Per l'altro 11 settembre -- Recensione De Luna, Il corpo del nemico ucciso
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- From: "Enrico Peyretti" <e.pey at libero.it>
- Date: Wed, 12 Sep 2007 13:16:39 +0200
07 09 12 De Luna Il corpo del nemico
ucciso Ieri sera, al Centro Studi Sereno
Regis, Alberto Pelissero, Nanni Salio e io abbiamo ricordato con i presenti l'11
settembre 2001 presentando, per fecondo contrasto, gli atti del convegno
tenuto un anno fa a Pisa su "L'11 settembre di Gandhi" (rivista "Quaderni
Satyagraha", n. 12), che fu, nel 1906, il giorno di avvio in Sudafrica della
campagna di lotta nonviolenta in difesa dei diritti degli immigrati
indiani. Prima di presentare qualche idea
contenuta in questo ampio quaderno di 215 pagine (del quale vorrei scrivere
un'altra volta), ho voluto raccogliere altre idee dal capitolo finale del libro
di Giovanni De Luna, "Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra
contemporanea", Einaudi 2006. - Solo negli anni 1990-2000 si
possono calcolare per difetto prudenziale 5 milioni e 600.000 persone uccise in
guerra (p. 278). Riflettevo, leggendo questi dati: ogni ucciso è un singolo, un
unico, sicché 1 = tutto. Mille, un milione è uguale a tante volte un
unico. Per ogni vittima e chi le vuol bene, la guerra è tutta lì. Ogni
guerra è molte guerre. In ogni ucciso c'è tutta la guerra, qualunque sia il suo
esito o conseguenze generali. La quantità di dolori accresce i dolori, ma ogni
dolore è già uguale alla somma. Paradosso dell'estremo, dove qualità e quantità
si confondono, si sovrappongono, si scambiano. Perde senso il conto delle
vittime. Conta solo il fatto di far vittime. - Come altri autori, De Luna parla,
per l'oggi, di "guerra civile globale". Oggi le guerre sono "postnazionali", non
più gestite principalmente ed esclusivamente dagli stati nazionali, che ne
avevano il monopolio, ma da gruppi privati, che si servono degli stati. Cosicché
si può dire che siamo passati "dal monopolio [statale] della violenza al
mercato della violenza" (p. 279). - Oggi, tra le prime cinquanta
entità economiche del pianeta gli stati sono meno della metà; gli altri sono
gruppi privati con disponibilità finanziarie nettamente superiori alla maggior
parte degli stati nazionali. L'organizzazione di Bin Laden è uno di questi
gruppi, che congiunge il fondamentalismo religioso alla più sfrenata modernità
(p. 280). - Il criminologo Lonnie Athens ha
analizzato quattro fasi nel "processo di socializzazione violenta": 1)
brutalizzazione, 2) belligeranza, 3) condotta violenta, 4) virulenza. Gli
eserciti addestrano all'uccisione (stadio 3), con alcune regole che escludono la
virulenza, ma i meccanismi che essi innescano rotolano facilmente verso il
quarto stadio molto ampiamente documentato, anche con tragica iconografia, nel
volume di De Luna (p. 286). - Tuttavia, il "non uccidere" è
regola profondamente assorbita nella civiltà e nell'etica della persona normale.
Uno studio sulla seconda guerra mondiale ha constatato che, "dopo sessanta
giorni di combattimento continuativo, il 98% (novantotto per cento) dei soldati
sopravvissuti diventavano casi psichiatrici" (p. 288). Sappiamo qualcosa sulle
patologie, non solo fisiche, dei veterani delle guerre
successive. - Un grande storico militare, Samuel
L. A. Marshall, scrive che "il soldato medio", anche se ama addestrarsi al
poligono di tiro, al momento di sparare tende a non fare fuoco, bloccato
soprattutto "dalla paura centrale, che non è quella di essere ucciso, bensì di
uccidere". Si è parlato addirittura di una patologia che investe il corpo
del maschio combattente provocando paralisi, incapacità di parola,
tremore, perdita del controllo degli sfinteri, dilatazione delle pupille, occhi
annebbiati dalle lacrime; tutti segni di una angoscia e paura che vengono
interpretati come una sua repentina femminilizzazione, la ricomparsa del corpo
femminile, l'affiancarsi al sodato di un suo "doppio", "tenero e dolente" (pp.
288-289). Domando: cosa avviene nelle donne, che ora hanno conquistato la parità
con gli uomini nel potere di uccidere in guerra? - Un'altra spiegazione, più
storico-culturale che psicologica, vede in un lungo accumulo storico di valori
prodotti dalle religioni, dalla cultura, anche dalla politica e dal diritto (p.
es., nel violentissimo Novecento, i diritti dell'uomo hanno tuttavia
sopravanzato nella valutazione comune i diritti degli stati), una risorsa che
tende a frenare e distogliere dall'uccidere, pur tra molte gravi contraddizioni
(pp. 289-291). Trovo strano che qui De Luna non accenni neppure a Gandhi
(assente anche nell'indice dei nomi) e al movimento da lui mosso in
controtendenza rispetto alla violenza del Novecento. Gandhi rappresenta un
apporto alla storia dell'umanità, consistente precisamente nella combinazione
equilibrata e originale di religione, cultura, politica. Questa carenza
nello studio accurato di De Luna sulla violenza contemporanea non è
insignificante. Nella cultura affermata sul piano accademico e pubblicistico,
qualche ritegno culturalmente ingiustificato rende incapaci non dico
di celebrare Gandhi, ma di fare attenzione, anche critica, al suo apporto. Su
"Gandhi ignorato", con alcune importanti eccezioni come Mounier e Ricoeur,
scrive cose chiare Jean-Marie Muller in "Il principio nonviolenza. Una filosofia
della pace" (Pisa University Press, 2004, pp. 237-240). Enrico Peyretti, 12 settembre 2007 |
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