Il perdono del deportato
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 - Date: Fri, 26 Jan 2007 13:05:23 +0100
 
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 In occasione della 
Giornata della Memoria, riporto qui di seguito l'articolo pubblicato nel numero 
di gennaio 2007 di Mosaico di pace. 
Rosa 
    
        IL PERDONO DEL 
DEPORTATO 
Francesco Comina 
 Aveva 18 anni Franz Thaler, quando scappò sui monti del Sudtirolo per fuggire alle SS. Fu 
condannato e rinchiuso a Dachau  È la seconda volta che salgo a Reinswald (San 
Martino) in val Sarentino per incontrare Franz Thaler. La sua casa si trova 
all’inizio della salita che porta al paese. In macchina da Bolzano ci si mette 
una mezzora. La prima volta mi accolse nella sua bottega e 
mi mostrò i prodotti della sua arte d’artigiano, portachiavi, portafogli, 
stivali... Oggi l’appuntamento è all’osteria dove Franz scherza con gli amici, 
gioca a “watten” (un gioco di carte tipico di queste zone) bevendo alcuni 
bicchieri di vino.  È domenica e in queste valli la gente esce di 
casa con i costumi tradizionali. Le donne portano il “Dirndl”, un abito formato 
da una camicetta bianca con le maniche a sbuffo e un vestito stretto in vita che 
scende largo fino ai metà polpaccio, coperto nella parte inferioriore da un 
grembiule colorato. Sulle spalle portano foulard con le frange che riprendono i 
colori del paese di provenienza. Gli uomini hanno una giacca di lana ricamata 
molto calda e pantaloni neri eleganti. Franz porta un cappello con intarsi di 
verdi e una cintura decorata con piume di pavone 
intrecciate. Parla in dialetto tedesco strettissimo ma ha un 
sorriso che parla molto meglio delle parole. Con gli occhi è capace di 
confermare le tue idee. Le gambe gli tremano un po’ ma sta diritto i piedi. È 
magro, filiforme con le guance che arrossiscono facilmente. Franz è timido e si 
commuove quando pensa alla sua storia di deportato nel campo di sterminio di 
Dachau. “Ich bin nur ein kleiner Mensch”, io sono solo un piccolo uomo, dice 
come per mettere le mani avanti.  Eppure questo piccolo uomo ha vissuto una 
storia grandiosa e drammatica.  Fuggitivo Nel mare dei sommersi, Franz si è salvato. Era 
il 1944 e il piccolo artigiano, appena diciottenne, ricevette la cartolina di 
precetto delle SS. Gli veniva ordinato di presentarsi il primo di giugno presso 
il reggimento di polizia di Silandro. Thaler aveva ascoltato il racconto di 
alcuni amici che gli avevano parlato del carattere violento e persecutorio del 
regime e così prese la decisione di fuggire sui monti, intorno al suo paese, 
trovando rifugio nei fienili: “Conoscevo palmo a palmo i boschi di Sarentino” 
racconta.  Ma quei quattro mesi passati a nascondersi 
furono angoscianti, anche se ora può perfino scherzarci sopra: “Di notte giravo 
in cerca di cibo e nei masi c’erano persone che mi aiutavano con qualche pezzo 
di carne e un po’ di verdure. Un giorno, camminando nel bosco, mi sono sentito 
chiamare da due persone che mi conoscevano. Mi sono avvicinato. Erano delle 
guardie naziste che controllavano i dintorni di una malga per scovare possibili 
disertori. A un certo punto mi feci coraggio e chiesi loro: ‘Cosa fate da queste 
parti?’. Erano imbarazzati perché avevano un appuntamento in un maso con due 
ragazze... Per questo motivo mi hanno lasciato andare”.  Franz ordina mezzo litro di vino rosso: “Non 
posso farne a meno – ride – è come una medicina, mi fa stare meglio”. Perde il 
filo del discorso ma lo recupera presto accendendo una sigaretta: “Ah sì, la 
fuga nei boschi... Furono lunghi quei mesi. Fuggivo dai nazisti che mi cercavano 
dappertutto. Vivevo come un animale selvatico, facevo attenzione a ogni più 
piccolo rumore, cucinavo quello che trovavo fra le pietre del bosco ma un bel 
giorno venni a sapere che i nazisti erano venuti a casa per cercarmi e avevano 
minacciato la mia famiglia dicendo che se non mi fossi consegnato avrebbero 
deportato i miei fratelli in un campo di concentramento. Allora mi lasciai 
catturare dopo che un mio cugino aveva messo i soldati sulle mie tracce. Ma lo 
feci solo per amore dei miei genitori che mi supplicarono di 
arrendermi”. Franz iniziò il suo viaggio all’inferno. Fu 
condotto a Silandro, in un centro di indottrinamento per le giovani reclute, ma 
dopo due mesi fu trasferito a Bolzano per essere processato per diserzione. Fu 
condannato a dieci mesi di internamento. Venne quindi caricato su un carro 
bestiame diretto a Dachau, ma i bombardamenti alleati rendevano il viaggio 
difficile e il carico di condannati fu costretto a una sosta nel carcere di 
Innsbruck.  Thaler ricorda quella notte drammatica 
dilaniata dalle bombe aeree degli alleati: “I muri tremavano, il rombo degli 
aerei era continuo, si sentivano le deflagrazioni, sembrava che la terra fosse 
colpita da un terremoto”. Dachau L’arrivo a Dachau fu terribile. Franz parla con 
un filo di voce: “Prima di entrare nel campo salutai il brigadiere che mi aveva 
accompagnato in treno. Poi mi ordinarono di togliermi i vestiti, venni 
completamente rasato ma in realtà molte ciocche di capelli mi vennero 
letteralmente strappate con le mani, poi fui fotografato da tutti i lati. Subito 
dopo mi interrogarono a lungo. Ricordo bene che mi chiesero se ero cattolico. 
Risposi di sì e allora i soldati risero e dissero con rabbia: ‘D’ora in avanti 
imparerai un altro tipo di preghiera!’. Mi consegnarono un paio di mutande e una 
camicia. Mi guardai allo specchio: non ero più io, ero un altro. Non mi 
riconoscevo e avevo paura”.  I disertori non erano come gli altri internati. 
Anche la divisa era diversa: “Noi non avevamo l’abito a righe, avevamo una 
uniforme militare in cui c’erano, ben visibili, due lettere: KZ”. 
 Franz ricorda di essere stato trasferito, 
qualche settimana più tardi, in un altro campo di concentramento: “All’inizio 
avevo capito che mi avrebbero trasferito a Innsbruck, poi compresi che si 
trattava di Hersbruck, un campo vicino a Norimberga. Ma la vita era la stessa. 
Mi fecero lavorare nel cantiere edile che aveva il compito di costruire nuove 
baracche per i detenuti. Pregare era l’unico conforto. Fu in quella situazione 
che capii il motivo per cui molti detenuti si erano suicidati”. 
 Resistette. Quando gli americani lo liberarono era allo 
stremo delle forze. Venne trasferito in un campo di raccolta in Francia: “Mi 
lasciai andare, mi abbandonai a Dio. Mi distesi a terra, non mi interessava più 
nulla. Fu proprio in quella condizione che due uomini mi sollevarono in piedi. 
Erano due fratelli della val Passiria, mi dissero che dovevo sforzarmi, che 
dovevo tirarmi fuori dal torpore perché altrimenti sarei morto. Avevo trovato i 
miei angeli custodi”.  Sopravvissuto  Franz tornò a casa il 19 agosto del 1945. 
Pesava trenta chili. Era uscito dall’inferno, era un sopravvissuto. 
 Oggi si appassiona ancora di politica e di 
tanto in tanto conduce i ragazzi delle scuole in visita a Dachau: “La prima 
volta mi fermai davanti al cancello. Non riuscivo a entrare. Era più forte di 
me. Mi tremavano le gambe. Avevo il terrore che la storia potesse riapparirmi 
con la spietatezza di quel tempo. Mi feci coraggio e superai la paura di quel 
cancello che nella mia mente si era fissato come il passaggio dalla vita alla 
morte. Entrai nel campo ma non era più lo stesso. Era diventato un museo. Poi 
sono tornato altre volte con i pullman degli studenti. Ma i ragazzi di oggi 
faticano a capire quello che davvero è stato, quello che davvero abbiamo vissuto 
noi che in quelle baracche abbiamo sofferto e visto morire tanti prigionieri. A 
volte leggo dalle cronache dei giornali che ci sono giovani che si rifanno al 
nazionalsocialismo e che ci sono ancora persone che hanno nostalgia del fascismo 
ma io credo che quel passato non tornerà mai più, almeno nella forma inn cui 
l’abbiamo conosciuto”.  Franz ha perdonato tutti coloro che gli hanno 
fatto del male. Ha perdonato anche un giovane della sua vallata che qualche anno 
fa l’ha schiaffeggiato davanti a tutti nell’osteria del paese. Nella sua testa 
Franz era un traditore, un Walsche, aveva disobbedito al richiamo della 
grande Germania. “Ma dopo qualche giorno ci siamo dati la mano” sdrammatizza 
Franz.  Così accadde il giorno in cui tornò a casa, a 
guerra finita, e incrociò il cugino che l’aveva consegnato ai nazisti: “Non 
sapevo cosa fare – ricorda – non sapevo se cambiare strada o fare finta di 
niente. Ma ci siamo dati la mano e allora capii immediatamente che avevo già 
perdonato”. “Io posso perdonare – prosegue Thaler – ma 
dimenticare non ci riesco. Chi ha vissuto quella tragedia, come può dimenticare? 
Per voi quello che è accaduto è inimmaginabile. È per questo motivo che sento 
come un dovere il fatto di raccontare. Scelte come la mia erano delle 
eccezioni. Molti non osavano opporsi. Era molto più facile seguire la massa 
piuttosto che essere contro e rimanere isolati. Io stesso sono stato chiamato 
vigliacco, mi hanno detto che non ero un uomo perché non volevo arruolarmi 
nell’esecito. Era molto difficile percorrere questa strada perché si era soli. 
Non solo mancava alla gente il coraggio di opporsi, ma in un certo modo si 
pensava che quella guerra, e quindi l’essere arruolati nell’esercito, fosse una 
cosa giusta. Oggi ricordiamo Josef Mayr-Nusser, ricordiamo Franz Jägerstätter. 
Ma eravamo davvero pochi”. Il racconto è tratto dal libro 
“Il monaco che amava il jazz” di Francesco Comina, casa editrice il Margine, 
Trento 2006 _______________________ 
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