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intervento in aula di Elettra Deiana su decreto missioni internazionali
- Subject: intervento in aula di Elettra Deiana su decreto missioni internazionali
- From: "forumdonne.prc at posta.rifondazione.it" <forumdelledonne at posta.rifondazione.it>
- Date: Sat, 23 Feb 2008 14:52:11 +0100
Signor Presidente, voglio iniziare questo mio intervento, a nome mio e del mio gruppo, esprimendo un giudizio molto critico sulla decisione della Conferenza dei presidenti di gruppo di non chiedere la presenza in Aula del Governo per riferire sulla questione dell'indipendenza del Kosovo, riducendo, quindi, tutto a un'informativa del Ministro degli affari esteri alle congiunte Commissioni esteri di Camera e Senato. Voglio anche ricordare al Governo, al Viceministro Intini in maniera particolare, che la Camera ha al suo attivo due mozioni, sempre sulla questione del Kosovo, che esprimono o un giudizio critico sull'eventualità della dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo o forti preoccupazioni, dando mandato al Governo di fare di tutto per arrivare a una soluzione condivisa tra la Serbia e il Kosovo, per evitare, insomma, di subire questo processo di secessione, foriero di pesantissimi rischi sia per quella regione che per altre regioni europee. Voglio anche sottolineare che il Governo, allo stato attuale - non soltanto perché si tratta di un Governo in carica per la normale amministrazione e non per questioni così rilevanti, ma anche in ragione del fatto che esiste un orientamento del Parlamento del tipo che ho illustrato - non può non tenere conto della situazione, pena un grave vulnus nei rapporti tra Parlamento e Governo. Penso che un eventuale riconoscimento da parte del Governo italiano dell'atto unilaterale con cui il Kosovo, domenica scorsa, ha dichiarato la propria indipendenza, spetti eventualmente al futuro Governo, previa una nuova iniziativa parlamentare che cancelli quelle di cui parlavo. Mi sembra che si tratti di una questione di grandissimo rilievo, rispetto alla quale, fra l'altro, desidero anche sottolineare il modo con cui tutta la vicenda è stata condotta da parte del Governo, con passaggi che sostanzialmente hanno visto un continuo slittamento - non verificato né discusso in alcuna sede parlamentare - delle sue posizioni. La questione del Kosovo rappresenta uno degli aspetti più negativi del decreto-legge al nostro esame: ciò tanto nel metodo quanto nel merito. Nel metodo, perché l'inserimento nel decreto-legge del finanziamento della partecipazione di 200 funzionari italiani alla missione dell'Unione europea (missione funzionale ad instaurare in Kosovo una nuova forma di protettorato europeo che dovrebbe sostituire il protettorato ONU), l'inserimento - dicevo - del finanziamento dell'avvio di questa partecipazione italiana al nuovo protettorato sul Kosovo, costituisce di fatto una presa di posizione concreta che avviene prima ancora che il Governo si assuma la responsabilità di dichiarare il proprio riconoscimento della secessione del Kosovo. Si tratta, dunque, di un metodo davvero criticabile, in quanto antepone i fatti - fatti concreti, poiché si tratta di risorse dello Stato italiano - alle decisioni in sede politica, e da esse prescinde. Desidero, dunque, porre prontamente l'accento sul fatto che si tratta di un metodo che costituisce una violazione dei rapporti democratici: di fatto, il Governo decide attraverso marchingegni, sotterfugi e macchinazioni, a danno del Parlamento e dell'opinione pubblica. Dunque, attraverso il finanziamento di questa partecipazione italiana - una partecipazione di cui non sappiamo nulla (anzi, sappiamo fin troppo: ma per altre strade!) - si decide di avallare una scelta assai grave: ed arriviamo così al merito della questione. Si tratta di una scelta molto grave, poiché sostanzialmente essa avviene a dispetto di qualsiasi forma di diritto internazionale. I colleghi hanno fatto riferimento al diritto internazionale: ebbene, esso viene qui violato in maniera evidentissima, poiché vi è un contrasto con la risoluzione dell'ONU n. 1244, che è l'unico punto di riferimento in materia. Dobbiamo riconoscere che è così: altrimenti, onorevole Marcenaro e presidente Pinotti, parliamo di buoni sentimenti, di buone intenzioni, di buone vocazioni, di buone opzioni, di buone azioni. E, invece, dobbiamo parlare di diritto internazionale, poiché le questioni internazionali non possono essere tirate da una parte o dall'altra sulla base delle intenzioni soggettive di questo o quel ministro e di questo o quel parlamentare. La risoluzione ONU n. 1244 riconosce la sovranità serba sul Kosovo. Fra l'altro, noi italiani, viste le responsabilità gravissime che avemmo nella vicenda dei Balcani, dovremmo attenerci - perlomeno ex post - alle decisioni dell'ONU, considerato che allora partecipammo ad una guerra facendo finta che l'ONU non vi fosse. Si tratta, nella risoluzione 1244, di un riferimento di diritto internazionale preciso e non interpretabile se non per quello che dice: la sovranità sul Kosovo è una sovranità serba. Noi allora, con gli slittamenti di posizione cui abbiamo assistito nei mesi scorsi e nelle ultime settimane da parte del Governo italiano e del Ministro D'Alema sulla questione del Kosovo, abbiamo praticamente assistito ad un cambiamento di scena, ad un altro film: l'indipendenza ad un certo punto, per il Ministro D'Alema ed i sottosegretari competenti, è diventata irreversibile. L'Europa doveva essere unita e questo sarebbe stato un test decisivo per l'Europa. Io credo che l'Europa - che tra l'altro, come sappiamo, su questa questione è divisa - nei Balcani e nella vicenda del Kosovo per la seconda volta fallisce il suo ruolo politico e fallisce la sua capacità di essere soggetto di diritto e soggetto di integrazione reale. In realtà, il modo di comportarsi del Governo in tutta questa vicenda ha significato questa forte attribuzione all'Europa (un'Europa che, tra l'altro, è divisa e non è assolutamente in grado - io dico, per fortuna - di assumersi la responsabilità di riconoscere unitariamente, in quanto Unione europea, l'atto unilaterale di indipendenza), e questo tentativo di parlare dell'Europa come se fosse il soggetto titolare ad assumere una presa di posizione unitaria e a dare il consenso alla decisione del Kosovo. In questo modo praticamente il Governo ha operato un tentativo esplicito di riportare tutto nella sede europea (tra l'altro, una sede debole e divisa, come dicevo), dimenticandosi delle responsabilità dell'Unione europea nel precipizio dei Balcani e smantellando in questo modo il ruolo del Consiglio di sicurezza dell'ONU e delle stesse Nazioni Unite: sostanzialmente ha attribuito all'Europa un ruolo giuridico di riconoscimento di questo cambiamento dei rapporti nei Balcani e dei rapporti tra la Serbia sovrana e la provincia kosovara, attribuendo un ruolo che non c'è e apportando di fatto un ulteriore colpo alle Nazioni Unite. Ritengo, quindi, che tutta questa vicenda sia di una gravità enorme e ricordo la richiesta che veniva fatta dalla Camera di continuare a lavorare per procrastinare. Tra l'altro, voglio anche ricordare al Viceministro Intini che questa accelerazione è avvenuta anche contro il principio su cui era partita tutta la questione del Kosovo dopo le rivolte del 2004 (le rivolte degli indipendentisti kosovari contro l'Onu, prima ancora che contro le minoranze serbe), e che questo processo si è avviato ed è stato accelerato ad un certo punto contrastando anche con il principio degli standard before status, principio che doveva rappresentare un po' la barra per gestire un'eventuale indipendenza, con l'affermazione che il Kosovo doveva arrivare prima ad avere degli standard di democrazia, di rispetto dei diritti e di assetto istituzionale e statuale che sono ben lontani dall'essere stati raggiunti. Si sono registrati, quindi, un'accelerazione, un precipitarsi verso questa soluzione, con tutte le gravi lacerazioni del diritto internazionale cui prima facevo riferimento, che rispondono soltanto - e qui il giudizio è tutto politico - alla pressante e reiterata richiesta da parte degli Stati Uniti d'America di riconoscere l'indipendenza della provincia kosovara. Ancora una volta, quindi, sono gli Stati Uniti che impongono la politica interna ed estera all'Europa. Di questo si tratta ed è su questo che la discussione dovrebbe avvenire, non sui buoni sentimenti o sulle favole che ci vengono raccontate continuamente! La questione del Kosovo, con tutte le implicazioni gravissime che presenta e con tutti i rischi che comporta per il nostro Paese, considerate, tra l'altro, la vicinanza e le implicazioni storiche (non voglio dilungarmi oltre), viene inserita nel pacchetto missioni, che sono previste tutte insieme appassionatamente, nonostante siano completamente diverse l'una dall'altra e rispetto alle quali, ancora una volta, il Parlamento, ogni singolo parlamentare è inibito nel suo diritto di esprimere un voto specifico differente. Ciò avviene in nome di una precondizione ideologica - la definisco così - che temo sia bipartisan ormai, per cui tutto quello che l'Italia compie all'estero con le sue Forze armate è di per sé, per definizione, buono. Credo che anche su questo occorra fare chiarezza: le Forze armate italiane partecipano a missioni in giro per il mondo con un mandato, un ordine o un vincolo, che fanno bene a rispettare perché è una sicurezza per il nostro Paese che i militari italiani agiscano così, ma ciò non significa che quell'ordine sia santificante! Quell'ordine può essere giusto, sbagliato, criticabile e può e deve essere contrastato. Voglio affermare con chiarezza tale distinzione: i militari non c'entrano niente, non sono loro i responsabili delle missioni e dei mandati parlamentari, in quanto sono obbligati ad andare dove il Governo dice loro di andare (possono rendersi colpevoli di singoli atti - uno, due o un gruppo - ma è tutta un'altra questione!). Quindi, questo tentativo di anteporre continuamente il sacrificio, spesso vero, reale e di sangue, dei militari italiani per coprire e per evitare la discussione di merito su ogni missione è un modo veramente farisaico di impedire al Parlamento di pronunciarsi e di informare adeguatamente l'opinione pubblica su ciò che il nostro Paese realizza con lo strumento delle Forze armate e delle missioni militari. Vengo ora rapidamente, perché molte volte mi ci sono soffermata, alla questione dell'Afghanistan, che è l'altro punto su cui, anche a nome del mio gruppo, esprimo un giudizio molto negativo. Anche in questo caso, i buoni sentimenti «stanno a zero». In Afghanistan esiste una situazione che voglio illustrare in maniera schematica, richiamando alcuni punti che confermano la necessità di un ripensamento radicale, che parta non dai buoni sentimenti, ma dall'analisi di ciò che comporta, in quel Paese, la presenza militare italiana, della NATO e degli Stati Uniti, dunque di una presenza militare ingombrante che, per quanto riguarda l'Italia, assorbe quasi il 100 per cento, il 90 per cento del nostro impegno finanziario nel settore militare. Si tratta, quindi, di un impegno militare, non civile. Allora, avevamo sostenuto l'opportunità, non la necessità (vi erano giudizi diversi) di assumerci l'onere di verificare una soluzione diversa da quella militare attraverso la Conferenza di pace e attraverso un rigoroso impegno dei nostri militari rispetto agli standard militari previsti dagli articoli della Carta delle Nazioni Unite che disciplinano il peacekeeping (quindi, sostanzialmente, un divieto istituzionale di partecipare ad azioni di combattimento diretto). Invece, la discussione non affrontò mai la natura della complessiva presenza militare, con tutte le ambiguità conseguenti, ovviamente. Infatti, non vi eravamo solo noi, ma vi era la NATO, Enduring freedom, e l'eterodirezione diretta degli Stati Uniti, con tutto ciò che significa per gli Stati Uniti la presenza in quell'area del mondo dal punto di vista strategico e geopolitico. Tali argomenti evidentemente non sono da Parlamento, in quanto il Parlamento deve svolgere i «buoni ragionamenti» non so bene per chi, forse per un'opinione pubblica che, secondo alcuni, deve essere edulcorata e sottratta alle discussioni di un certo tipo. La Conferenza internazionale di pace non si è tenuta e non sono stati prodotti passi significativi, è rimasta una buona intenzione. Oggi il collega Marcenaro ha parlato di quest'altra conferenza, che corrisponde a quella. Certo chi è impegnato sul campo e cerca di realizzare qualcosa vede come la manna dal cielo le conferenze e strumenti di questo genere. Resta il fatto che non vi è un bilancio del motivo per cui la richiesta della Conferenza di pace, su cui questo Parlamento chiese l'impegno del Governo, non abbia prodotto frutti in questa direzione. Nel Paese tutto ciò che riguarda i diritti umani e la sicurezza è sotto scacco. Vi è una situazione pesantissima. I dati ufficiali mostrano che vi è una caduta del 50 per cento degli investimenti stranieri in Afghanistan, in quanto gli imprenditori stranieri evidentemente non hanno voglia di rischiare la vita o di dover spendere chissà quali somme in guardie del corpo per fare affari in Afghanistan. Non parliamo dei diritti umani, in quanto non voglio ricordare vicende esemplari che, per fortuna, compaiono qualche volta sulla stampa e che la dicono lunga sui famosi progetti di giustizia di cui l'Italia doveva essere Paese leader nell'opera di ricostruzione delle istituzioni e della statualità dell'Afghanistan. L'escalation e gli effetti collaterali di cui parlava il collega Marcenaro, la morte di civili di cui tutti siamo disposti a lamentarci (ovviamente, ci mancherebbe altro che non ci lamentassimo) non sono frutto del caso oppure del destino cinico e baro che colpisce le popolazioni afgane: sono il frutto di una strategia di guerra estremamente precisa che vede in gioco gli interessi degli Stati Uniti a non mollare quella zona e che ha come elemento stimolante aggiuntivo (ma di straordinaria importanza) il destino della NATO. Chiunque di noi è in grado di sapere che la NATO - lo affermano Jaap de Hoop Scheffer, tutti i capi militari e il nostro Di Paola - gioca una partita essenziale in Afghanistan, in quanto si gioca il suo profilo di forza e di alleanza militare. È lì che la NATO (che dovrebbe mettere a punto, nel suo sessantesimo anniversario, il nuovo concetto strategico) può verificare la possibilità di mantenere un target di alleanza militare estendibile ad altre funzioni collaterali (un nuovo mix tra militare, diplomatico e civile: insomma, la nuova forma di controllo mondiale da parte dei Paesi forti), oppure se essa si ridurrà ad essere un'agenzia impegnata in qualcosa di molto più generico. Questo è il punto: la mancata risoluzione di un'altra strada ha il suo fondamento in questa connessione di intraprendere interessi e di politiche di forza della NATO, che vuole continuare ad avere un ruolo forte, nonostante le divisioni interne; infatti, in questa escalation della NATO si evidenziano anche le contraddizioni forti. La NATO non ha più quella presa unificante, che aveva in altri tempi, sull'Europa e sull'Unione europea. Stiamo assistendo così a sceneggiate molto spiacevoli (non voglio usare altri aggettivi) di alcuni Paesi della NATO, che si arrogano il diritto di accusare noi, tra gli altri (mentre mi sembra un titolo di merito) di non sapere e di non voler combattere, senza essere capaci di affrontare nelle sedi dovute (Europa e NATO) la questione, che mette veramente in imbarazzo - per usare un eufemismo! - i rapporti internazionali. Esiste, poi, un altro aspetto relativo a questa escalation e che costituisce l'altro motivo per il quale confermiamo il nostro giudizio su tutta la vicenda dell'Afghanistan. La fiducia che avevamo riposto nella possibilità di trovare una soluzione alternativa, mantenendo le nostre truppe in Afghanistan, è stata poi disattesa. Mi dispiace che non sia presente il collega Marcenaro, che chiedeva come mai si fosse verificato questo cambiamento. Esso è legato al cambiamento che sta avvenendo ed è avvenuto in quel luogo. Abbiamo, ormai, la consapevolezza che l'Italia - nonostante i caveat, le regole di ingaggio e il profilo di adesione che il mandato parlamentare assicura alla parte di peacekeeping dell'ISAF - sia in realtà sempre più coinvolta in quella che chiamo la «zona grigia» della missione, nella quale anche gli italiani sono coinvolti in combattimenti: non si tratta di combattimenti a fini di autotutela (ovviamente legittimi per i militari che si trovano in quel Paese) o di uno slittamento dell'intervento a tutela di altri colleghi in pericolo, ma di combattimenti diretti. Le unità speciali, i nostri corpi di eccellenza, i duecento militari inviati in maniera «avventurosa» nella zona ovest dell'Afghanistan nella provincia di Ferah sono stati spesso coinvolti in combattimenti diretti, come testimonia PeaceReporter, senza che vi sia stata un'adeguata smentita (ovviamente non può esservi, perché non si possono smentire i fatti) documentata da parte del Governo. Non mi aspetto una smentita - so anche so che non può esservi - per la natura della missione, che - al di là dei buoni sentimenti che qui sento ripetere - è «impastata» di guerra: essa nasce da una guerra e continua ad essere una missione «impastata di guerra». Per questi motivi il giudizio sulla nostra presenza militare in Afghanistan non può che essere molto negativo. La richiesta che avanziamo affinché l'Italia si impegni diversamente rimane pressante e assolutamente prioritaria. Sicuramente il disimpegno militare in Afghanistan è ormai la condicio sine qua non affinché un tale coinvolgimento diverso del nostro Paese sia effettivamente diverso e non la reiterazione di quello che è avvenuto finora. per approfondimenti <http://www.forumdonne.org>www.forumdonne.org
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