di Bassam Aramin
9 Febbraio
2007-02-08
In
Memoria di Abir Aramin morta il 18/01/07
Ho avuto una discussione con mia
figlia il giorno che è stata colpita da uno sparo.
Uscendo
dalla porta di casa per andare a
scuola Abir aveva annunciato, nel modo in cui fanno i bambini , che nel pomeriggio, invece di tornare a casa per preparare
l' esame fissato per il giorno dopo, prima sarebbe andata a
giocare con una amica .
Aveva 10
anni, intelligente, studiosa e impegnata a scuola, eppure una piccola
bambina.
Voleva
giocare. Io le ho risposto che non doveva neanche pensarci.
Se le
potessi dire qualcosa ora, le direi: Vai. Fai quello che vuoi. Gioca.
Perché ora
lei non potrà mai più. Non riderà mai più, non sentirà più le sue
amiche chiamare il suo nome, non sentirà l’amore della sua famiglia che
la avvolge di notte come una calda coperta.
Abir, la
terza dei miei sei figli, è stata ferita in testa da uno sparo mentre
usciva da scuola il 16 Gennaio, colta nel mezzo tra le truppe
israeliane di confine e bambini più grandi che lanciavano o forse no
dei sassi. E’ morta due giorni dopo.
So cosa
l’esercito israeliano ha detto dell’incidente, e so anche quello che la
sorella più grande di Abir ha visto con i propri occhi: Abir stava
scappando dalle truppe quando all’improvviso si è fermata ed è caduta,
ed il sangue ha iniziato a spargersi per terra. Una autopsia
indipendente ha confermato la causa della morte: una pallottola di
gomma, nella parte posteriore della testa di Abir. Ho la pallottola a
casa, perché la povera Arin, guardando sua sorella che era stata ferita
dallo sparo, l’ha raccolta e l’ha portata a casa. Non ero sorpreso
quando l’esercito israeliano ha cercato di colpevolizzare Abir della
sua stessa morte. Prima ci hanno detto che era tra quelli che
lanciavano i sassi; dopo ci hanno detto che “qualcosa” era scoppiato
tra le sue mani – nonostante le mani siano rimaste miracolosamente
intatte – prima che la potesse lanciare contro la jeep della guardia di
frontiera.
Non ero
sorpreso, ma l’angoscia che tali illazioni hanno causato a mia moglie e
a me è difficile da esprimere. La nostra bambina è stata uccisa –
devono essere dissacrati anche il suo nome e la sua innocenza?
Sarebbe
facile, così facile, odiare. Cercare vendetta, impugnare un fucile, e
uccidere tre o quattro soldati, nel nome di mia figlia. Questo è il
modo in cui palestinesi ed israeliani hanno vissuto la propria vita per
lungo tempo. Ogni bambino morto – ed ognuno è figlio di qualcuno – è
un’altra ragione per continuare ad uccidere.
Lo so.
Anch’io ero parte di questa spirale. Ho speso sette anni in una
prigione israeliana per aver contribuito a pianificare un attacco
contro soldati israeliani. A quel tempo, ero deluso perché nessun dei
soldati era stato ferito.
Ma mentre
scontavo la mia condanna, ho parlato con molte delle mie guardie
carcerarie. Ho imparato la storia del popolo ebreo. Ho imparato
dell’Olocausto.
Ed
eventualmente sono riuscito anche a capire: da entrambi i lati siamo
stati tramutati in strumenti di guerra. Da entrambi le parti , vi è
dolore, lutto, e infinite perdite.
E l’unico
modo per fermare tutto questo è fermare noi stessi.
Molte
persone ci sono venute in sostegno e ci hanno confortato mentre Abir
stava morendo, il suo piccolo viso di gesso bianco, i suoi occhi chiusi
per sempre. Tra quelli che non hanno mai smesso di essere al mio fianco
un gruppo di uomini che recentemente ho imparato ad amare come
fratelli, uomini che conoscono il mio passato, e che lo condividono.
Uomini che come me, sono stati allenati ad odiare e ad uccidere, ma che
ora credono fortemente che si debba riuscire a trovare un modo di
vivere con i nostri vecchi nemici.
Uomini
israeliani. Ognuno di loro, un ex soldato combattente.
Questi
uomini ed io siamo membri dei Combattenti per la Pace. Ognuno di noi,
300 palestinesi ed israeliani, era nelle linee d’avamposto del
conflitto. Abbiamo sparato, bombardato, torturato e ucciso. Credevamo
che fosse l’unico modo per servire la nostra gente.
Adesso
sappiamo che questo non è vero. Sappiamo che per servire la nostra
gente, non dobbiamo combattere l’uno contro l’altro ma l’odio che c’è
tra di noi. Dobbiamo trovare un modo per condividere la terra che
ognuno possiede nel profondo della propria anima, costruire due stati
fianco a fianco. Solo allora il lutto finirà.
Non riposerò
fino a quando il soldato responsabile della morte di mia figlia sarà
processato, e affronterà le conseguenze di quanto ha fatto. Così potrò
vedere che il mondo non scorda mia figlia, la mia adorata Abir.
Ma io non
cercherò vendetta. No, continuerò il lavoro che ho intrapreso con i
miei fratelli israeliani. Combatterò con tutto ciò che porto dentro per
vedere il nome di Abir, il suo sangue, diventare un ponte che
finalmente chiude le spacature tra di noi, un ponte che permetta agli
israeliani ed ai palestinesi di vivere finalmente, inshallah, in pace.
Se potessi
dire a mia figlia qualcosa, le farei questa promessa. E lei direi che
la amo molto, moltissimo.
Bassam
Aramin abita ad Anata, nei dintorni di Gerusalemme ed è membro dei
combattenti per la Pace
traduzione dallínglese di
Luisa Morgantini