraglia, come un ramo dalla roncola. Una roncola che distrugge il mondo, invece di potarlo e coltivarlo.

Da casa, poche amare notizie: il padre era morto poco dopo la partenza. Da vero socialista, non accettava nessuna guerra. Vedere, in Europa e in Italia, anche i socialisti piegarsi a rispettare la guerra, che poteva ammazzargli i figli, ed era sempre la guerra del capitale contro il popolo, questo dolore e questa vergogna avevano cominciato con l’ammazzare lui. Negli ultimi tempi pensava sempre a Jean Jaurès, e voleva imparare qualcosa di francese per leggere i suoi discorsi. Andò persino dal parroco per farsi aiutare. I due si capirono, senza altre parole. Nel lavoro dei campi, lo vedevano spesso fermarsi pensoso, perché la stanchezza della mente pesava più di quella dell’età sulle ossa e sui muscoli, e un ragazzo, dal quale non si nascose come si nascondeva dagli adulti, lo aveva visto piangere.

La madre reggeva tutto. Il fante sapeva che il cuore di sua madre sanguinava, ma non poteva spezzarsi, non le era permesso, perché lei reggeva tutto, accudiva e pensava a tutti, i vivi e i morti, i nuovi nati e le spose fresche.

Non si può vivere in un mondo che uccide. Sua madre lo può, lui no. Non solo uccide, ma, per suprema offesa, ti comanda di uccidere. Lui non aveva ancora ucciso nessun austriaco, contadini come noi. Ma aveva paura di farlo, un giorno o l’altro. Questa bestia della guerra ti condanna ad ammazzare, quando ti prende all’improvviso il terrore dell’altro che hai di fronte. Aveva già visto uomini miti, buoni cristiani, trasformati in assassini, per la maledetta paura. Levarsi la paura di morire, questo era il coraggio da conquistare per uscire dalla trappola. La volpe si stacca la zampa dalla trappola coi denti, ed è libera, mutilata ma libera. Spararsi ai piedi, no, il trucco è vecchio, ti condannano, ti dimostri vile, e lasci gli altri nell’inferno. Non bisogna solo uscirne, bisogna maledire la guerra. Non si può vivere quando la legge è uccidere. Bisogna uccidere questa legge.

Sapeva che un po’ più in là, i compagni avevano ammazzato quel tenente pazzo, che gettava gli uomini nel fuoco come legna nel camino. Era anche figlio di un industriale degli esplosivi. Un colpo diritto alla tempia, mentre scrutava col cannocchiale per studiare un altro assalto. Subito i superiori avevano proposto la medaglia: morto da eroe mentre sfida il nemico. Te lo do io l‘eroe.

Piano piano, gli venne l’idea. Prese corpo nell’immaginazione fino a diventare un progetto preciso. Morire è destino quasi certo, qui, sempre più certo. Se non sei morto oggi, domani è più facile. Almeno morire per qualcosa. Non per quei pescicani, ma per la povera gente. Morire per uccidere la guerra. Molto più che un tenente pazzo. La madre avrebbe retto anche questa. La fidanzata si sarebbe rassegnata, forse lo è già, fin troppo, scrive così poco. Al paese, e al circolo socialista, avrebbero capito, eccome. Suo padre avrebbe sorriso contento, venendogli incontro. Quella notte dormì tranquillo, come mai prima, per quanto è possibile in trincea.

Il giorno dopo, aspettò il momento teso che precede gli assalti. Mentre il capitano guardava altrove, saltò fuori d’un balzo dalla trincea, senza fucile. Le braccia aperte come una croce, camminava diritto incontro a quelli che chiamano nemici. Vedeva le bocche dei fucili, la canna delle mitraglie. Da lì sarebbe venuta la pace per lui, e forse per altri, per tanti altri, sperava. Aspettava il fuoco nel corpo. Aveva visto tante volte come agisce. Niente, non sparavano. Qualcuno gli gridò qualcosa, da quelle trincee là davanti. Non capì, ma era un grido non ostile, sembrava un’invocazione, ma era una voce festosa. Ricordava gridi lontani, nei giochi allegri da ragazzi.

Un colpo arrivò, duro e bruciante. Nella schiena.

La patria in armi è una madre feroce, che non sopporta figli liberi.

Quando lo seppe la madre vera, capì tutto, segretamente orgogliosa del figlio, consolata nei suoi dolori. Nel paese ne discussero un po’. La patria lo dimenticò.

* * *

Io non so se questa storia sia vera. So che è sempre possibile ieri, oggi, domani. Quindi è vera.

Luca Sassetti, 14 agosto 2004


 
Allegato Rimosso