Re: [pace] Pci, Pds, Ds, Pd



Caro Leopldo, non so se il mio lungo scritto risonde
all'esigenza che poni, ma mi piacrebbe conoscere il
tuo parere e quello di tutti gli altri
un caro saluto 
marco mayer

  
--- "bruno.leopoldo at libero.it"
<Bruno.Leopoldo at libero.it> ha scritto:

> Pci, Pds, Ds, Pd
> 
> “Il valore in gioco è l’identità: l’essere domani lo
> stesso di oggi. In un testo dell’inizio del II
> millennio a. C. è detto: ‘ Il pigro non ha ieri’,
> vale a dire non ha memoria, non ha passato. L’ideale
> è invece l’uomo che sa ricordare: ‘Un buon carattere
> torna al suo posto di ieri, perché è comandato: fai
> per colui che fa onde indurlo a rimanere operoso.
> Questo significa ringraziarlo per ciò che ha fatto’.
> Quando si dimentica il passato – lo ‘ieri’ -, allora
> gli uomini non agiscono più l’uno per l’altro, non
> compensano più il bene con il bene e il male con il
> male. Allora il tempo, e con esso la società, escono
> dai cardini”.  
> 
> da Jan Assmann (2000), in ‘La morte come tema
> culturale’, Giulio Einaudi Editore, 2002, trad. di
> Umberto Gandini, pag. 43 
> 
> Leo  
> 
> Manifesto del Partito Democratico: apriamo la
discussione 
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Lo spunto per un forum di discussione sul sito di
Input	di Marco Mayer


Il Partito Democratico sta prendendo forma. Nel giugno
scorso sono nati i gruppi unitari dell’Ulivo alla
Camera ed al Senato, in queste settimane il congresso
unitario della Margherita ed anche quello dei DS (pur
con qualche resistenza in più rispetto ai dielle) sono
finalizzati alla costruzione del PD e infine - novità
degli ultimi giorni - è stato finalmente redatto il
Manifesto del Partito Democratico (per scaricarlo in
formato pdf, clicca qui). 
L’uscita del Manifesto rappresenta una occasione da
non perdere per aprire una discussione tra i
cittadini, per ascoltare i dubbi, le critiche, i
suggerimenti. Sui contenuti del Manifesto dobbiamo
coinvolgere non solo ristrette élites politiche ed
intellettuali, ma milioni di persone dentro e
soprattutto fuori dai partiti. I leader nazionali non
dovrebbero mai dimenticare (ma spesso se ne
dimenticano) che il popolo dell’Ulivo vuole discutere
e contare! Pertanto, prima che il Manifesto venga
formalmente adottato, è nostro dovere assicurare la
più ampia partecipazione democratica così com’è
avvenuto con le primarie: Il PD o sarà un partito
veramente aperto e democratico o non sarà.
In questa prospettiva si inserisce con puntualità e
tempestività la disponibilità di INPUT di ospitare su
questo sito web un grande forum di discussione critica
sui contenuti del Manifesto. 
 
Per partecipare a questo forum, scrivi a:
carta at inputfirenze.it
 
Pur con le sue luci e le sue ombre, la lettura del
Manifesto è stata per me una piacevole sorpresa: prima
di tutto niente politichese; con un linguaggio chiaro
il Manifesto prospetta un orizzonte di valori forti e
chiare prospettive politiche per il futuro. Come ha
scritto su Europa  il professor Maurizio Ferrera,
autorevole editorialista del Corriere della Sera: 
"Il testo tocca le questioni che contano per il futuro
dell’Italia, formula diagnosi e proposte sensate e
ragionevoli, in linea con gli orientamenti del
dibattito europeo e dell’agenda di Lisbona. Lo stile è
scorrevole, il linguaggio è accessibile. Rispetto agli
standard della politica italiana, dei vecchi partiti,
il documento non delude, fornisce anzi utili punti di
riferimento per aggregare consensi, per definire
un’agenda…" 
Ferrera, però, pone anche una domanda critica: 
"…qual è l’idea forte del manifesto, quella che
giustifica la formazione di un nuovo partito? (..).
fatico a trovarla soprattutto come liberale
progressista. Nella mia lettura del Novecento, il
pensiero liberal-democratico non è solo una fra le
tante tradizioni che hanno alimentato la dialettica
ideologica (nel senso buono del termine). E’ la
tradizione che ha "addomesticato" tutte le altre,
costringendole a riconoscere nella protezione della
libertà individuale - tramite i diritti - il punto di
partenza di ogni costruzione socio-politica. Nella mia
visione del mondo (e del suo futuro) la libertà non
sta sullo stesso piano degli altri valori, ma viene
prima (una priorità lessicografica, per dirla con
Rawls). E l’allargamento delle opzioni e delle chance
di vita individuali (di tutti gli individui) dovrebbe
essere per me l’obiettivo principale di una società
"civile" (..). Immagino perciò che qualcuno potrebbe
dirmi: guarda che "il liberalismo c’è", a pag. 5, 6, o
9. Ma il punto è proprio questo: è liberalismo alla
rinfusa. Secondo me non basta." 
Considerata la qualità politica e culturale del
Manifesto la critica di Maurizio Ferrera può forse
apparire ingenerosa, ma essa pone, a mio avviso, un
interessante tema di riflessione. Anch’ io - più di un
anno fa - nel saggio pubblicato su INPUT, Partito
Democratico. Anno Zero avevo insistito sul tema della
libertà (la libertà per tutti) e sul ruolo della
cultura liberal-democratica che peraltro non è solo lo
slogan di un partito, ma il principale valore fondante
della Margherita: Democrazia è Libertà. Avevo scritto:
"nella costruzione del Partito democratico le
resistenze culturali sono insidiose, sottili e molto
difficili da neutralizzare. Alla radice c’è un
atteggiamento mentale che potremo definire "chiusura
integralista", ma anche "ricerca compulsiva di un
assoluto" che si accentua di fronte alla perdita del
senso di appartenenza. Il virus dell’integralismo
colpisce tutti gli ambienti, nessuno è immune:
credente o non credente. Si pensi alla "saccente
presunzione intellettuale" di alcuni settori DS, certo
non inferiore all’ "arroccamento narcisistico"che si
respira in alcuni segmenti minoritari del mondo
cattolico. L’integralismo - è più di un rischio: è un
pericolo mortale per il Partito Democratico perché ne
contraddice i presupposti fondativi. Per prevenire il
diffondersi dell’integralismo ed evitare le sue
devastanti conseguenze c’è un solo rimedio: il Partito
Democratico deve assumere - senza se e senza ma - i
valori fondamentali del liberalismo politico e colmare
rapidamente il deficit di cultura liberale che tuttora
condiziona negativamente le diverse componenti
dell’Ulivo". 
La ricchezza ed il valore del pensiero politico
liberale (da non confondere con il neo liberismo
economico) possono essere rappresentate da
innumerevoli personalità intellettuali, ma vorrei
ricordare innanzitutto la figura di Lord Beveridge
che, sin dal 1942 in Gran Bretagna, ha proposto un
radicale ripensamento delle politiche sociali
costruendo le fondamenta di un nuovo Welfare State,
fondato non più su mere basi occupazionali, ma sui
diritti e sulla cittadinanza sociale e dunque
organizzato su basi universalistiche. Modello di
matrice liberale a cui si sono successivamente
ispirate in Europa le politiche economiche e sociali
di numerosi governi socialdemocratici nonché le
strategie dell’Unione Europea in materia di diritti. 
Nel liberalismo politico convergono naturalmente
innumerevoli e variegate posizioni e correnti di
pensiero di cui non è certo possibile dar conto in
questa sede. Ci limiteremo qui ad accennare al vivace
dibattito tra Amartya Sen e John Rawls a proposito del
rapporto tra libertà e giustizia. In proposito
ricorderemo soltanto che la teoria di Rawls insiste
sui sulle condizioni e sui mezzi che un individuo ha
per perseguire i suoi obiettivi: un pacchetto
predeterminato di strumenti comprendenti diritti e
libertà, poteri ed opportunità, ricchezza, reddito e
le basi del rispetto di sé. Per Sen, invece, oltre a
questi mezzi, altrettanta attenzione deve essere posta
sui fini, su ciò che una persona può desiderare di
fare e di essere, in quanto gli da valore. Per Sen la
libertà sostanziale è anche la possibilità di
realizzare più combinazioni alternative di stili di
vita, ovvero la capacità reale di "scegliersi una vita
cui (a ragion veduta) si dia valore". Naturalmente se
è giusto valorizzare gli aspetti "sociali" e
"sostanziali" del liberalismo, occorre sempre partire
dalla libertà "da" (dall’ingerenza dello Stato e delle
istituzioni), libertà da… che è il nucleo originario
del liberalismo. Sia per Rawls sia per Sen la libertà
da… resta, infatti, una precondizione, una condizione
necessaria delle libertà sostanziali positive e dei
diritti sociali, mentre, come ci insegna la tragedia
del totalitarismo, non è vero il contrario.
Anche se avrei la tentazione di approfondire il
rapporto tra libertà negativa e libertà positiva (uno
dei grandi temi del dibattito filosofico del nostro
tempo), per ragioni di spazio mi limiterò qui a citare
una suggestiva definizione di Ralf Dahrendorf.
Partendo da una aspra critica a questo dualismo, ed in
particolare alle posizioni di Berlin, Dahrendorf
introduce il concetto di libertà senza aggettivi o
libertà indivisibile. Questa suggestiva definizione
punta a ricomporre il nocciolo duro del liberalismo
classico (la libertà da…) con la dimensione dei
diritti sociali propri della cittadinanza attiva: la
libertà di… Dopo aver formulato questa critica
Dahrendorf aggiunge:
"è del tutto evidente che ci sono condizioni sociali
che rendono difficile l’esercizio dei diritti di
libertà, quando non lo rendono del tutto impossibile".

Possiamo prendere spunto da questa considerazione per
inquadrare nella giusta collocazione anche l’eterno
dibattito sul rapporto tra libertà ed uguaglianza. Il
punto centrale da sottolineare è che tra i due valori
non c’è correlazione simmetrica: se la diffusione
della libertà indivisibile costituisce uno strumento
formidabile per combattere le disuguaglianze, non è
assolutamente vero il contrario: diffondere
l’eguaglianza senza la libertà ha, infatti,
conseguenze catastrofiche come dimostra
inequivocabilmente l’esperienza storica del
totalitarismo.
Ma parlando di liberalismo torniamo per un momento
alla politica. Mi sia a questo punto concessa una
battuta polemica: non sarebbe l’ora di togliere questa
bandiera a Silvio Berlusconi? Su questo piano non deve
esserci spazio per timidezze, il centrosinistra non
deve avere paura di pronunciare e rivendicare ad alta
voce le parole libertà e liberalismo. Non
dimentichiamoci che il berlusconismo, come ci ricorda
continuamente, e con grande passione civile, il
professor Giovanni Sartori, non ha certo un’impronta
liberale, ma decisamente populista.
A proposito di liberalismo vorrei aggiungere un ultimo
piccolo suggerimento pratico: una lettura che mi sento
davvero di consigliare è quella dell’ultimo libro di
Ralf Dahrendorf: Erasmiani, gli intellettuali alla
prova del totalitarismo, Laterza, Bari, 2007. Tra
biografia e saggio di etica politica le pagine di
Dahrendorf si soffermano sulle personalità di Karl
Popper, Raymond Aron, Isaiah Berlin, Norberto Bobbio,
Hannah Arendt e di altri intellettuali del novecento,
tratteggiando non solo la storia tormentata di una
generazione intellettuale, ma cercando di indagare
quali caratteristiche particolari rendono gli uomini
capaci di non rinunciare, anche nelle situazioni più
sfavorevoli, a difendere le idee su cui si fondano gli
ordinamenti liberali. 
…………………………………………… 
Una volta chiarito questo aspetto preliminare vorrei
approfondire il secondo punto a cui ho accennato
all’inizio: il tema della perdita del senso di
appartenenza e delle relative paure. Di fronte al
progetto del Partito Democratico nei dibattiti
congressuali si manifesta tra iscritti e militanti dei
partiti un timore "strisciante", ma profondo, che non
dobbiamo sottovalutare, quello di smarrire le proprie
radici e con esse la propria identità. 
A chi solleva questi dubbi rispondo: il Partito
Democratico non potrà né dovrà essere un partito senza
memoria. Il Manifesto ci ricorda, del resto, che 
"i valori di riferimento del Partito democratico
discendono dai molti affluenti della cultura
democratica europea ed hanno le loro radici più
profonde nell’Illuminismo, nel Cristianesimo e nel
loro complesso e sofferto rapporto. Ma se.."Se il
Cristianesimo e l’Illuminismo rappresentano le radici
culturali più lontane e profonde a cui si ispira il
progetto del Partito Democratico…"
anche la memoria storica più recente (la seconda metà
del novecento) ci offre punti di riferimento di
straordinaria attualità. 
Prendiamo, ad esempio, un argomento controverso e di
grande rilevanza come è quello della laicità dello
Stato: il pensiero va immediatamente al dibattito
sulla Costituzione e ed in questo contesto ad una
figura chiave come quella di Giuseppe Dossetti. Come
ha recentemente ricordato il Presidente della Camera: 
"nell’azione di Dossetti "costituente" ritroviamo
l’idea della transizione costituzionale come rinascita
della comunità nazionale, come ricostruzione del suo
tessuto etico, come creazione delle condizioni di un
percorso comune, che tale può essere solo se sorretto
da un quadro di valori e di princîpi in grado di
parlare a tutti e di essere da tutti agibili e
praticabili".
Successivamente - negli anni della ricostruzione - il
senso della laicità dello Stato, o forse basterebbe
dire più semplicemente il senso dello Stato, ci
riporta alla memoria i comportamenti politici,
coraggiosi e lineari, di Alcide De Gasperi, interprete
della migliore tradizione "liberale" della DC. 
Se nel Manifesto del Partito Democratico si affronta
in termini puntuali il tema della laicità dello Stato
"intesa come garanzia che ogni persona sia rispettata
nelle sue convinzioni più profonde e al tempo stesso
si possa pienamente integrare nella comunità
nazionale" non possiamo tuttavia ignorare che il tema
è più ampio e complesso ed, in quanto tale, esso
merita un approfondimento ulteriore. Esso tocca,
infatti, in profondità le relazioni tra lo Stato e la
Chiesa e più in generale il rapporto tra politica e
confessioni religiose. 
Si può davvero immaginare una sfera pubblica ignara o
indifferente di fronte ai messaggi ed alle iniziative
della Chiesa o viceversa una Chiesa sorda e silente di
fronte alle attività ed alle posizioni dello Stato?
Nei rapporti tra istituzioni politiche e istituzioni
religiose non si può tracciare un confine di materie
(questo è il mio campo, questo è il tuo) perché tutto
ciò che ruota attorno alla persona umana è fondato su
un intreccio inestricabile di molteplici dimensioni:
le libertà politiche e civili, i diritti sociali, le
relazioni tra etica e scienza, i rapporti tra storia e
natura, ecc. Da angoli visuali diversi Stato e Chiesa,
religioni e politica si confrontano inevitabilmente
con questa realtà multidimensionale. 
Il discorso può dunque trovare una sua composizione
non in un’astratta separazione di competenze, ma nel
mutuo riconoscimento di sé e nel dialogo rispettoso
delle reciproche autonomie. Stato e Chiesa hanno
innanzitutto libertà di parola. Ed ambedue sono
pienamente legittime: elementi costitutivi e vitali
del discorso pubblico. E su questo piano hanno
ciascuno piena libertà di "ingerenza culturale"
sull’altro. Come sappiamo questo approccio dialogico,
libero e aperto, trova nuovo alimento dalla svolta e
dall’esperienza conciliare e postconciliare e, come ci
ha ricordato recentemente l’illustre giurista Marco
Ventura, questa tipologia di libertà terrena viene
anche codificata all’interno della Chiesa. Il codice
del diritto canonico recita, infatti, al can.227: 
"E' diritto dei fedeli laici che venga loro
riconosciuta nella realtà della città terrena quella
libertà che compete ad ogni cittadino; usufruendo
tuttavia di tale libertà, facciano in modo che le loro
azioni siano animate dallo spirito evangelico e
prestino attenzione alla dottrina proposta dal
magistero della Chiesa, evitando però di presentare
nelle questioni opinabili la propria tesi come
dottrina della Chiesa".
Naturalmente c’è una distinzione da fare sul piano del
potere: sappiamo che il rapporto tra lo Stato e la
Chiesa (o altre confessioni) non è simmetrico. Come
testimonia il comportamento di Alcide De Gasperi -
statista -, se alla Chiesa spetta la più ampia
autonomia di espressione, iniziativa o giudizio, allo
Stato (ovviamente ci riferiamo allo Stato democratico
e pluralista) si riconosce un particolare attributo,
quello della sovranità, ovvero della deliberazione
politica in ultima istanza. 
Sulla capacità di riconoscere "laicamente" questo
attributo di sovranità dello Stato (e di valorizzare
in tutti i suoi aspetti il pluralismo) si fonda
l’esperienza dei cattolici democratici e del loro
impegno in politica. E su questo piano si profila, lo
dico sommessamente da osservatore laico, anche la
possibilità di ricomporre il tradizionale dualismo tra
cattolicesimo popolare e cattolicesimo liberale (di
cui, non si sa bene perché, vorrebbe ergersi oggi come
unico paladino Francesco Cossiga). 
Su questo punto si innestano e possono ricomporsi,
invece, le migliori pagine di storia "sociale" e
"liberale" della DC: e così inteso il pieno rispetto
della sovranità (e correlata laicità) dello Stato
rappresenta una fertile eredità politica da cui il
Partito Democratico può trarre insegnamenti preziosi
per costruire la propria identità.
In proposito è utile ricordare come sul piano delle
verità terrene la sovranità dello Stato (fondata sulle
libertà civili, politiche e religiose, sul
costituzionalismo e sulla democrazia) si profili come
un bene non negoziabile. Sotto questo profilo essa si
configura come un "nocciolo" di principi assoluti che
appaiono lontani da ogni forma di relativismo. Ma nel
contempo si tratta di un genere molto particolare di
valori assoluti: parliamo, di valori che contengono in
sé una forte "cultura del limite" ed un grande spirito
di tolleranza "attiva". Nell’intrinseca e felice
combinazione di valori non negoziabili e spirito di
tolleranza sta un’importante barriera contro il
relativismo nichilista (sui cui pericoli ci richiama
da tempo la Santa Sede), ma non solo. Questi valori
costituiscono anche un formidabile baluardo contro
ogni integralismo di matrice ideologica (si pensi alla
tragedia del comunismo) o religiosa. In epoca di
fondamentalismi imperanti è bene che questo richiamo
alla cultura del limite (ed allo spirito di
tolleranza) sia iscritto nel DNA del nuovo Partito
Democratico.
Marco Mayer
Marzo 2007 
PER PARTECIPARE AL FORUM SUL PARTITO DEMOCRATICO,
SCRIVI A: carta at inputfirenze.it
 
 


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