Le ragazze della rivolta



L'articolo che vi invito a leggere ed inoltrare, parla di giovani donne
che non conosciamo per niente. Conosciamo poco le donne, sono assai poco
visibili e udibili le loro voci nella società, si conoscono ancora meno
quelle delle ragazze, ancora meno- meno ancora quelle delle periferie
urbane.
accade che una mattina, oggi, trovo una mail di un amico che devo avere
incontrato in rete e mi  manda  questo prezioso pezzo tratto
dall'inserto Alias del Manifesto e mi scrive:
"
Io sono un nonviolento (non integralista) e questa intervista mi stimola
domanda sull'essere nonviolento, se è possibile nonviolenza in un
contesto come quello delle banlieu...


 Penso che una sana e radicale nonviolenza, non il pantano buonista che
circola in Italia, potrebbe dare a quelle lotte una prospettiva e una
strutturazione più forte, potrebbe essere un di più che supera la
disgregazione che si intuisce quando le ragazze delle interviste parlano
di clan e bande..."

L'articolo è lungo, va centellinato ed elaborato, vi prego di leggerlo e
non frettolosamente. Non ci sono nomi noti che parlano, ma solo ragazze
in rivolta. Se vi anima la curiosità, il capire quando come perchè, fate
buon uso di quanto segue e magari cerchiamo di  spiegarci  perchè noi
donne, noi tutti siamo così in silenzio, anche se vorremmo uscire senza
subire o agire la violenza.

Doriana Goracci
Capranica 15.1.2007

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Da ALIAS del 13/1/07

LE RAGAZZE DELLA RIVOLTA
di Emilio Quadrelli
PARIGI Le Blanc Mesnilin, fine novembre 2005, ore 16. Improvvisamente
da una curva non particolarmente agevole
sbuca a tutta velocità una Bmw ultimo modello grigio metallizzato.
La curva è impegnativa e la velocità sostenuta
non aiuta, l’autista sembra perderne il controllo. La parte
posteriore dell’auto comincia a girarsi per dare vita al più
classico dei testa-coda. L’incidente appare inevitabile.
Con non poca bravura e freddezza
il conducente, con un colpo di controsterzo
opportuno e dato al momento
giusto, riprende il controllo
dell’auto e la conduce in una stradina
secondaria. Mentre il rumore della
frenata è ancora nell’aria, il passeggero
seduto al suo fianco salta velocemente
fuori dall’abitacolo e, impugnando
a due mani una pistola di
grosso calibro, dall’aspetto una
Browing bifilare calibro 9 parabellum,
prende di mira la strada. Subito
dopo l’autista scende e i due si dileguano
per una delle strade adiacenti.
Dopo pochi secondi sopraggiungono
tre auto della polizia che, alla vista
della Bmw ferma, iniziano a far stridere
i freni. I più rapidi, mentre le auto
sono ancora in corsa, saltano giù e armi
alla mano la circondano. Ma tutto
risulta inutile, nell’auto non c’è più
nessuno. Imprecando si lanciano nelle
vie circostanti in cerca dei fuggiaschi.
Ben presto recedono, la caccia
non ha avuto buon esito.
Tutto questo potrebbe sembrare
poco interessante, una normale «storia
sbagliata» come avrebbe detto De
André, se i fuggitivi, con non poca sorpresa,
in realtà non fossero due donne e
per di più velate. Due ragazze dall’aspetto
molto giovane, vestite con
anfibi militari, jeans, felpe e giubbotto
ma con il velo.
Nello stesso periodo, mentre gran
parte dei «quartieri popolari» francesi
andavano in fiamme, parti non secondarie
della cosiddetta società civile
«scoprivano» improvvisamente la
deprecabile condizione in cui le donne,
a causa del machismo dilagante
in banlieue, erano costrette a vivere.
Donne sottoposte ad ogni forma di
brutalità e vessazioni da parte dei maschi
banlieuesards i quali, in preda a
perenni eccessi testosteronici, usavano
nei loro confronti gli stessi riguardi
riservati alle automobili. Ciò che
continuamente emergeva era un ruolo
totalmente subordinato delle donne
di banlieues.
Una retorica che sembra avere
convinto i più, ritenendo persino inutile
tentare un qualche approccio empirico
alla questione. È parso pertanto
il caso di scendere in strada per vedere
se le sentenze emesse dagli abitanti
della «piccola Parigi» avessero
un qualche riscontro tra gli abitanti
delle periferie e, pur con i limiti che
un piccolo e modesto reportage inevitabilmente
comporta, a uscirne è stato
un quadro decisamente diverso.
Nelle vicende dell’autunno francese,
in realtà, le donne un qualche ruolo
e non sempre secondario lo hanno
avuto. Del resto, chiunque conosca
minimamente come si svolge la vita
economica e sociale in banlieue sa
che il peso delle donne nella gestione
concreta della vita quotidiana è addirittura
strategico. Certo, è un ruolo
che poco o nulla ha a che vedere con
i dibattiti che appassionano la società
legittima o gli ambiti degli woman’s
studies. «Quote rosa» e «pari opportunità
» alle donne di banlieues non dicono
molto così come le loro «affinità
elettive»hanno ben poco a che spartire
con le riflessioni teoriche di Judith
Revel ma, piuttosto, sembrano avere
non poche cose in comune con le pratiche
di Assata Shakur ma proprio
per questo una ricerca on the road al
suo interno è risultata tutt’altro che
priva di interesse.
Il viaggio ha inizio con l’incontro
di M. B. e il suo nutrito e agguerrito
gruppo di donne black. Lei, in particolare,
è politicamente attiva, e non da
ieri, nei «quartieri popolari» e nel corso
della rivolta ha svolto un ruolo di
«direzione» non proprio secondario.
Significativamente, ottenendo l’approvazione
di tutto il gruppo, non accetta
un’intervista incentrata sulla
«questione femminile»magioca questa,
pur riconoscendone una certa
«particolarità», nell’insieme della
«questione banlieue».
Secondo le opinioni maggiormente
diffuse, le donne in
banlieue vivono una condizione
priva di qualunque visibilità
e del tutto estranea a qualunque
forma di partecipazione alla
vita pubblica e ancor meno ai
suoi aspetti decisionali ma,parlando
con te e il vostro gruppo,
le cose sembrano essere diverse.
Che ruolo hanno avuto, allora,
le donne nel corso degli
eventi dello scorso autunno
francese?
Un ruolo spesso importante ma, prima
di parlare di questo, è necessario
parlare di ciò che è stato il movimento
di lotta dell’autunno scorso. Prendere
le attività delle donne e scorporarle
da tutto ciò che è accaduto è un
modo per minare l’unità che, non
senza fatica e fino a un certo punto, si è venuta a determinare
nel corso della lotta tra le varie anime della
banlieue. Sulle donne di banlieue si sono spese
fin troppe parole anche se, questo è il ridicolo della
situazione, nessuna di coloro che ha scritto su di
noi ha portato il suo prezioso culo qua dentro. Per
questo ritengo che la prima cosa di cui bisogna parlare
sono gli obiettivi messi al centro della rivolta e
non farsi intrappolare all’interno di un terreno che
non è il nostro.
Di questi, parlo degli obiettivi attaccati, nei vari organi
d’informazione non vi è traccia.
Quello che è stato, aggiungerei volutamente
e con gran pace di tutti, mostrato,
è l’aspetto irrazionale della rivolta.
Invece le cose sono andate in
modo diverso. Si è parlato tanto delle
auto incendiate come se quelle fossero
l’unico obiettivo, in realtà i principali
obiettivi presi di mira erano altri,
la polizia e i commissariati ovviamente,
e di questo un po’ si è detto, anche
perché quando si è cominciato a parlare
di una regia della criminalità, per
il resto inesistente, parlare dell’assalto
ai commissariati poteva far comodo
per sostenere questa tesi. Ma non è
stata solo la polizia a essere attaccata.
I Centri del lavoro in affitto e non poche
strutture e proprietà del lavoro
nero, e in alcuni casi anche alcuni
suoi degni rappresentanti, sono stati
attaccati non meno dei commissariati.
A farlo sono state soprattutto donne.
Di questo sulla stampa e nelle televisioni
non vi è traccia. Puntare l’attenzione
su tutto ciò è importante
perché, visto che in tanti sembrano
interessati alla condizione delle donne
in banlieues, hanno molto a che
vedere con le donne.
Perché?
Cosa sono i Centri del lavoro in affitto
lo sanno tutti. Sono quelli che regolano
l’accesso al mercato del lavoro a
tempo e a condizioni vantaggiose per
le aziende. Sono anche organizzazioni
di ricatto e controllo sociale, politico
e sindacale, perché se sei una o
uno che organizza la lotta e il conflitto
sul posto di lavoro, o in ogni caso
sei una che non si fa mettere i piedi
addosso, sei fatta fuori. Puoi stare sicura
che, per te, molto difficilmente
ci sarà un nuovo contratto. Finisci tra
gli indesiderabili e non lavori più.
I Centri sono tra le principali armi
messe a punto dal capitalismo per
rendere innocui i lavoratori e le sue
parti più deboli e ricattabili, cioè le
donne. Ecco perché c’è un legame
strettissimo tra la ristrutturazione del
lavoro capitalista e la nostra condizione
di donne lavoratrici. Quindi i luoghi
dello sfruttamento sono stati tra
gli obiettivi principali del movimento
e sono state proprio le donne ad aver
maggiormente focalizzato l’attenzione
su questi aspetti. Se vogliamo parlare
di differenze di genere nel corso
della lotta, dobbiamo dire che gli uomini
guardavano con maggiore interesse
i commissariati, le donne tutto
ciò che aveva a che fare con la produzione.
Questo è anche facile da capire
perché i maschi subiscono più la pressione
dei flics, noi quella dei capi e
dei padroni.
Quindi, avete individuato nella
produzione la contraddizione
principale. Puoi raccontare
qualcosa su come vi siete mosse
e su come avete scelto gli
obiettivi da colpire?
Oltre ai Centri non sono state poche
le strutture produttive, quelle che usano
esclusivamente lavoro nero e semi
coatto, che sono andate in cenere.
La maggior parte di queste sfruttano,
attraverso la parcellizzazione del lavoro,
soprattutto il lavoro femminile.
Un lavoro a cottimo che si svolge all’interno
delle case. Oppure, altro caso non
infrequente, adattando a laboratorio
magazzini e scantinati dove le
donne lavorano quasi come in un
campo di concentramento, in condizioni
prive di qualunque sicurezza,
senza areazione, con orari di lavoro
mai inferiori alle dieci ore, sotto il controllo
di capi violenti, maneschi e arroganti.
Alcuni gruppi di donne, e
questo te lo posso garantire perché
ho contribuito a organizzarne alcuni,
mentre nelle strade era in corso la battaglia
ha regolato i suoi conti con i
propri padroni e guardiani. Quando
non è stato possibile attaccare i magazzini,
abbiamo ripiegato sulle auto
o sulle abitazioni. Qualche caid è andato
incontro anche a incidenti. Qualche
osso si è rotto è non è stato certo
il nostro.
Questo dovrebbe dare un quadro almeno un po’
diverso della rivolta e soprattutto
del ruolo per nulla subordinato
o addirittura invisibile che le
donne vi hanno giocato. Ma non è
questo, mi sembra, la cosa che va
maggiormente messa in risalto. Mi
sembra più importante invece parlare
del silenzio che, a partire dagli stessi
partiti e movimenti di sinistra, c’è
stato su questo. Il fatto che la rivolta
abbiamesso al centro, o tra gli obiettivi
più importanti, la critica all’organizzazione
capitalistica del lavoro e questo
sia passato del tutto inosservato,
dice molte cose. Dice, ad esempio,
che il lavoro per una parte della società
società
è una cosa completamente diversa
che per l’altra. Si tratta di due mondi
che parlano lingue diverse dove, per
gli uni, vi sono opportunità e possibilità
mentre per gli altri una rigida subordinazione,
dominazione e ricatto.
La vera questione è che oggi il mondo
è cambiato radicalmente nella sua
base materiale e strutturale, con ricadute
molto grosse.
È come se esistessero due mondi, abitati
da specie diverse. E questi due
mondi, per quello che mi riesce vedere,
non sono separati semplicemente
com’era anche in passato, dalla diversa
posizione occupata all’interno della
scala sociale ma che rimandava a
un modello sociale unico, bensì dall’appartenenza
a due realtà il cui colore
è il bianco e il nero. Forse per questo
la critica all’organizzazione capitalistica
del lavoro è estranea a gran parte
della sinistra perché, in fin dei conti,
è un’organizzazione bianca, quindi
anche la loro. È questa organizzazione
che determina la condizione
della donna in banlieue.
IL VIAGGIO CONTINUA
Quello che emerge dalle parole di M.
B. è una divisione del mondo che
non sembra lasciare spazio a possibili
mediazioni. Il racconto di G. Z., una
giovane black/blanc che per un certo
periodo ha fatto parte di alcuni movimenti
e associazioni della «sinistra
bianca e rispettabile», sembra ampiamente
confermarlo.
Tu sei tornata a lavorare politicamente
in banlieue dopo
un’esperienza in altri ambiti.
Perché?
Nel corso degli anni Novanta il lavoro
politico e sociale all’interno della
banlieue ha subito una notevole frammentazione.
Questo è stato soprattutto
la conseguenza di alcune trasformazioni
generali che hanno avuto notevoli
ricadute nei nostri territori delle
quali solo in seguito si è iniziato a
prendere coscienza. All’interno delle
aree che avevano portato avanti l’intervento
in banlieue, si è sviluppato il
dibattito sull’esigenza di un rapporto
maggiore con i vari mondi politici.
In poche parole si è posto il problema
se rimanere in banlieue, per portare
avanti in maniera autonoma un discorso
completamente incentrato sulla
specificità dei nostri territori, oppure
portare la banlieue all’interno del
discorso politico più generale. Una
buona parte di noi ha scelto questa seconda
ipotesi. Anche se molte delle
critiche che erano state avanzate alle
esperienze politico - istituzionale continuavamo
a considerarle in gran parte
valide, l’assenza di sbocchi che il
nostro lavoro autonomo ormai evidenziava,
ci ha portato a riconsiderare
in maniera diversa il rapporto con
alcune realtà che si stavano mettendo
in movimento. In molti, pertanto,
abbiamo deciso di cercare una sponda
fuori dalla banlieue. Un’esperienza
che, per me, è stata particolarmente
deludente ma che mi è anche servita
per capire molte cose sul mondo di
oggi, il tipo di contraddizioni che si sono
aperte e la loro natura. Perché c’è
qualcosa di molto diverso rispetto al
passato.
In che cosa consistono, sulla base
delle tue esperienze, maggiormente
queste differenze?
Vedi, la vecchia contrapposizione,
tra chi aveva aderito ai progetti della
sinistra istituzionale e chi invece aveva
optato per una strada diversa,
non era altro che una contrapposizione
tra chi seguiva un’ipotesi chiamiamola
realista e riformista e chi non rinunciava
alla messa in cantiere di un
progetto più critico e radicale.
Le infinite discussioni, le banalizzo
un po’, erano sui modi, i
metodi, i tempi. Tutto questo,
almeno formalmente sembrava
essere una discussione
tra persone che vogliono andare nella
stessa direzione, che perseguono
gli stessi obiettivi ma sono in disaccordo
su quale strada seguire.
Bene, oggi questo orizzonte comune non esiste nemmeno più
sulla carta.
Se prima, tra noi e loro, la differenza
era politica oggi credo che sia possibile
parlare di una differenza che nasce
su tutt’altri presupposti. Il problema
non è su come si interviene e si
sta in banlieue ma essere o meno un
banlieuesards.
Mi spiego con un esempio che rende
immediatamente chiaro la cosa.
In passato, essere un abitante della
banlieue, finiva per essere una specie
di valore aggiunto. All’interno dei
mondi della politica riformista, essere
un banlieuesard, poteva essere un
buon viatico per far carriera. Certo,
dovevi rimanere dentro ad alcuni
schemi è ovvio, ma una volta dentro
il gioco l’essere un banlieuesard poteva
essere quasi un vantaggio.
In che senso?
Per certa sinistra c’era quasi il mito
dell’abitante della periferia. Non pochi hanno
utilizzato il loro status originario
per accedere a, seppur piccole,
carriere. Addirittura accentuavano,
quasi in maniera parossistica, alcuni
tratti da banliuesard. Il banlieuesard
era un oggetto di culto, coccolato e
ambito. Il banlieuesard era visto come il buon
selvaggio, il grado zero ma
puro della classe, i suoi comportamenti
poco perbenisti e rozzi, negli
immaginari degli intellettuali e degli
appartenenti alla classe media della
sinistra, soddisfacevano il loro bisogno di
incontrare il popolo e il rappresentante
del popolo aveva tante più
chance di affermarsi rimanendo, almeno
in gran parte, popolo e comportandosi
come la borghesia progressista
immaginava dovesse essere
uno del popolo. Si può, a ragione,
obiettare sulla poca dignità personale
di un individuo che si presta, al limite
del buffonesco, a impersonare la maschera
del popolano che la borghesia
progressista immagina ma questo è
un altro discorso.
Ovviamente io non ho mai accettato
di essere la popolana e sono sempre
stata molto critica verso questi comportamenti
ma non è certo per valorizzarli
che tiho raccontato queste cose.
L’ho fatto per mettere in evidenza
come, per tutto un periodo e con tutte
le contraddizioni che c’erano, l’essere
un abitante della banlieue non
era socialmente disprezzabile. Sia
chiaro, non sto difendendo quel modello
sto semplicemente dicendo che
la banliue non era invisibile ma, semmai,
soffriva di un eccesso di visibilità
sociale. Per tutti, mostrare un
banlieuesard che tale rimaneva cioè
urbanizzato ma non troppo, questo
come vedrai è l’aspetto fondamentale,
era il classico fiore all’occhiello.
Non solo. Il banlieuesard diventava,
in qualche modo, oggetto di culto se,
in lui, si poteva esemplificare l’intera
banlieue. Un banliuesard come individuo
non aveva alcun senso, e quindi
in quanto tale non poteva neppure
pensare di avere un qualche successo
o affermazione, ma doveva essere
sempre l’espressione, il rappresentante
della banlieue.
Per questo doveva, in ogni occasione,
pubblica ma anche privata, mantenere
un certo modo di essere e di fare.
In questo gioco tutto girava intorno
alla rappresentanza, a ciò cheuno finiva
con il personificare. Per quanto
in maniera distorto c’era, per la
società, un riconoscimento di un intero
corpo e blocco sociale. Il popolo,
mettiamola così, aveva pieno diritto
a esistere e a manifestarsi. Chi
ha fatto un po’ di carriera l’ha fatta
giocando su questo.
E invece adesso?
Tutto questo che ti ho detto mi serve
per raccontarti invece quello che
accade oggi che è esattamente l’opposto ed è quanto ho potuto
concretamente sperimentare in prima persona. Se alcuni come
me, a un certo punto, hanno deciso di interrompere quel tipo di
esperienza, tornando a fare intervento in banlieue, altri sono rimasti
a lavorare in alcune realtà. Anche questi hanno fatto, per piccola
che possa essere, un po’ di carriera.Ma l’hanno fatta assumendo
comportamenti e atteggiamenti esattamente opposti a quelli
che li avevano preceduti. In poche parole se prima esisteva il mito
positivo del banliuesard, in quanto popolo, oggi questo mito si è
rovesciato in pura negatività, il banliuesard non è più la
personificazione
del popolo ma della teppa, dello sfigato, dell’invisibile,
del premoderno, del presociale, dell’emarginato, del preglobale o
non so più che cosa. In ogni caso è qualcosa che non può essere
rappresentato ma deve essere reso invisibile.
Questo cosa comporta?
Allora succede che per essere accettato devi mostrare, fino all’eccesso,
di esserti lasciato completamente alle spalle, di aver reciso
ogni cordone ombelicale con il tuo passato, con le tue origini. Devi
morire come banliuesard e rinascere come individuo. Questo è
un gioco al quale alcuni si sono prestati. Ora tutta la loro vita è un
continuo cancellare tutto ciò che sono stati. Si vergognano delle
loro origini, non mettono praticamente più piede in banlieue e
quando parlano di noi dicono: quelli
là. Il loro comportamento è tipico di
tutti i rinnegati. Forse più di altri ci
considerano pure escrescenze e nullità
sociali. Tutto questo ti dice molto
su come delle cose siano cambiate.
La periferia non rappresenta più un
mondo, una realtà con la quale il centro
deve fare i conti ma l’ignoto. Quello
che ha detto Sarkozy, ovvero che
noi siamo un semplice problema di
karcher,di pulizia, stringi, stringi è un
po’ quello che pensano tutti anche se
poi non tutti arrivano alle sue stesse
conclusioni operative. Ma che cos’è
alla fine la banlieue se non il luogo dove
è maggiormente concentrato il lavoro
basso, più mal pagato e meno
appetibile? Che cos’è la banlieue se
non il luogo dove più alto e intenso è
lo sfruttamento? In banlieue vivono
milioni di persone e la favola che le
banlieues siano improduttive, parassitarie,
completamente assistite non
sta in piedi. Vorrebbe dire che in Francia
ci sono milioni di persone che
non producono ricchezza e profitto e
dove starebbero, invece, quelli che la
producono? In quali quartieri abitano?
Dove sono? È vero, le statistiche
indicano nella banlieue il luogo dove
è maggiormente concentrata la disoccupazione
ma è una verità parziale.
In realtà, la banlieue, è il luogo dove è
maggiormente concentrato il lavoro
deregolamentato per cui, il vero paradosso,
è che non c’è nessuno che lavora
tanto quanto chi è ufficialmente disoccupato.
Questo, inoltre, è particolarmente
vero se guardiamo alla popolazione
femminile sulle cui spalle,
in non pochi casi, regge l’intera economia
familiare. Ma questo è il punto.
La banlieue è il luogo dove è concentrata
quella fetta di lavoro che, nelle
società attuali, non ha più alcuna legittimità
e riconoscimento sociale. Il
mito che in un'epoca neppure troppo
distante in molti nutrivano verso il popolo
della banlieue rimandava al riconoscimento
politico e sociale che il lavoro
operaio e proletario aveva nella
società. Oggi è questo a non avere più
alcun riconoscimento anzi a essere
oggetto di pregiudizio e stigmatizzazione.
L’isolamento della banlieue, in
realtà, è l’esatta fotografia delle condizioni
in cui è precipitato il lavoro che
non fa figo. (G. Z.)
IN DIVISA
L’attenzione e le riflessioni delle donne
di banlieue ci restituiscono un quadro
dei «quartieri popolari» francesi
ben distante da quello a cui media,
mondi politici e gran parte dell’intellighenzia
abitualmente ci offrono.
Non solo l’intero movimento dei
banlieuesards si mostra molto meno
«impolitico» di quanto la società legittima
abbia cercato di mostrare ma le
donne,o per lo meno una parte significativa
di loro, sembrano ben distanti
dall’incarnare e accettare un ruolo
mesto e subordinato al «potere maschile
». Anzi, per certi versi, sembrano
proprio loro ad aver colto con non
poca lucidità il «cuore» della contraddizione
individuando nelle trasformazioni
che hanno attraversato l’organizzazione
capitalistica del lavoro il
nodo centrale del problema. Ma le
donne, o perlomeno alcune di loro,
sembrano avere avuto ruoli non secondari
anche all’interno della «questione
militare» aspetto che, secondo
le retoriche maggiormente accreditate
sulle donne di banlieue ha a dir poco
dell’incredibile. Di tutto questo ne
offre un’esauriente ricostruzione Z.,
una giovane francese black della
banlieue di Argenteuil, che ha lavorato
a fondo in questo settore.
Hai avuto un ruolo importante
nell’organizzare e gestire alcuni
ambiti «militari» nel corso
della rivolta. Puoi descrivere, almeno
per sommi capi, i problemi
che hai dovuto affrontare?
Intanto bisogna spiegare un po’ di cose,
altrimenti si finisce con l’avere
un’idea molto falsificata. Noi, ma è
una cosa che credo succeda sempre,
abbiamo dovuto organizzare la guerriglia
combattendo su due fronti:
uno esterno, uno interno. Quello interno,
per certi versi, è stato quasi
più importante dell’altro. Gli sbirri
per colpire con una certa precisione
devono ricevere delle informazioni
ma non solo. In non pochi casi hanno
hanno
anche bisogno di trovarsi il terreno
spianato. Avere, per esempio, persone
che mettono in giro informazioni
sbagliate al tuo interno, per loro,
può essere fondamentale perché ti
induce a muoverti esattamente nella
direzione che loro vogliono. Allo stesso modo ricevere
informazioni su dove
intendi colpire, oppure attraverso
quali percorsi intendi raggiungere
un obiettivo, attaccarlo e sganciarti,
per loro sono informazioni essenziali.
Un’altra cosa importante è ricevere
informazioni sui livelli di organizzazione
raggiunti al nostro interno.
Infine, dovendosi muovere in un territorio
praticamente sterminato come
il nostro, diventa decisivo scoprire
e individuare quali e dove sono i
nostri rifugi e il nostro logistico. Un
lavoro che può essere fatto solo disponendo
di una buona rete di spie e
informatori all’interno dei nostri territori.
Poi, ma questo è un problema
che si è posto in un secondo momento,
abbiamo dovuto misurarci con alcuni
tentativi da parte dei fascisti di
costruire dei gruppi di contro guerriglia
dentro la banlieue. Questa, così
come siamo stati in grado di ricostruirla,
è stata un’iniziativa più ufficiosa
che ufficiale. È partita autonomamente da
alcuni ambienti di estrema
destra della polizia nei confronti
dei quali il potere ufficiale ha fatto finta
di niente. Se funzionavano bene,
altrimenti lui non c’entrava. Le classiche
operazioni sporche che se riescono
bene, altrimenti nessuno ne sa
niente. Ma questo, come ti dicevo, è
avvenuto in un secondo momento e
forse è stato anche il problema minore.
Il vero problema è stato neutralizzare
la rete di spie e informatori il
che, come è forse facilmente intuibile,
non è assolutamente una questione
diciamo tecnica.
Quindi, ha comportato la messa
a punto di una struttura organizzativa
in grado di stanare
spie e infiltrati. Un lavoro non
facile che comporta, per chi se
ne assume l’onere, capacità di
varia natura e, soprattutto, una
stima e un riconoscimento sociale
non indifferente?
Sì, credo che il modo come mi hai posto
la domanda sia quello giusto. Per
fronteggiare una rete di quel tipo è occorso
soprattutto la messa a punto di
una struttura in grado di fare una serie
di mosse. Ma forse è meglio portare
degli esempi piuttosto che affrontare
la questione in modo troppo astratto.
La prima cosa da fare è stata socializzare
l’infinita serie di informazioni
di cui, in maniera frammentata, eravamo comunque
in possesso. Questo
è stato il primo passaggio e non è stato
un semplice passaggio tecnico. Per
arrivare a questo si è dovuto rompere
con la logica di setta che sia le gang
sia alcuni gruppi si portavano dietro.
C’è stata la tendenza da parte di molti
a porsi continuamente come gruppo
autonomo, separato dagli altri che, al
massimo, poteva allearsi con altri ma
senza perdere la propria identità.
Questa è palesemente una cazzata
perché in questo modo non si fa altro
che fare il gioco del nemico che ha
tutto l’interesse a tenerci divisi. Certo,
unirsi non è una cosa che si può fare
semplicemente sommando le varie
realtà come se nulla fosse ma occorre
delineare un ipotesi collettiva nella
quale, le diverse esperienze, si possono
riconoscere. Accanto a questo,
che è il problema di contenitore generale,
ne compare un altro non meno
importante. In realtà la resistenza a
unirsi e a mettere insieme le forze,
non dipendeva solo da ipotetiche differenze
ma dalla resistenza che i piccoli
leader o boss ponevano perché,
in quel modo, vedevano venir meno
il loro micro potere. Il processo di costruzione
di una struttura rivoluzionaria,
se vuole essere tale, non può esimersi
dal mettere in discussione anche
ciò che avviene al tuo interno,
mettendo in luce quanto le logiche
del dominio e del potere hanno fatto
presa anche tra coloro che sono pronti
a battersi contro i dominatori.
Quindi, a partire da un problema apparentemente
tecnico, si sono dovuti
affrontare dei nodi molto più complessi
che hanno posto molti di fronte
alle loro contraddizioni obbligan-
doli, però, a dover compiere delle scelte. Un processo
utile perché ha consentito di fare chiarezza dentro
al movimento facendogli compiere un salto in
avanti.
Dentro tutto questo, il tuo essere donna, ha
comportato dei problemi?
Alcuni. Il problema va posto sotto due aspetti. Il primo
rimanda al fatto che, abitualmente, gli scontri
di strada sono fatti da uomini e ragazzi mentre le
donne ne rimangono per lo più fuori. Questo porta
molti a pensare che ogni questione che ha a che fare
con l’uso della forza sia monopolio dei maschi.
Sarebbe però sbagliato vedere in questo una contrapposizione
tra donne e uomini perché
il vero problema è un altro e ha a
che fare direttamente con la dimensione
politica. Il problema non è la
forza o la violenza in quanto tale ma
l’organizzazione e la gestione politica
della forza. Questo cambia completamente
la cornice in cui l’esercizio della
forza e la sua organizzazione vengono
posti.
Quello che si è dovuto far capire è che
la gestione della lotta che stavamo
conducendo non poteva assumere le
stesse dinamiche degli abituali conflitti
di strada. Si è trattato, e in parte siamo stati
in grado di farlo, di trasformare
e far evolvere una situazione per indirizzarla
verso un modello operativo
molto diverso da quello abituale. A
questo punto il conflitto tra uomo e
donna ha potuto essere smussato perché
il problema reale diventava chi
era in grado di essere direzione di questo
questo
processo. Il confronto è avvenuto
sulle qualità politiche, militari e operative
dei singoli piuttosto che sull’appartenenza
di genere. Se, in molti,
hanno riconosciuto a me e ad altre
questo ruolo direttivo lo hanno fatto
sulla base della stima sociale che, nei
fatti, ci siamo conquistate.
Questo è quanto accaduto in generale.
Poi ci sono state situazioni di tensione
che avevano però una natura
diversa. Alcuni capi gang sono stati
contro di noi, e lì lo scontro a un certo
punto lo abbiamo dovuto affrontare
senza mezze misure, perché
non volevano perdere la loro posizione
di piccoli signori della guerra.
Allora, in quel caso, si è trattato di
sputtanarli davanti ai loro gruppi
mostrandoli palesemente incapaci
di svolgere un ruolo che era ampiamente
più grande di loro.
Quindi, alla fine, in alcuni casi
alle donne è stato riconosciuto
un ruolo non solo legittimo ma
decisionale e dirigenziale?
Sì ma questo perché noi abbiamo
sempre posto la questione sul terreno
della prassi politica. Non abbiamo
detto: noi siamo donne e quindi ci
spetta questo o quello. Abbiamo dimostrato
di essere in grado di organizzare
e gestire un percorso politico
con alcune ricadute militari e su quel
terreno ci siamo confrontate. Non ci
siamo messe a fare discussioni infinite
che non avrebbero portato a nulla
ma abbiamo messo al centro la questione
della prassi.
Non butti giù dal piedistallo un piccolo
boss andandogli a parlare in astratto
di diritti ma lo sbatti a terra e lo calpesti
mettendolo di fronte alle sue responsabilità
e alla palese incapacità
di far fronte a una situazione che ha
perso del tutto la dimensione del micro
micro
conflitto urbano. Quando il problema
diventa fronteggiare lo Stato e
non una qualche gang rivale il gioco
assume contorni che lui neppure riesce
a intuire. A quel punto sei tu che
hai in mano la situazione.
Torniamo a parlare delle spie
di come avete affrontato il problema.
Il problema vero erano gli spioni non
conosciuti e insospettabili. Questi erano
dentro di noi e non sono certo
quelli che se ne vanno in giro con la
coccarda francese. Come saprai, una
parte dell’economia della banlieue è
fatta di micro traffici ed è intorno a
questi che le Bac reclutano la maggior
parte degli infiltrati. Perché è lì
che trovano quelli più facilmente ricattabili.
Allora lì si è trattato di fare
una serie di inchieste al nostro interno
che non sono state sempre facili
anche perché, in una situazione simile,
accadeva che qualcuno, per risolversi
delle questioni personali, dei
vecchi rancori o anche cose molto
più stupide, mirava a screditare altri
bollandoli come spie.
Un lavoro non sempre facile e che, in
alcuni casi, ci ha portato a commettere
degli errori mettendo sotto accusa
persone che, poi, si sono rivelate completamente
trasparenti.
Ma questo ti dà anche l’idea di come,
nel momento in cui scendi sul terreno
dello scontro reale, della prassi e
non ti limiti alle chiacchiere, come
ama fare la sinistra parigina dentro i
salotti, gli scenari con i quali ti devi
misurare siano tutt’altro che semplici
e che, in definitiva, la guerra impari a
farla solo facendola.
Infine il tentativo di colpire il movimento
dall’interno con i gruppi para
militari. Un’operazione che non ha
avuto molto successo perché i tentativi
tentativi
che ci sono stati li abbiamo stroncati sul nascere.
Intanto bisogna dire che in banlieue c’è una forte
propaganda razzista,principalmente anti araba, come
del resto tutti sanno l’arabofobia è una cosa
molto diffusa in Francia, che è portata avanti dai
gruppi di destra legati a Le Pen i quali, in banlieue,
hanno una certa forza, e che possono contare su appoggi
e coperture sostanziose da parte delle Bac. Il
rapporto tra Bac e gruppi nazisti è molto stretto e
per certi versi sono la stessa cosa. Solo che gli uni sono
legalizzati e gli altri ancora no.
Questi gruppi para militari sono stati utilizzati in
due modi. Il primo è stato quello legale che hanno
visto tutti grazie alla televisione e ai giornali. Erano
i sedicenti cittadini che tutti correvano
a intervistare e a riprendere grazie
ad accordi ben precisi presi dalla polizia
con gli organi di stampa e informazione.
In quel caso, i lepennisti, si
mostravano come i bravi cittadini, facendo
intendere di rappresentare la
maggioranza della popolazione della
banlieue che chiedeva il ripristino
della legalità, dell’ordine e la repressione
della rivolta. Come abbiamo saputo
interrogando a lungo uno degli
organizzatori di questa messa in scena
volutamente, i toni tenuti nelle riprese
e nelle interviste, erano improntate
alla moderazione e a quello
che comunemente si definisce il
buon senso del cittadino medio. Erano
tutti discorsi contro la violenza e
che tendevano a mostrare la presa di
distanza da parte della popolazione
dagli incendiari con il chiaro intento
di far apparire la guerriglia opera di
gruppi assolutamente minoritari che
non avevano alcuna legittimazione
all’interno.
Una volta sbandierata ai quattro venti
questa versione, diventava molto
facile andare giù pesante nella repressione.
C’è stata, e questo ti dà anche
un’idea della sostanziale unità che i
vari poteri hanno raggiunto per contrapporsi
a noi, una vera e propria
propaganda di guerra da parte dei
media e degli organi di informazione
nei nostri confronti. Giornali e televisioni
non facevano altro che riportare
interviste ad abitanti delle
banlieues che si dicevano stanchi di
quanto stava accadendo. Questa, nelle
nelle
loro intenzioni, doveva essere l’inizio
di un’operazione a più ampio raggio
che, in un secondo momento, doveva
far entrare in gioco i gruppi paramilitari
camuffati da cittadini che
si mobilitavano per ristabilire l’ordine.
Prima è partita la propaganda
che doveva preparare il terreno di
consenso, poi sarebbero entrati in
azione questi gruppi.
Il progetto, però, non ha funzionato
per almeno due motivi. Il primo è stato
il tempestivo intervento delle forze
militanti che hanno azzerato, attraverso
una serie di azioni mirate, tutti o almeno gran
parte delle basi che i paramilitari
stavano approntando dentro
le banlieues facendo, tra l’altro,un discreto
bottino. Molte cose, molti strumenti
che dovevano servire alla controrivoluzione
sono passati nel logistico
della guerriglia.
Probabilmente le Bac si saranno incazzate
non poco! (Z.)
MINORANZA CONSAPEVOLE
Alla fine del viaggio, l’immagine della
donna di banlieue ne esce non poco
diversa da quella che la società perbene
e rispettabile si è continuamente
affannata a fornirci. Le banlieuesards
non solo sembrano perfettamente in
grado di prendere la parola in pubblico
ma lo fanno con una lucidità e
una consapevolezza che difficilmente
trova riscontri analoghi tra la popolazione
di genere maschile.
Certo, queste donne, sono pur
sempre una «minoranza» ma non è
questo il problema. Centrale, piuttosto,
è il grado e il livello di legittimità
e autorevolezza sociale che
queste «minoranze» possono vantare.
Del resto, sembra il caso di ricordarlo,
a prendere la Bastiglia secondo
Adolphe Thiers non furono in
più di settecento.