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"Giano" 55
- Subject: "Giano" 55
- From: "Giano. Pace Ambiente Problemi globali" <redazionegiano at fastwebnet.it>
- Date: Mon, 5 Feb 2007 11:31:55 +0100
È imminente l'uscita del numero 55 di "Giano". Dal fascicolo estraiamo e portiamo a conoscenza dei collaboratori e degli amici, dato il suo carattere di attualità, uno scritto di Luigi Cortesi. La segretria di Redazione La fine del mondo e lo stupro di Vicenza di Luigi Cortesi In qualche modo, da qualche parte, in qualche momento l’umanità deve cominciare il percorso rivoluzionario e autocritico del pacifismo come lotta per la propria salvezza; e non si può più perdere tempo Una difficile transizione I parametri politici e assiologici che vengono presentati come fondamentali, e che alla generazione dei ventenni di oggi possono apparire come naturali e indiscutibili, non sono eterni; sono anch’essi un prodotto dell’industria culturale e di formidabili interessi strutturali radicati in un vantaggioso status quo. Viviamo una transizione difficile, nella quale hanno un ruolo centrale la produzione e la distribuzione di ideologia. Quei parametri sono anch’essi, in una parola, prodotti storici, interni alla storicità complessiva dei nostri tempi, e ciascuno di essi fa parte di una storicità specifica. La loro affermazione è avvenuta nel secolo appena trascorso, un secolo che gli studiosi hanno neppure troppo variamente definito “tragico”, “spezzato”, crudele, “secolo delle guerre”, “secolo del male”. Del secolo XX io sottolineerei tre momenti o fasi processuali che sono le fonti del nostro presente. Ovviamente, la critica del presente ha ripercussioni nella visione storica e più ancora nella prospettiva della responsabilità sociale, che è il tema di questo nostro incontro di omaggio a Betty Williams. I – il 1914-18, gli anni della “grande guerra”, che aprì il vaso di Pandora della sfida armata tra le grandi Potenze per il predominio mondiale, ridusse l’Europa ad un macello, ma, con la rivoluzione russa del 1917 - che spezzò il fronte della guerra e compì il suo primo atto solenne in un pronunciamento per la pace - fece balenare la speranza in una profonda trasformazione sociale; II – il 1945, anno di conclusione della seconda guerra mondiale e del ciclo complessivo dell’unitaria “guerra dei trent’anni” 1914-45, che vide due grandi novità, l’una positiva, l’altra negativa. La prima fu l’emergere dai lutti e dalle rovine del trentennio di una nuova forza sociale e politica, una candidatura dal basso, che prende il nome molto riduttivo di “Resistenza”: essendo in realtà portatrice, insieme con i movimenti di liberazione delle colonie asiatiche e africane, d’una potenziale alternativa storica per l’Europa e per il mondo. Si può dire che nei movimenti di Resistenza e liberazione culmina il grande moto sociale avviato nel 1917, che già nei primi anni del dopoguerra si contrae e perde forza, venendo riassorbito nelle ripresa e nella nuova estremizzazione della rivalità armata tra gli Stati. Rivalità armata: perché il 1945 fu anche l’anno dei bombardamenti atomici del Giappone, frutto non di necessità operativa, ma di strategia geopolitica rivolta al futuro. Hiroshima e Nagasaki segnalano un processo di militarizzazione della scienza e di ascesa e specificazione autonoma della tecnologia militare, il cui sviluppo coincide con l’arco storico e la cultura dell’imperialismo. III – Il terzo nodo storico su cui dobbiamo fissare l’attenzione è quello degli anni ’70 e ’80 del ‘900. (Gli anni, penso, in cui è venuta al mondo la maggioranza dei presenti.) In un breve tratto di tempo abbiamo una serie sconvolgente di fatti, determinata dalla crisi del sistema dominante sul piano globale, crisi che si rivelò meno grave del temuto e forse benefica per il capitalismo, ma che aperse prospettive inquietanti. Le sue manifestazioni andarono dall’economia agli approvvigionamenti energetici, dalla sconfitta americana nel Vietnam alla rimessa in discussione dello “Stato sociale”, dall’avvento simultaneo della deregulation neoliberistica e di un nuovo paradigma di scienza-tecnica basato sull’informatica e la telematica fino al passaggio del mondo mentale collettivo dall’idea di leggi naturali universali alla percezione della complessità e dell’angoscia del disordine, dell’irreversibile, dell’imprevedibile. Fa parte del quadro la “scoperta” dei “limiti dello sviluppo” – con il clamore suscitato dal famoso rapporto del Club di Roma del 1970 - che sancì la nascita dell’ecologia come nuovo paradigma complessivo, nuova “inter-disciplina”. Questa sofferta transizione ha avuto momenti sociali e politici che sono stati fortemente avvertiti. L’Unione Sovietica era ormai una realtà storica “snaturata” e irriconoscibile rispetto alle lontane premesse comuniste degli anni della I e anche della II guerra, ma per l’ironia della storia il suo sfacelo nel 1989-91 ha provocato un risucchio che ha depotenziato non solo i movimenti di liberazione nel Terzo Mondo, ma anche le sinistre politiche occidentali di tutti i gradi; soprattutto ne hanno sofferto i movimenti popolari e proletari di origine otto e novecentesca, il cui senso era nel rifiuto di tradurre ogni cosa, materiale e immateriale, in termini di mercato, e nella creazione di livelli di realtà economico-sociale polarizzati a priorità diverse - solidarietà, eguaglianza, internazionalismo, pacifismo. I cosiddetti “valori” del movimento operaio e della cultura operaia, lo stesso criticismo nei confronti della Patria e della guerra di lorsignori sono ancor oggi in crisi, ma il liberismo non ha potuto sostituirli. Il “posto fisso” era un diritto, il precariato è una jattura sociale; lo Statuto dei lavoratori è quasi soltanto un ricordo; le istituzioni assistenziali nate a protezione dei settori più indifesi della società sono minacciate dal continuo ridimensionamento dovuto alla voracità della logica di mercato e di accumulazione finanziaria. La cultura dell’associazionismo popolare (che può essere anche quella dell’osteria e delle bocce) e della Camera del lavoro è stata soppiantata dalla sociologia della solitudine e della passività davanti al televisore. Sotto i nostri occhi sono concentrazioni finanziarie gigantesche e abissi di miseria. L’uomo più ricco d’Italia ha un bilancio superiore a quello di una decina di Stati africani, dove la fame fa ogni giorno migliaia di vittime. E’ difficile rendersi conto intellettualmente e moralmente di cose del genere, anche perché l’Italia è stata ed è uno dei centri più sensibili di questa involuzione, e nio siamo quindi oggetto di una efficace coazione persuasiva. Io non credo che il crollo dell’Unione Sovietica abbia significato la morte del socialismo e del comunismo. Il comunismo c’era anche prima, come sentimento, utopia, movimento, e, in seguito, perfino come critica della stessa Unione Sovietica, e c’è anche adesso; solo che bisogna intendersi sul suo significato e sui suoi contenuti di realtà umana, di obiezione e di progetto. Al riguardo regna ancora una grande confusione, che richiede una forte applicazione intellettuale. Due rischi mortali Dall’ultimo decennio del ‘900 abbiamo ereditato una situazione internazionale apparentemente semplificata dalla scomparsa del nemico sovietico, ma che ha rivelato subito, in quegli stessi anni 1890-91, un elemento sorprendente: le tensioni mondiali non erano cioè tanto dovute all’Unione Sovietica e alla sua politica, quanto invece erano presenti nello stesso Occidente. In primo luogo, malauguratamente, non vi fu alcuna proposta di disarmo; la spartizione dell’eredità geopolitica (ma anche economica!) del “socialismo reale” diede luogo a complicità e interventi attivi nella demolizione della Repubblica federale jugoslava; altre, disastrose iniziative di guerra sono state portate nel Medio Oriente arabo-islamico e in Somalia – prima e dopo l’attentato alle Torri Gemelle – e non giustificate (come è ormai chiaro) dalla necessità di contrastare il terrorismo; gli Stati Uniti d’America, sia con presidenza democratica sia con presidenza repubblicana, hanno manifestato una naturale propensione alla violenza aggressiva e al militarismo che hanno messo in una crisi di difficile soluzione la loro stessa democrazia. E’ ormai in corso uno scontro di civiltà con tutto l’Islam, e la natura volontaria e la pianificazione della logica amico-nemico confermano, secondo più di una corrente di analisi economica, la necessità sistemica di forti spese militari e di continui investimenti per la ricerca in quei medesimi settori tecnologici il cui potere ha per il mondo un suono sinistro. La “guerra infinita” con le sue varie etichettature di missione, di democrazia, di libertà, non l’avrebbe inventata Bush per propria fantasia, ma sarebbe nel DNA del capitalismo che si riproduce, e l’industria massmediatica fornirebbe i mezzi e le strategie per un largo consenso. Consenso non difficile da ottenere presso opinioni pubbliche che sono figlie dell’ideologia del colonialismo e del razzismo bianco e che sono attualmente prive di alternative realistiche e credibili. Mentre si riprendono e si attuano i piani della presidenza Reagan per la guerra nello spazio, un altro rischio aumenta fino a proporzioni incontrollabili: quello della rovina già molto avanzata dell’ambiente naturale. Se ne è parlato finalmente in termini espliciti, nei giorni scorsi, in relazione sia al documento della Commissione dell’Unione Europea sia all’ormai non più dissimulabile scardinamento del tempo meteorologico dovuto all’effetto serra. L’interesse dei mass media per le cause del cosiddetto “maltempo” ha dato luogo a grossolane mistificazioni ed è durato ben poco. Vorrei però dare rilievo al diverso comportamento dei mass media di fronte ai due grandi problemi, guerra e ambiente. Mentre in tema di guerra il tono dominante è l’allarme teso alla giustificazione delle spedizioni militari, e la designazione del nemico prossimo è chiara e ben programmata, a proposito di rischio ambientale la consegna è quella della tranquilla rimozione. Le soglie di pericolo per l’inquinamento dell’aria vengono elevate per imperio burocratico. Il rapporto della Commissione europea sul riscaldamento globale ha “tenuto” due o tre giorni nei titoli dei quotidiani e nelle immagini televisive; ma alla gente che vuole capire le ragioni di quest’inverno improbabile si sono fatti discorsi più o meno spensierati sulle stranezze della natura – abbiamo già mimose in fiore e asparagi, peschi in fiore e ulivi secolari impazziti, il grano è già uscito 12 o 15 centimetri da terra, pesci e uccelli hanno perso l’orologio delle migrazioni, il letargo di molte specie è più breve e non completo. Noi sappiamo che questi sono i frutti di una rottura del patto con la natura, quello entro il quale si è svolta tutta la storia umana; ecco la potenza terribile di una prassi sregolata che ha come riferimenti prevalenti il profitto e la crescita, l’avere e non l’essere. I mass media non hanno comunque messo in chiaro la relazione tra deregulation dell’attività economica e deregulation dei rapporti con l’ambiente: quello è un terreno minato, il pubblico che acquista e consuma non deve troppo riflettere sui vari nessi che tengono insieme l’equilibrio di Gaia. Già dopo due o tre giorni i titoli ci hanno quindi invitato a considerare le ricadute vantaggiose di tutto ciò, e suggerito di convivere con l’effetto serra, con la desertificazione, le alluvioni, lo scioglimento del Polo Nord. L’uomo deve adeguarsi al dominio del mostro da lui stesso creato, gustandone i benefici. Un titolo del “Corriere della sera” del 20 gennaio diceva: «Rassegniamoci a diventare più tropicali». Il professor Prodi del Cnr: evento raro, ma si ripeterà. Le previsioni? Impossibili. L’industria culturale è impari ad affrontare quello che si preannuncia come il trauma più grave, e forse la morte dell’umanità. Il “principio responsabilità” Secondo una certa linea di pensiero, il cui rappresentante più importante è Günther Anders, il complesso dei rischi totali, in primo luogo il nucleare e l’ambientale, ha aperto una forbice (definita come gap prometeico) – tra l’intelligenza creativa dell’uomo e la sua capacità di controllarne gli outputs. Ecco le origini antropiche del mostro. Del gap e delle sue prospettive apocalittiche occorre prendere coscienza: non per annegare nella disperazione, ma per fare dell’angoscia un dato di coscienza, una forza morale e una insostituibile spinta euristica. Una “angoscia amante” – dice Anders – che ci conduca da un lato ad approfondire il problema e dall’altro a scendere nelle piazze: una nuova forma di militanza e una nuova assunzione di responsabilità. L’uomo che si salva non è lo yesman del sistema, ma un “apocalittico consapevole” e quindi un ribelle. Nuova consapevolezza e nuova responsabilità sono anche al centro della riflessione di Hans Jonas, il cui fondamentale Il principio responsabilità . Un’etica per la civiltà tecnologica (1979. ed. it. 1990), insieme con Essere o non essere. Diario di Hiroshima e di Nagasaki (1958-59, ed. it. 1961) di Anders, costituisce lo spalto avanzato della coscienza umana in età atomica. Ma che fanno coloro per i quali la ricerca, l’intelligenza delle cose, la salvaguardia della vita sono pane quotidiano e doveri elementari? Se lo sconvolgimento è totale, se il novum del fatto e del relativo approccio cognitivo ha una portata filosofica universale, occorrerebbe una disanima delle risposte, dei feedbacks delle varie categorie intellettuali e professionali. Si va dai dubbi ancora messi avanti da scienziati bempensanti fisici (“non c’è niente di scontato”, ha dichiarato il geofisico prof. Enzo Boschi, al “Corriere della Sera”, 15.1.07) al rifiuto di molti economisti di mettere il loro sapere alla prova delle suggestioni scientifiche dell’ecologia, alla diluizione del rischio apocalittico in esistenzialismo metatemporale; fino all’assenza pressoché totale di una cultura storica inclusiva del possibile esito nichilista della contemporaneità. Chi volesse censire le voci degli intellettuali italiani a proposito dei grandi rischi (ho lavorato anch’io e ho dato tesi in argomento) si accorgerebbe che la tragedia estrema si prepara nel vuoto. Nessuno pare accorgersi del fucile appeso alla parete fin dal primo atto, e che sparerà nel terzo; e nessuno pare interessato a controllarne la cartuccia. In campo politico prevale l’ignoranza dei tratti elementari della condizione autodistruttiva; l’ecologia e il problema della guerra nucleare non sono che piccole aggiunte ai documenti dei politici: eppure proprio da quella parte dovremmo attenderci un’assunzione di responsabilità e perfino qualche abbozzo di gestione sociale dei rischi. Lo stesso si può dire, in generale, di giornalisti e pubblicisti. Ogni giornale ha un “esperto” di ambiente. Ma questi è già ideologicamente selezionato, e comunque non può superare certi limiti di fair-play e si esprime in termini morbidi e possibilisti. È molto raro che i grandi giornali sollecitino il parere di studiosi che abbiano fatto dell’ecologia e del declino delle condizioni naturali del pianeta e della vita una scelta di responsabilità. C’è un altro aspetto che dev’essere considerato: quello dell’informazione e direi anzi della riformazione culturale. Il raggiunto, e poi mantenuto e moltiplicato potere umanicida e pantoclastico delle armi rimette in discussione da un lato la costituzione antropologica, dall’altro l’intera vicenda umana, in particolare la magnifica storia moderna dell’Occidente. E se un rovesciamento totale di paradigma appare necessario, intanto una rivoluzione di categorie potrebbe effettuarsi sotto la specie della responsabilità. Abbiamo già più volte pronunciato la parola pesante di questo incontro, che è soprattutto un omaggio a Betty Williams. Nelle condizioni del nostro tempo responsabilità ha un significato non solo di scelta etica, ma di coraggio critico. E qui l’etica della responsabilità di Max Weber deve cedere il passo al “principio responsabilità” di Hans Jonas. Partendo non dalla corruzione dell’elemento naturale, ma dagli sviluppi inediti e coattivi della tecnologia, Jonas distingue l’etica nuova da quella tradizionale, radicata – anche nei casi dei doveri genitoriali e politici – in un “contesto a breve termine”. L’etica nuova postula un rapporto nuovo e responsabile con il futuro, tutto il futuro possibile, che dev’essere garantito nel presente da un “sapere valutativo” e da un “potere sul potere”. Al di là dello stesso animus di Jonas, sono parole rivoluzionarie; ma, egli argomenta, solo di lì possono scaturire il “sì ontologico” e la priorità dell’essere. Alla sua volta, sulla stessa linea, Anders propone una “Internazionale delle generazioni”: il passo relativo merita d’essere citato integralmente, perché contiene in sintesi della svolte culturali, quella nuova “rivoluzione copernicana” che il filosofo tedesco proclamava necessaria e angosciosamente urgente: Internazionale delle generazioni. Ciò che si tratta di ampliare, non è solo l’orizzonte spaziale della responsabilità per i nostri vicini, ma anche quello temporale. Poiché le nostre azioni odierne, per esempio le esplosioni sperimentali, toccano le generazioni venture, anch’esse rientrano nell’ambito del presente. Tutto ciò che è “venturo” è già qui, presso di noi, poiché dipende da noi. C’è, oggi, un’ “internazionale delle generazioni”, a cui appartengono già i nostri nipoti. Sono i nostri vicini nel tempo. Se diamo fuoco alla nostra casa odierna, il fuoco si appicca anche al futuro, e con la nostra casa cadono anche le case non ancora costruite di quelli che ancora non sono nati. E anche i nostri antenati appartengono a questa “internazionale”: poiché con la nostra fine perirebbero anch’essi, per la seconda volta (se così si può dire) e definitivamente. Anche adesso sono “solo stati”; ma con questa seconda morte sarebbero stati solo come se non fossero mai stati. Non possiamo più perdere tempo Da queste prospettive vertiginose veniamo alla prosa quotidiana; e parliamo, come si suol dire, ma raramente si fa, “fuori dai denti”. Salvare il mondo si può anche limitando i consumi energetici personali e familiari. È senz’altro vero, ma suscita sospetto l’appello al singolo al di fuori di una mobilitazione collettiva, del silenzio dello Stato, della discutibile gestione del business energetico, della mancata educazione scolastica ai problemi del futuro, del clima da entertaiment perenne e volgare dei programmi televisivi. Il protocollo di Kyoto del 1997 chiama ad un impegno che riguarda in primo luogo i grandi contraenti pubblici, che deve da essi arrivare ai cittadini. Alla formidabile domanda: ‘quanto tempo manca ancora?’, Kyoto aveva cominciato a dare risposte misurate sui prossimi (non molti) decenni, ma nel presupposto che un primo positivo riscontro fosse immediato, ciò che invece non è avvenuto. Il mondo è stato sospinto nella stessa direzione anche dopo Kyoto; negli Stati Uniti d’America – massimo responsabile economico e soprattutto politico della situazione anche ambientale del pianeta, il presidente George W. Bush solo mercoledì scorso in un discorso al Senato ha pronunciato le parole “emissioni nocive”, e l’ha fatto essenzialmente per salvare se stesso. I grandi organismi economico-finanziari internazionali – Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Organizzazione mondiale del commercio – non si sono certo segnalati per le loro politiche ambientali: al contrario, il loro sfrenato liberismo e occidentalismo, la loro concezione della società mondiale e della proprietà intellettuale, la pratica della brevettazione sono andati nello stesso senso di chi ha stracciato il protocollo di Kyoto. Tocchiamo qui un punto delicato del problema della responsabilità: cosa significhi l’assunzione di responsabilità sociale da parte degli individui e, per altro verso, quali forze o entità dell’economia politica siano responsabili delle situazioni che ho descritto; infine, quali siano le vie per rimettere al posto giusto i concetti e le cose. Se intendiamo riferirci all’onestà e alla coscienza degli individui, stileremo nobili appelli, ma non giurerei sulla loro efficacia. Certo anche la protesta e la renitenza individuali sono importanti, ma esse possono raggiungere almeno parzialmente il loro scopo solo se diventano di massa, si organizzano, fanno un movimento, danno luogo ad una elaborazione politica organica. E meglio è se il soggetto collettivo della protesta coincide con una forza sociale già presente e attiva in condizioni normali sui problemi consueti della dialettica sociale. Anche noi singoli siamo, nella nostra piccola proporzione, “colpevoli” della crisi globale. Ma non sono mai storicamente convincenti le spalmature universali della colpa, mentre la scena resta dominata dalla sfuggente concretezza dei poteri superiori: i macrointeressi economici al profitto, l’ideologia e l’industria dell’imperialismo, la grande proiezione militarista, l’apoteosi della tecnocrazia; e – per usare le figure di Carl Schmitt, “il politico” che integra, ordina e gestisce queste forze e la loro terribile spinta verso quello che via via, nelle tre fasi del Novecento di cui ho detto, è diventato il baratro del non-essere. “Il politico”, in altre parole, è il precipitato statuale che si eleva sopra tutta la società e presiede alle decisioni di guerra, e oggigiorno al destino dell’umanità intera, è il Leviatano che concentra in sé le responsabilità individuali e le trasfigura in decisione sterminatrice. Quella del “politico” è irresponsabilità asociale, una responsabilità sociale a rovescio che viene spacciata come “Patria”. Non sempre il rovesciamento avviene in linea diretta, e mai avviene nella chiarezza. Il postulato di Kant (ma anche di Bentham e di Marx) della pubblicità degli atti di politica estera è rimasto un’utopia, tanto più sproporzionata ai mezzi di guerra e agli olocausti di oggi. Abbiamo avuto sotto gli occhi la vicenda delle due guerre partite dagli Stati Uniti contro l’Afghanistan e l’Iraq, e sostenute anche da voci di alleati e fiancheggiatori a vario titolo; e abbiamo vissuto le tragedie che ne sono seguite e il fallimento della strategia americana della “guerra infinita”. Ebbene, a noi sembra irrazionale che per queste guerre e per la gestione dei loro risultati lo Stato italiano non solo abbiano mandato proprie truppe, ma abbia concesso l’uso di basi militari sul territorio nazionale, basi la cui ragion d’essere è giuridicamente e democraticamente contestabile. Ecco l’analisi che dobbiamo fare delle responsabilità politiche e la contrapposizione che ad esse è stata fatta e viene tuttora fatta da una larga parte della società. Alla singola guerra si va attraverso una pluralità di atti, e all’apocalisse attraverso una pluralità di guerre che mirano anche a preparare il materiale umano idoneo a quello che il polemologo Gaston Bouthoul chiama l’“infanticidio differito”, cioè la strage dei ventenni. Quando si parla di basi americane in Italia – in questi giorni particolarmente di Vicenza e di Sigonella –, di depositi che vi sono allestiti di ordigni atomici, di nuove cessioni e militarizzazioni di territorio, e si minimizza ipocritamente il commercio di guerra definendo la questione locale e urbanistica – allora io penso che noi tutti dobbiamo rivendicare la gestione democratica, e anche la sacralità personale, della responsabilità, revocandola al politico. In qualche modo, da qualche parte, in qualche momento l’umanità deve cominciare questo percorso rivoluzionario e autocritico del pacifismo come lotta per la propria stessa salvezza. L’Italia, per la sua posizione geografica, per la sua civiltà umanistica e artuistica – della quale Vicenza è un meraviglioso memorial -, per essere stata sciaguratamente parte e teatro delle due guerre mondiali, per le tradizioni democratiche e libertarie del suo popolo, può cominciare questo cammino. E aggiungo, per non lasciare nel vuoto le considerazioni fatte sull’urgenza della storia: non si può più perdere tempo. * Lettura tenuta il 26 gennaio u.s. alla Facoltà di Fisica dell’Università di Roma “La Sapienza” nella manifestazione in onore del Premio Nobel per la Pace Betty Williams e in ricordo di Joseph Rotblat. Il discorso era introduttivo al tema della responsabilità sociale dello scienziato, poi trattato espressamente da Marcello Cini. “Giano” ringrazia l’organizzatore dell’incontro Riccardo Antonini. ------------------------------------------------------------- Giano. Pace ambiente problemi globali Rivista quadrimestrale interdisciplinare via Fregene, 10, 00183 Roma Tel-fax 06/70491513 e-mail: <mailto:redazionegiano at fastwebnet.it>redazionegiano at fastwebnet.it pagina web: <http://www.odradek.it/giano>http://www.odradek.it/giano
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