IL CATTOLICO ADULTO, di Raniero La
Valle
In mezzo a una campagna elettorale devastante, in cui
sono perfino tornati a risuonare tetri squilli di guerra (“bisogna tornare
in Iraq”) è arrivata la decisione di Prodi di uscire dalla politica
italiana. È una notizia che va oltre l’immediato, per almeno due
ragioni.
La prima è che con Prodi esce dalla politica dei
partiti e del Parlamento l’ultimo “cattolico adulto”. È molto improbabile,
nelle attuali condizioni, che ce ne possano essere altri. La Chiesa non
gradisce. Non è una novità di Ruini. La consegna della Chiesa italiana (con
la breve parentesi del pontificato roncalliano) ai cattolici impegnati nella
politica, non è mai stata quella di essere “adulti”, ma di essere
obbedienti. C’è uno spiacevole libro di una giovane ricercatrice
dell’Università cattolica, Eliana Versace, che pubblica molti documenti che
lo comprovano, relativi all’episcopato milanese di Montini, un libro che
rivela il suo intento ideologico fin dal titolo fuorviante: Montini e
l’apertura a sinistra. Il falso mito del “vescovo progressista”. Il
pregiudizio ideologico consiste nell’assioma secondo cui, per il fatto di
essere contrario all’apertura ai socialisti, l’arcivescovo di Milano non
poteva essere considerato “progressista”; e consiste altresì nello spogliare
Montini della sua ricca complessità, per riguadagnarlo simpliciter
nella schiera dei vescovi (e dei papi) conservatori, ignorando il meglio
del suo magistero e giungendo al punto di negare, per amor di tesi, la sua
stessa amicizia per Moro, da lui invece drammaticamente testimoniata durante
il sequestro, nella lettera alle BR non meno che nell’omelia in San
Giovanni, fino a morirne.
Ciò detto, in questo libro tuttavia appaiono molte
prove di come in quella stagione precedente al Concilio, alla quale molti
oggi vorrebbero tornare, fosse esclusa anche dalla parte migliore della
Chiesa l’idea di un laicato cristiano adulto, capace di autonome e fruttuose
scelte politiche. Così fu per l’avversione del Vaticano a quella che fu
detta “la prima elezione di un cattolico al Quirinale”, preferendosi la
riconferma del laico e liberale Einaudi piuttosto che l’elezione di Gronchi,
cosa di cui l’arcivescovo Montini rimproverò gli esponenti della sinistra
democristiana milanese; così fu per le direttive di Montini nel 1955 al
segretario provinciale della DC milanese, Ripamonti, e allo stesso
vice-segretario nazionale Rumor, in cui si dettavano anche i programmi
elettorali, nei quali gli interessi cattolici dovevano precedere quelli
della società: “Le competizioni elettorali devono avere come oggetto
precipuo un programma che contempli gli interessi cattolici, quelli della
società e subordinatamente quelli dei partiti, delle tendenze, delle
persone”; e ne andava dell’ortodossia.
E, più in generale, quanto al ruolo dei laici nella
loro “collaborazione alla gerarchia”, come allora si diceva, lo stesso
Montini nel discorso al II Congresso per l’apostolato dei laici nel 1957, lo
riduceva allo “studio del mondo presente”, di cui i laici hanno migliore e
più approfondita conoscenza, e nella “segnalazione alla Chiesa dei risultati
di tale studio”, mentre essi dovevano lasciare alla gerarchia il compito di
“determinare quali siano i tempi maturi per date riforme e quali siano le
riforme da eseguire”: tanti decenni dopo, il torto del cattolico Prodi è
stato che le riforme le voleva fare lui.
La seconda ragione dell’importanza della rinuncia di
Prodi sta nella prova che essa fornisce che il disegno dello stesso Prodi di
cancellare i partiti per far confluire tutti i democratici in un unico
grande contenitore, l’Ulivo prima, l’Unione e il Partito democratico poi,
era sbagliato fin dall’inizio. Quello che non si è realizzato è infatti il
suo presupposto: che nella nuova forma di regime politico fosse possibile
far vivere un’idea alta della politica, farla gestire da uomini di grande
statura intellettuale e morale, e così finalmente poter realizzare “l’Italia
che vogliamo”. Nell’adempiersi, il progetto ha divorato il suo autore e il
nuovo ordine politico ha espulso il suo principale architetto che ora, come
ha scritto Le Figaro, “fa elegantemente l’inchino e se ne va
nell’indifferenza generale”. I nani invece
restano.
Ma c’è più che indifferenza: c’è la rimozione, come
se il governo Prodi non fosse neanche da ricordare; e c’è, nella campagna
veltroniana, l’idea che la novità, e l’alternativa, sono rispetto a Prodi
più ancora che a Berlusconi, abbandonando così il professore e la prova di
una intera classe dirigente di centro-sinistra allo scempio degli avversari.
È una grave ingiustizia, anzi un’offesa, ed è anche un calcolo sbagliato;
perché con tutti i suoi errori e lacune il governo Prodi è stato un momento
alto nella storia della Repubblica, e rinnegarlo è già un modo di
perdere.
Raniero La Valle