sulla gerarchia cattolica a la politica
- Subject: sulla gerarchia cattolica a la politica
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- Date: Mon, 17 Mar 2008 08:33:56 +0100
IL CATTOLICO ADULTO, di Raniero La Valle Per Rocca n. 7, 1 aprile 2008 (rocca at cittadella.org ), In mezzo a una campagna elettorale devastante, in cui
sono perfino tornati a risuonare tetri squilli di guerra (“bisogna tornare in
Iraq”) è arrivata la decisione di Prodi di uscire dalla politica italiana. È una
notizia che va oltre l’immediato, per almeno due
ragioni. La prima è che con Prodi esce dalla politica dei partiti
e del Parlamento l’ultimo “cattolico adulto”. È molto improbabile, nelle attuali
condizioni, che ce ne possano essere altri. La Chiesa non gradisce. Non è una
novità di Ruini. La consegna della Chiesa italiana (con la breve parentesi del
pontificato roncalliano) ai cattolici impegnati nella politica, non è mai stata
quella di essere “adulti”, ma di essere obbedienti. C’è uno spiacevole libro di
una giovane ricercatrice dell’Università cattolica, Eliana Versace, che pubblica
molti documenti che lo comprovano, relativi all’episcopato milanese di Montini,
un libro che rivela il suo intento ideologico fin dal titolo fuorviante:
Montini e l’apertura a sinistra. Il falso mito del “vescovo
progressista”. Il pregiudizio ideologico consiste nell’assioma secondo cui,
per il fatto di essere contrario all’apertura ai socialisti, l’arcivescovo di
Milano non poteva essere considerato “progressista”; e consiste altresì nello
spogliare Montini della sua ricca complessità, per riguadagnarlo simpliciter
nella schiera dei vescovi (e dei papi) conservatori, ignorando il meglio del
suo magistero e giungendo al punto di negare, per amor di tesi, la sua stessa
amicizia per Moro, da lui invece drammaticamente testimoniata durante il
sequestro, nella lettera alle BR non meno che nell’omelia in San Giovanni, fino
a morirne. Ciò detto, in questo libro tuttavia appaiono molte prove
di come in quella stagione precedente al Concilio, alla quale molti oggi
vorrebbero tornare, fosse esclusa anche dalla parte migliore della Chiesa l’idea
di un laicato cristiano adulto, capace di autonome e fruttuose scelte politiche.
Così fu per l’avversione del Vaticano a quella che fu detta “la prima elezione
di un cattolico al Quirinale”, preferendosi la riconferma del laico e liberale
Einaudi piuttosto che l’elezione di Gronchi, cosa di cui l’arcivescovo Montini
rimproverò gli esponenti della sinistra democristiana milanese; così fu per le
direttive di Montini nel 1955 al segretario provinciale della DC milanese,
Ripamonti, e allo stesso vice-segretario nazionale Rumor, in cui si dettavano
anche i programmi elettorali, nei quali gli interessi cattolici dovevano
precedere quelli della società: “Le competizioni elettorali devono avere come
oggetto precipuo un programma che contempli gli interessi cattolici, quelli
della società e subordinatamente quelli dei partiti, delle tendenze, delle
persone”; e ne andava dell’ortodossia. E, più in generale, quanto al ruolo dei laici nella loro
“collaborazione alla gerarchia”, come allora si diceva, lo stesso Montini nel
discorso al II Congresso per l’apostolato dei laici nel 1957, lo riduceva allo
“studio del mondo presente”, di cui i laici hanno migliore e più approfondita
conoscenza, e nella “segnalazione alla Chiesa dei risultati di tale studio”,
mentre essi dovevano lasciare alla gerarchia il compito di “determinare quali
siano i tempi maturi per date riforme e quali siano le riforme da eseguire”:
tanti decenni dopo, il torto del cattolico Prodi è stato che le riforme le
voleva fare lui. La seconda ragione dell’importanza della rinuncia di
Prodi sta nella prova che essa fornisce che il disegno dello stesso Prodi di
cancellare i partiti per far confluire tutti i democratici in un unico grande
contenitore, l’Ulivo prima, l’Unione e il Partito democratico poi, era sbagliato
fin dall’inizio. Quello che non si è realizzato è infatti il suo presupposto:
che nella nuova forma di regime politico fosse possibile far vivere un’idea alta
della politica, farla gestire da uomini di grande statura intellettuale e
morale, e così finalmente poter realizzare “l’Italia che vogliamo”.
Nell’adempiersi, il progetto ha divorato il suo autore e il nuovo ordine
politico ha espulso il suo principale architetto che ora, come ha scritto Le
Figaro, “fa elegantemente l’inchino e se ne va nell’indifferenza generale”.
I nani invece restano. Ma c’è più che indifferenza: c’è la rimozione, come se il
governo Prodi non fosse neanche da ricordare; e c’è, nella campagna veltroniana,
l’idea che la novità, e l’alternativa, sono rispetto a Prodi più ancora che a
Berlusconi, abbandonando così il professore e la prova di una intera classe
dirigente di centro-sinistra allo scempio degli avversari. È una grave
ingiustizia, anzi un’offesa, ed è anche un calcolo sbagliato; perché con tutti i
suoi errori e lacune il governo Prodi è stato un momento alto nella storia della
Repubblica, e rinnegarlo è già un modo di perdere.
Raniero La Valle
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