Re: [beati] sulla gerarchia cattolica a la politica



Caro Fausto,
non mi pare che quallo di La Valle sia un elogio globale di Prodi. E' più un discorso sulla chiesa che sul governo. Afferma che Prodi ha agito da cattolico indipendente dalla gerarchia. Ha anche pagato un prezzo per questo. Poi, resta da valutare come ha agito, e lo sappiamo. Anche De Gasperi è criticabile per certe cose, ma gli va riconosciuto che tenne testa al clericalismo del suo tempo. Ciao! Enrico Peyretti
 
----- Original Message -----
Sent: Tuesday, March 18, 2008 10:05 AM
Subject: Re: [beati] sulla gerarchia cattolica a la politica

Ciao,
 
Forse è bene ricordare che Prodi è anche stato (sia adesso che nel 1996) il premier del riarmo e del ruolo imperialista dell'Italia, della precarizzazione del lavoro e del rafforzamento dell'impresa contro i lavoratori e contro i soggetti più deboli, del razzismo contro gli immigrati e del suo uso politico, della devastazione ambientale e finanziaria delle grandi opere, a partire dalla TAV.
Un'idea alta della politica è il farla dalla parte dei lavoratori, del sud del mondo, delle generazioni future.
Essere cattolico adulto (ammesso che sia vero) non è neanche lontanamente sufficiente, così come non lo è il fatto (vero) che chi viene dopo sia ancora peggio.
Ciao
Fausto Angelini


Enrico Peyretti <e.pey at libero.it> ha scritto:
IL CATTOLICO ADULTO, di Raniero La Valle
 
Per Rocca n. 7, 1 aprile 2008  (rocca at cittadella.org ),
 
In mezzo a una campagna elettorale devastante, in cui sono perfino tornati a risuonare tetri squilli di guerra (“bisogna tornare in Iraq”) è arrivata la decisione di Prodi di uscire dalla politica italiana. È una notizia che va oltre l’immediato, per almeno due ragioni.
La prima è che con Prodi esce dalla politica dei partiti e del Parlamento l’ultimo “cattolico adulto”. È molto improbabile, nelle attuali condizioni, che ce ne possano essere altri. La Chiesa non gradisce. Non è una novità di Ruini. La consegna della Chiesa italiana (con la breve parentesi del pontificato roncalliano) ai cattolici impegnati nella politica, non è mai stata quella di essere “adulti”, ma di essere obbedienti. C’è uno spiacevole libro di una giovane ricercatrice dell’Università cattolica, Eliana Versace, che pubblica molti documenti che lo comprovano, relativi all’episcopato milanese di Montini, un libro che rivela il suo intento ideologico fin dal titolo fuorviante: Montini e l’apertura a sinistra. Il falso mito del “vescovo progressista”. Il pregiudizio ideologico consiste nell’assioma secondo cui, per il fatto di essere contrario all’apertura ai socialisti, l’arcivescovo di Milano non poteva essere considerato “progressista”; e consiste altresì nello spogliare Montini della sua ricca complessità, per riguadagnarlo simpliciter nella schiera dei vescovi (e dei papi) conservatori, ignorando il meglio del suo magistero e giungendo al punto di negare, per amor di tesi, la sua stessa amicizia per Moro, da lui invece drammaticamente testimoniata durante il sequestro, nella lettera alle BR non meno che nell’omelia in San Giovanni, fino a morirne.
Ciò detto, in questo libro tuttavia appaiono molte prove di come in quella stagione precedente al Concilio, alla quale molti oggi vorrebbero tornare, fosse esclusa anche dalla parte migliore della Chiesa l’idea di un laicato cristiano adulto, capace di autonome e fruttuose scelte politiche. Così fu per l’avversione del Vaticano a quella che fu detta “la prima elezione di un cattolico al Quirinale”, preferendosi la riconferma del laico e liberale Einaudi piuttosto che l’elezione di Gronchi, cosa di cui l’arcivescovo Montini rimproverò gli esponenti della sinistra democristiana milanese; così fu per le direttive di Montini nel 1955 al segretario provinciale della DC milanese, Ripamonti, e allo stesso vice-segretario nazionale Rumor, in cui si dettavano anche i programmi elettorali, nei quali gli interessi cattolici dovevano precedere quelli della società: “Le competizioni elettorali devono avere come oggetto precipuo un programma che contempli gli interessi cattolici, quelli della società e subordinatamente quelli dei partiti, delle tendenze, delle persone”; e ne andava dell’ortodossia.  
E, più in generale, quanto al ruolo dei laici nella loro “collaborazione alla gerarchia”, come allora si diceva, lo stesso Montini nel discorso al II Congresso per l’apostolato dei laici nel 1957, lo riduceva allo “studio del mondo presente”, di cui i laici hanno migliore e più approfondita conoscenza, e nella “segnalazione alla Chiesa dei risultati di tale studio”, mentre essi dovevano lasciare alla gerarchia il compito di “determinare quali siano i tempi maturi per date riforme e quali siano le riforme da eseguire”: tanti decenni dopo, il torto del cattolico Prodi è stato che le riforme le voleva fare lui.
La seconda ragione dell’importanza della rinuncia di Prodi sta nella prova che essa fornisce che il disegno dello stesso Prodi di cancellare i partiti per far confluire tutti i democratici in un unico grande contenitore, l’Ulivo prima, l’Unione e il Partito democratico poi, era sbagliato fin dall’inizio. Quello che non si è realizzato è infatti il suo presupposto: che nella nuova forma di regime politico fosse possibile far vivere un’idea alta della politica, farla gestire da uomini di grande statura intellettuale e morale, e così finalmente poter realizzare “l’Italia che vogliamo”. Nell’adempiersi, il progetto ha divorato il suo autore e il nuovo ordine politico ha espulso il suo principale architetto che ora, come ha scritto Le Figaro, “fa elegantemente l’inchino e se ne va nell’indifferenza generale”. I nani invece restano.
Ma c’è più che indifferenza: c’è la rimozione, come se il governo Prodi non fosse neanche da ricordare; e c’è, nella campagna veltroniana, l’idea che la novità, e l’alternativa, sono rispetto a Prodi più ancora che a Berlusconi, abbandonando così il professore e la prova di una intera classe dirigente di centro-sinistra allo scempio degli avversari. È una grave ingiustizia, anzi un’offesa, ed è anche un calcolo sbagliato; perché con tutti i suoi errori e lacune il governo Prodi è stato un momento alto nella storia della Repubblica, e rinnegarlo è già un modo di perdere.
                                                                                                  Raniero La Valle 
 


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