intervento in aula di Elettra Deiana su decreto missioni internazionali



Signor Presidente, voglio iniziare questo mio intervento, a nome mio e del
mio gruppo, esprimendo un giudizio molto critico sulla decisione della
Conferenza dei presidenti di gruppo di non chiedere la presenza in Aula del
Governo per riferire sulla questione dell'indipendenza del Kosovo,
riducendo, quindi, tutto a un'informativa del Ministro degli affari esteri
alle congiunte Commissioni esteri di Camera e Senato.
Voglio anche ricordare al Governo, al Viceministro Intini in maniera
particolare, che la Camera ha al suo attivo due mozioni, sempre sulla
questione del Kosovo, che esprimono o un giudizio critico sull'eventualità
della dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo o forti
preoccupazioni, dando mandato al Governo di fare di tutto per arrivare a
una soluzione condivisa tra la Serbia e il Kosovo, per evitare, insomma, di
subire questo processo di secessione, foriero di pesantissimi rischi sia
per quella regione che per altre regioni europee.
Voglio anche sottolineare che il Governo, allo stato attuale - non soltanto
perché si tratta di un Governo in carica per la normale amministrazione e
non per questioni così rilevanti, ma anche in ragione del fatto che esiste
un orientamento del Parlamento del tipo che ho illustrato - non può non
tenere conto della situazione, pena un grave vulnus nei rapporti tra
Parlamento e Governo.
Penso che un eventuale riconoscimento da parte del Governo italiano
dell'atto unilaterale con cui il Kosovo, domenica scorsa, ha dichiarato la
propria indipendenza, spetti eventualmente al futuro Governo, previa una
nuova iniziativa parlamentare che cancelli quelle di cui parlavo.
Mi sembra che si tratti di una questione di grandissimo rilievo, rispetto
alla quale, fra l'altro, desidero anche sottolineare il modo con cui tutta
la vicenda è stata condotta da parte del Governo, con passaggi che
sostanzialmente hanno visto un continuo slittamento - non verificato né
discusso in alcuna sede parlamentare - delle sue posizioni.
La questione del Kosovo rappresenta uno degli aspetti più negativi del
decreto-legge al nostro esame: ciò tanto nel metodo quanto nel merito. Nel
metodo, perché l'inserimento nel decreto-legge del finanziamento della
partecipazione di 200 funzionari italiani alla missione dell'Unione europea
(missione funzionale ad instaurare in Kosovo una nuova forma di
protettorato europeo che dovrebbe sostituire il protettorato ONU),
l'inserimento - dicevo - del finanziamento dell'avvio di questa
partecipazione italiana al nuovo protettorato sul Kosovo, costituisce di
fatto una presa di posizione concreta che avviene prima ancora che il
Governo si assuma la responsabilità di dichiarare il proprio riconoscimento
della secessione del Kosovo.
Si tratta, dunque, di un metodo davvero criticabile, in quanto antepone i
fatti - fatti concreti, poiché si tratta di risorse dello Stato italiano -
alle decisioni in sede politica, e da esse prescinde. Desidero, dunque,
porre prontamente l'accento sul fatto che si tratta di un metodo che
costituisce una violazione dei rapporti democratici: di fatto, il Governo
decide attraverso marchingegni, sotterfugi e macchinazioni, a danno del
Parlamento e dell'opinione pubblica.
Dunque, attraverso il finanziamento di questa partecipazione italiana - una
partecipazione di cui non sappiamo nulla (anzi, sappiamo fin troppo: ma per
altre strade!) - si decide di avallare una scelta assai grave: ed arriviamo
così al merito della questione. Si tratta di una scelta molto grave, poiché
sostanzialmente essa avviene a dispetto di qualsiasi forma di diritto
internazionale.
I colleghi hanno fatto riferimento al diritto internazionale: ebbene, esso
viene qui violato in maniera evidentissima, poiché vi è un contrasto con la
risoluzione dell'ONU n. 1244, che è l'unico punto di riferimento in
materia. Dobbiamo riconoscere che è così: altrimenti, onorevole Marcenaro e
presidente Pinotti, parliamo di buoni sentimenti, di buone intenzioni, di
buone vocazioni, di buone opzioni, di buone azioni. E, invece, dobbiamo
parlare di diritto internazionale, poiché le questioni internazionali non
possono essere tirate da una parte o dall'altra sulla base delle intenzioni
soggettive di questo o quel ministro e di questo o quel parlamentare.
La risoluzione ONU n. 1244 riconosce la sovranità serba sul Kosovo. Fra
l'altro, noi italiani, viste le responsabilità gravissime che avemmo nella
vicenda dei Balcani, dovremmo attenerci - perlomeno ex post - alle
decisioni dell'ONU, considerato che allora partecipammo ad una guerra
facendo finta che l'ONU non vi fosse.
Si tratta, nella risoluzione 1244, di un riferimento di diritto
internazionale preciso e non interpretabile se non per quello che dice: la
sovranità sul Kosovo è una sovranità serba. Noi allora, con gli slittamenti
di posizione cui abbiamo assistito nei mesi scorsi e nelle ultime settimane
da parte del Governo italiano e del Ministro D'Alema sulla questione del
Kosovo, abbiamo praticamente assistito ad un cambiamento di scena, ad un
altro film: l'indipendenza ad un certo punto, per il Ministro D'Alema ed i
sottosegretari competenti, è diventata irreversibile. L'Europa doveva
essere unita e questo sarebbe stato un test decisivo per l'Europa.
Io credo che l'Europa - che tra l'altro, come sappiamo, su questa questione
è divisa - nei Balcani e nella vicenda del Kosovo per la seconda volta
fallisce il suo ruolo politico e fallisce la sua capacità di essere
soggetto di diritto e soggetto di integrazione reale.
In realtà, il modo di comportarsi del Governo in tutta questa vicenda ha
significato questa forte attribuzione all'Europa (un'Europa che, tra
l'altro, è divisa e non è assolutamente in grado - io dico, per fortuna -
di assumersi la responsabilità di riconoscere unitariamente, in quanto
Unione europea, l'atto unilaterale di indipendenza), e questo tentativo di
parlare dell'Europa come se fosse il soggetto titolare ad assumere una
presa di posizione unitaria e a dare il consenso alla decisione del Kosovo.
In questo modo praticamente il Governo ha operato un tentativo esplicito di
riportare tutto nella sede europea (tra l'altro, una sede debole e divisa,
come dicevo), dimenticandosi delle responsabilità dell'Unione europea nel
precipizio dei Balcani e smantellando in questo modo il ruolo del Consiglio
di sicurezza dell'ONU e delle stesse Nazioni Unite: sostanzialmente ha
attribuito all'Europa un ruolo giuridico di riconoscimento di questo
cambiamento dei rapporti nei Balcani e dei rapporti tra la Serbia sovrana e
la provincia kosovara, attribuendo un ruolo che non c'è e apportando di
fatto un ulteriore colpo alle Nazioni Unite.
Ritengo, quindi, che tutta questa vicenda sia di una gravità enorme e
ricordo la richiesta che veniva fatta dalla Camera di continuare a lavorare
per procrastinare. Tra l'altro, voglio anche ricordare al Viceministro
Intini che questa accelerazione è avvenuta anche contro il principio su cui
era partita tutta la questione del Kosovo dopo le rivolte del 2004 (le
rivolte degli indipendentisti kosovari contro l'Onu, prima ancora che
contro le minoranze serbe), e che questo processo si è avviato ed è stato
accelerato ad un certo punto contrastando anche con il principio degli
standard before status, principio che doveva rappresentare un po' la barra
per gestire un'eventuale indipendenza, con l'affermazione che il Kosovo
doveva arrivare prima ad avere degli standard di democrazia, di rispetto
dei diritti e di assetto istituzionale e statuale che sono ben lontani
dall'essere stati raggiunti.
Si sono registrati, quindi, un'accelerazione, un precipitarsi verso questa
soluzione, con tutte le gravi lacerazioni del diritto internazionale cui
prima facevo riferimento, che rispondono soltanto - e qui il giudizio è
tutto politico - alla pressante e reiterata richiesta da parte degli Stati
Uniti d'America di riconoscere l'indipendenza della provincia kosovara.
Ancora una volta, quindi, sono gli Stati Uniti che impongono la politica
interna ed estera all'Europa. Di questo si tratta ed è su questo che la
discussione dovrebbe avvenire, non sui buoni sentimenti o sulle favole che
ci vengono raccontate continuamente!
La questione del Kosovo, con tutte le implicazioni gravissime che presenta
e con tutti i rischi che comporta per il nostro Paese, considerate, tra
l'altro, la vicinanza e le implicazioni storiche (non voglio dilungarmi
oltre), viene inserita nel pacchetto missioni, che sono previste tutte
insieme appassionatamente, nonostante siano completamente diverse l'una
dall'altra e rispetto alle quali, ancora una volta, il Parlamento, ogni
singolo parlamentare è inibito nel suo diritto di esprimere un voto
specifico differente. Ciò avviene in nome di una precondizione ideologica -
la definisco così - che temo sia bipartisan ormai, per cui tutto quello che
l'Italia compie all'estero con le sue Forze armate è di per sé, per
definizione, buono.
Credo che anche su questo occorra fare chiarezza: le Forze armate italiane
partecipano a missioni in giro per il mondo con un mandato, un ordine o un
vincolo, che fanno bene a rispettare perché è una sicurezza per il nostro
Paese che i militari italiani agiscano così, ma ciò non significa che
quell'ordine sia santificante! Quell'ordine può essere giusto, sbagliato,
criticabile e può e deve essere contrastato. Voglio affermare con chiarezza
tale distinzione: i militari non c'entrano niente, non sono loro i
responsabili delle missioni e dei mandati parlamentari, in quanto sono
obbligati ad andare dove il Governo dice loro di andare (possono rendersi
colpevoli di singoli atti - uno, due o un gruppo - ma è tutta un'altra
questione!). Quindi, questo tentativo di anteporre continuamente il
sacrificio, spesso vero, reale e di sangue, dei militari italiani per
coprire e per evitare la discussione di merito su ogni missione è un modo
veramente farisaico di impedire al Parlamento di pronunciarsi e di
informare adeguatamente l'opinione pubblica su ciò che il nostro Paese
realizza con lo strumento delle Forze armate e delle missioni militari.
Vengo ora rapidamente, perché molte volte mi ci sono soffermata, alla
questione dell'Afghanistan, che è l'altro punto su cui, anche a nome del
mio gruppo, esprimo un giudizio molto negativo. Anche in questo caso, i
buoni sentimenti «stanno a zero». In Afghanistan esiste una situazione che
voglio illustrare in maniera schematica, richiamando alcuni punti che
confermano la necessità di un ripensamento radicale, che parta non dai
buoni sentimenti, ma dall'analisi di ciò che comporta, in quel Paese, la
presenza militare italiana, della NATO e degli Stati Uniti, dunque di una
presenza militare ingombrante che, per quanto riguarda l'Italia, assorbe
quasi il 100 per cento, il 90 per cento del nostro impegno finanziario nel
settore militare. Si tratta, quindi, di un impegno militare, non civile.
Allora, avevamo sostenuto l'opportunità, non la necessità (vi erano giudizi
diversi) di assumerci l'onere di verificare una soluzione diversa da quella
militare attraverso la Conferenza di pace e attraverso un rigoroso impegno
dei nostri militari rispetto agli standard militari previsti dagli articoli
della Carta delle Nazioni Unite che disciplinano il peacekeeping (quindi,
sostanzialmente, un divieto istituzionale di partecipare ad azioni di
combattimento diretto). Invece, la discussione non affrontò mai la natura
della complessiva presenza militare, con tutte le ambiguità conseguenti,
ovviamente. Infatti, non vi eravamo solo noi, ma vi era la NATO, Enduring
freedom, e l'eterodirezione diretta degli Stati Uniti, con tutto ciò che
significa per gli Stati Uniti la presenza in quell'area del mondo dal punto
di vista strategico e geopolitico. Tali argomenti evidentemente non sono da
Parlamento, in quanto il Parlamento deve svolgere i «buoni ragionamenti»
non so bene per chi, forse per un'opinione pubblica che, secondo alcuni,
deve essere edulcorata e sottratta alle discussioni di un certo tipo.
La Conferenza internazionale di pace non si è tenuta e non sono stati
prodotti passi significativi, è rimasta una buona intenzione. Oggi il
collega Marcenaro ha parlato di quest'altra conferenza, che corrisponde a
quella. Certo chi è impegnato sul campo e cerca di realizzare qualcosa vede
come la manna dal cielo le conferenze e strumenti di questo genere. Resta
il fatto che non vi è un bilancio del motivo per cui la richiesta della
Conferenza di pace, su cui questo Parlamento chiese l'impegno del Governo,
non abbia prodotto frutti in questa direzione.
Nel Paese tutto ciò che riguarda i diritti umani e la sicurezza è sotto
scacco. Vi è una situazione pesantissima. I dati ufficiali mostrano che vi
è una caduta del 50 per cento degli investimenti stranieri in Afghanistan,
in quanto gli imprenditori stranieri evidentemente non hanno voglia di
rischiare la vita o di dover spendere chissà quali somme in guardie del
corpo per fare affari in Afghanistan. Non parliamo dei diritti umani, in
quanto non voglio ricordare vicende esemplari che, per fortuna, compaiono
qualche volta sulla stampa e che la dicono lunga sui famosi progetti di
giustizia di cui l'Italia doveva essere Paese leader nell'opera di
ricostruzione delle istituzioni e della statualità dell'Afghanistan.
L'escalation e gli effetti collaterali di cui parlava il collega Marcenaro,
la morte di civili di cui tutti siamo disposti a lamentarci (ovviamente, ci
mancherebbe altro che non ci lamentassimo) non sono frutto del caso oppure
del destino cinico e baro che colpisce le popolazioni afgane: sono il
frutto di una strategia di guerra estremamente precisa che vede in gioco
gli interessi degli Stati Uniti a non mollare quella zona e che ha come
elemento stimolante aggiuntivo (ma di straordinaria importanza) il destino
della NATO.
Chiunque di noi è in grado di sapere che la NATO - lo affermano Jaap de
Hoop Scheffer, tutti i capi militari e il nostro Di Paola - gioca una
partita essenziale in Afghanistan, in quanto si gioca il suo profilo di
forza e di alleanza militare.
È lì che la NATO (che dovrebbe mettere a punto, nel suo sessantesimo
anniversario, il nuovo concetto strategico) può verificare la possibilità
di mantenere un target di alleanza militare estendibile ad altre funzioni
collaterali (un nuovo mix tra militare, diplomatico e civile: insomma, la
nuova forma di controllo mondiale da parte dei Paesi forti), oppure se essa
si ridurrà ad essere un'agenzia impegnata in qualcosa di molto più
generico. Questo è il punto: la mancata risoluzione di un'altra strada ha
il suo fondamento in questa connessione di intraprendere interessi e di
politiche di forza della NATO, che vuole continuare ad avere un ruolo
forte, nonostante le divisioni interne; infatti, in questa escalation della
NATO si evidenziano anche le contraddizioni forti. La NATO non ha più
quella presa unificante, che aveva in altri tempi, sull'Europa e
sull'Unione europea. Stiamo assistendo così a sceneggiate molto spiacevoli
(non voglio usare altri aggettivi) di alcuni Paesi della NATO, che si
arrogano il diritto di accusare noi, tra gli altri (mentre mi sembra un
titolo di merito) di non sapere e di non voler combattere, senza essere
capaci di affrontare nelle sedi dovute (Europa e NATO) la questione, che
mette veramente in imbarazzo - per usare un eufemismo! - i rapporti
internazionali.
Esiste, poi, un altro aspetto relativo a questa escalation e che
costituisce l'altro motivo per il quale confermiamo il nostro giudizio su
tutta la vicenda dell'Afghanistan. La fiducia che avevamo riposto nella
possibilità di trovare una soluzione alternativa, mantenendo le nostre
truppe in Afghanistan, è stata poi disattesa. Mi dispiace che non sia
presente il collega Marcenaro, che chiedeva come mai si fosse verificato
questo cambiamento. Esso è legato al cambiamento che sta avvenendo ed è
avvenuto in quel luogo. Abbiamo, ormai, la consapevolezza che l'Italia -
nonostante i caveat, le regole di ingaggio e il profilo di adesione che il
mandato parlamentare assicura alla parte di peacekeeping dell'ISAF - sia in
realtà sempre più coinvolta in quella che chiamo la «zona grigia» della
missione, nella quale anche gli italiani sono coinvolti in combattimenti:
non si tratta di combattimenti a fini di autotutela (ovviamente legittimi
per i militari che si trovano in quel Paese) o di uno slittamento
dell'intervento a tutela di altri colleghi in pericolo, ma di combattimenti
diretti.
Le unità speciali, i nostri corpi di eccellenza, i duecento militari
inviati in maniera «avventurosa» nella zona ovest dell'Afghanistan nella
provincia di Ferah sono stati spesso coinvolti in combattimenti diretti,
come testimonia PeaceReporter, senza che vi sia stata un'adeguata smentita
(ovviamente non può esservi, perché non si possono smentire i fatti)
documentata da parte del Governo. Non mi aspetto una smentita - so anche so
che non può esservi - per la natura della missione, che - al di là dei
buoni sentimenti che qui sento ripetere - è «impastata» di guerra: essa
nasce da una guerra e continua ad essere una missione «impastata di
guerra». Per questi motivi il giudizio sulla nostra presenza militare in
Afghanistan non può che essere molto negativo. La richiesta che avanziamo
affinché l'Italia si impegni diversamente rimane pressante e assolutamente
prioritaria.
Sicuramente il disimpegno militare in Afghanistan è ormai la condicio sine
qua non affinché un tale coinvolgimento diverso del nostro Paese sia
effettivamente diverso e non la reiterazione di quello che è avvenuto
finora.

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