L’ombra scura dei guerrieri
- Subject: L’ombra scura dei guerrieri
- From: "Conques" <conques at alice.it>
- Date: Sun, 17 Dec 2006 11:53:55 +0100
Alias (Manifesto del sabato) – 16.12.06
L’ombra scura dei
guerrieri -
Emilio
Quadrelli La
guerra è tornata a essere l'elemento costitutivo e costituente del «nuovo ordine
internazionale». Nessuno, dotato di un minimo di buon senso e di un approccio
alla realtà non infarcito da bizzarrie, può sognarsi di negarlo. Condizione
necessaria e sufficiente, perché la guerra possa essere «concretamente» messa a
regime, è la produzione di una macchina combattente, efficace ed efficiente in
grado di interpretare al meglio il canovaccio che la guerra prevede. Se
logistico, infrastrutture, armi più o meno sofisticate ecc. costituiscono un
ruolo determinante nella messa a punto della macchina guerriera, il terminale di
tutto ciò non può che essere il soldato. Perché vi sia guerra deve esistere ed
essere predisposto colui che questa tecnica prende tra le mani, e trasformi il
suo potenziale di morte in distruzione concreta e reale. Questo è tanto più vero
se, come le guerre in corso stanno ampiamente dimostrando, la loro natura
asimmetrica costringe a rivedere le rosee ipotesi che la guerra high-tech aveva
da tempo formulato e i combattimenti terrestri tornano ad assumere un ruolo
preponderante, per non dire decisivo, all'interno dei vari scenari bellici. I
combattimenti terrestri presuppongono, è ovvio e al limite del banale, l'esistenza di un tipo umano che conviva
abitualmente con l'idea della morte, che deve preferibilmente dare ma anche in
qualche modo essere pronto a subire. Comunque li si voglia ridenominare:
portatori di pace, garanti dei diritti umani, civilizzatori, operatori di
polizia internazionale, i soldati sono addestrati, e non potrebbe essere
altrimenti, per uccidere e annientare il maggior numero di nemici possibili. Ciò
è tanto più vero per quelle formazioni militari deputate a fare la guerra in
prima persona, ossia quei reparti che convenzionalmente sono definiti corpi
d'élite, ovviamente si sta parlando delle truppe che combattono sotto un qualche
organismo del mondo occidentale. Nonostante il numero di militari impiegati
nelle guerre in corso raggiunga cifre ragguardevoli, il peso reale dei
combattimenti poggia su numeri di gran lunga inferiori. Ad esempio,
nell'esercito Usa il numero dei combattenti effettivi è grosso modo il 10% della
forza messa in campo. Essere un soldato di «prima linea» è ben diverso
dall'essere un militare impiegato nella gestione del logistico, nell'inevitabile
macchina burocratica che ogni guerra si porta dietro, nella gestione del
servizio sanitario o altro ancora. I gruppi d'élite quindi rappresentano il
paradigma ideale per provare a decifrare il tipo umano di cui le guerre attuali
hanno bisogno. Una facile risposta, al proposito, potrebbe fornirla la
dimensione «esistenziale» o lo«stile di vita» propri delle formazioni d'élite,
con tutti gli aspetti in qualche modo accattivanti in grado di suscitare. In
realtà focalizzare lo sguardo su ciò finirebbe con il raccontarci ben poco sulla
tipologia del soldato attualmente operante sui fronti di guerra, soprattutto un
simile taglio non farebbe altro che restituirci un'immagine del combattente un
po' sempre uguale a se stessa, tanto da farci dubitare se stiamo parlando dei
soldati di oggi o dei protagonisti dell'Anabasi.
Soffermarsi su una certa propensione per l'avventura, fascino non secondario per
uno«stile di vita» poco convenzionale sino ad arrivare a riconoscere il piacere
che sono in grado di fornire situazioni definibili come «adrenalina pura», è
qualcosa che può interessare nella migliore delle ipotesi la letteratura di
genere, ma che, a ben vedere, finisce con il dirci ben poco sulla forma del
nostro soldato. Le stesse ricadute «morali», che una certa linea di condotta
mette in mostra, possono tutt'al più risultare suggestive per quelle quote di
popolazione, ammesso che esistano sul serio, che sono solite scambiare le
pubblicità del Mulino
bianco con
la vita reale. Lo spirito di gruppo ancor prima che di Corpo, che anima e
sovrasta la vita dei militari direttamente coinvolti nei combattimenti, non è
poi così stupefacente, insolita e soprattutto innovativa. Chiunque abbia avuto a
che fare con situazioni in cui a essere in gioco è la pelle, la propria salvezza
o la salvaguardia della propria libertà, sa che tra il gruppo che va in azione
si stabiliscono vincoli e legami solidali tali da andare ben al di là del
generico cameratismo. Quando la vita dell'uno dipende dall'altro,non è poi così
difficile immaginare il tipo di legame
esclusivo e fraterno che si instaura. Allo stesso modo chi è abituato ad
andare in azione tende a considerare il proprio gruppo, e più in generale tutti
i combattenti, come qualcosa a sé che poco o nulla ha a che vedere con il resto
dell'umanità, solitamente soggiogata da vincoli e procedure burocratiche, che
poco si addicono allo spirito «autonomo e anarchico» delle forze combattenti.
Chi sta in prima linea ha una notevole propensione per l'informalità, una certa
avversione verso i rituali e le convenzioni pubbliche, poca stima e rispetto nei
confronti delle gerarchie e autorità designate da una catena di comando
burocraticamente determinata. Più che dal potere burocratico e formalizzato si
sentono attratti e in sintonia con il carisma dei loro comandanti sul campo, con
i quali condividono tutti i rischi dell'azione. Amano il capo militare che li
guida in azione, detestano il graduato che, forte delle sue «scartoffie»,
impartisce ordini e comanda operazioni delle quali, in molti casi, sembra averne
un'idea a dir poco approssimativa. In poche parole non si esce dalle suggestioni
del Campo di Marte. Aspetti che cinematografia e letteratura di genere hanno
sfruttato a piene mani ma che, a ben vedere, non fanno altro che raccontare una
storia un po' sempre uguale a se stessa. Non è soffermandoci sugli aspetti
propri del romanzo d'avventura che possiamo pensare di scoprire le
caratteristiche «particolari» del tipo umano attualmente presente sui campi di
battaglia. Più sobriamente occorre forse guardare la questione sotto un'altra
luce, e partire dalla banale constatazione che il suo mestiere consiste
nell'uccidere. Perché ciò sia possibile è necessario qualcosa di ben diverso da
un imprecisato spirito d'avventura o amore per una vita poco convenzionale. Con
ogni probabilità è il modo in cui viene messo a fuoco il nemico, con tutte le
ricadute del caso, l'elemento in grado di offrire una spiegazione più
convincente, ma non solo. Se la messa a fuoco del nemico deve essere una
percezione certa e tale da rendere insignificante il tabù dell'omicidio, non
meno decisivo appare il modo in cui, «concretamente », questo nemico è
rappresentato perché sulla base di ciò prende forma anche il non secondario
aspetto di come lo si affronta, nel bene e nel male. Ed è qua che il nodo di
Gordio delle guerre attuali può essere sciolto. Per quanto professionalizzato e
trasformato in una «macchina da guerra», come la formazione degli eserciti di
professionisti tenderebbe a presentare, il soldato agisce sulla base di
motivazioni «forti» e sarebbe al limite della stupidità domandargli di mantenere
un tratto «avalutativo» nei confronti del suo operato. Se c'è una professione
che mal si addice al modello weberiano questa è il mestiere del soldato. Per
combattere ossia, fuor di metafora, uccidere ed essere uccisi, è necessario che
entri in gioco qualcosa che ha necessariamente a che vedere con i «valori
ultimi». Se un fucile può funzionare in maniera indistinta e per questo
abbisogna solo di una buona e accurata manutenzione, al soldato non è
sufficiente essere ben oliato, deve essere ottimamente motivato. Il modo in cui
si autorappresenta il nemico diventa pertanto fondamentale. Le parole di un
«professionista» che ha operato in alcune missioni ne sono un'ottima
esemplificazione. Tu
hai partecipato ad alcune missioni di pace. Con quale spirito le hai affrontate?
Intanto
cominciamo col dire una cosa: in qualunque modo la cosa può essere presentata,
tutti noi sappiamo che quello che ci aspetta è di andare in guerra. Come viene
presentata è una cosa che, per convenienza loro, i politici la raccontano come
gli viene meglio, ma come vanno sul serio le cose è tutto un altro discorso. Noi
partiamo sapendo quello a cui andiamo incontro e con chi e che cosa avremo a che
fare. Sappiamo che, in ogni caso, ci troveremmo di fronte un nemico spietato e
barbaro che combatte per distruggere il nostro mondo e la nostra civiltà. Forse
sarebbe più giusto dire che le nostre sono missioni di pacificazione piuttosto
che di pace. Si che sono palesemente ostili verso tutto ciò che noi
rappresentiamo e che non accettano di stare al loro posto. Tu sai che quelli non
sono come te, sono altre razze, altre culture, altri modi di vedere il mondo,
sai soprattutto che sono inferiori a te ma questo non vuol dire che non siano
pericolosi. Anche i topi e gli scorpioni possono uccidere. La nostra
superiorità, che ancora prima che militare è morale e culturale, non è neppure
in discussione, per questo non possiamo che vincere, ma questo non vuol dire che
le operazioni di pacificazione siano una passeggiata. Anzi, questo l'ho imparato
direttamente sul campo, la guerra contro questo nemico è molto più dura di
quanto onestamente mi sarei aspettato. Il problema è che sono come delle bestie
feroci e sono in grado di sopportare condizioni a noi inimmaginabili. Me ne sono
reso conto guardando a come reggono agli interrogatori. Hanno la stessa
resistenza al dolore delle bestie e questo ti dice quanta differenza ci sia tra
noi e loro. Sono capaci di bere litri di acqua sporca come se fosse Coca Cola
oppure lasciarsi scorticare lanciando dei mugolii che mi ricordano quelli dei
gatti quando da piccolo li prendevo e li scorticavo vivi, ma senza piegarsi. Non
si tratta di eroismo, perché loro non sanno neppure cosa possa voler dire essere
degli eroi, semplicemente il loro grado di sopportazione è la palese
manifestazione della loro somiglianza alle bestie. Eppure
le immagini, specie dal Kosovo e dall'Afghanistan, vi mostrano mentre fornite
cibo, mentre costruite scuole, ospedali e date aiuto alle popolazioni. Non è un
po’ in contraddizione con quanto affermi? Quelle
sono messe in scena per la stampa. Si prende una zona non troppo devastata si
radunano un po' di civili che, in cambio di qualche cosa, mangiare, due
spiccioli, la concessione di qualche privilegio, si prestano a recitare quelle
parti. Quando in alcuni casi ci sono riprese in prima persona e pezzi di intervista , si tratta di
civili che lavorano per noi e che la maggioranza della popolazione odia ancora
più di noi perché li considera dei traditori. Appena ne hanno l'occasione gli
fanno la pelle e se possono gli fanno anche rimpiangere di essere nati. Di
civili ammazzati immagino che ne leggi tutti i giorni, ma sentirai parlare solo
di quelli uccisi dai loro connazionali, non di quelli che facciamo fuori noi,
anche perché se no non ci vorrebbe un giornale ma un'enciclopedia.
Che
rapporto c’è tra voi e i civili? Intanto
bisogna dire che, dal nostro punto di vista, non esistono civili. Noi partiamo
dal presupposto che quelli che ci troviamo di fronte sono tutti nemici. Che ci
sparino addosso, piazzino le bombe o siano pronti a tenderci un'imboscata o
lavorino per i terroristi dandogli appoggi, informazioni, nascondendoli,
procurandogli cibo e medicinali ha poca importanza. Solo gli stupidi, o chi non
c'è stato, può pensare che operiamo in luoghi dove siamo amati e benvoluti,
quasi che non aspettassero altro di averci lì. Si vive in una situazione di odio
reciproco dove è normale diffidare anche di quelli che fanno le spie per te. Non
è scontato che non stiano facendo il doppio gioco. Perciò non si può parlare di
un rapporto con i civili. L'unico rapporto possibile è quello che c'è tra la
forza che noi imponiamo e la loro disponibilità o meno a sottomettersi e a
riconoscerla. Forse gli unici civili che stanno con noi sono gli uomini legati
al governo. Questi, grazie a noi e agli interessi politici che ci sono nel
tenerli in piedi, si stanno facendo i sacchi. In quelle zone ci sono traffici di
tutti i tipi e i governativi si prendono la loro stecca. Che
tipo di traffici? Dipende
dai posti. In alcuni prevale la droga, specie in Afghanistan, nei Balcani armi,
donne, operai. E poi c'è il grande business degli aiuti umanitari, che finiscono
nei depositi gestiti dalle forze militari e poi sul mercato nero. Sono tutti
traffici in cui i governativi ci sguazzano. In
cosa consiste il business degli operai? Dipende.
Nei Balcani si tratta di reperire forza lavoro a prezzi bassissimi per gli
imprenditori che si sono precipitati in quelle zone. C'è una richiesta
fortissima e noi la soddisfiamo con i rastrellamenti. Andiamo in una zona,
portiamo via tutti quelli in buone condizioni e li trasferiamo nei centri di
raccolta da dove vengono smistati. I centri sono gestiti a volte dalle polizie
private degli imprenditori o da gruppi criminali locali. In altre zone,
soprattutto in Iraq, la raccolta degli operai è fatta per metterli a lavorare
per le industrie che interessano agli inglesi e agli americani. Nell'area
balcanica sono traffici privati che gli organismi ufficiali conoscono e
tollerano ma senza entrarci direttamente, in altri posti sono invece
direttamente gestiti dagli apparati. Quindi
questo comporta un modello di relazione con le popolazioni civili
particolarmente teso? Intanto
ti ripeto che non ci sono militari e civili ma ci siamo noi e ci sono loro.
Questa è la distinzione dalla quale devi partire. Questa non è una guerra come
quella dei film, questa è la guerra vera ed è tra noi e loro. Non c'è niente che
non riconduca alla guerra. Traffici a parte, che sono delle cose che ognuno si
vede un po' per conto suo, d'altra parte siamo lì anche per difendere il diritto
alla libera iniziativa, cibo e medicinali li usiamo per tenere sotto pressione
le popolazioni e costringerle a collaborare. Hai fame? Ti diamo delle scorte
alimentari se ci dici tutto quello che sai o hai sentito dire sulla guerriglia.
Tuo figlio sta male? Lo curiamo ma tu in cambio ci fai questo favore. Ecco,
funziona un po' tutto così. Poi quella è gente non diversa dagli animali e al
massimo li puoi trattare come un animale un po' addomesticato. Ma questa è una
cosa che sanno tutti perché sono come gli extracomunitari che ci sono anche
qua. Lo
spirito di conquista unito a una radicata convinzione di essere e rappresentare
un grado umano superiore, che giustifica ampiamente fino a legalizzarla la
dominazione, sembra il frame «culturale» che informa il nuovo combattente. Un
aspetto che diventa più che evidente attraverso le parole di un altro
appartenente alle truppe combattenti, specializzato in operazioni di
controguerriglia psicologica. Una strategia il cui scopo è annichilire sul
nascere qualunque tentativo di resistenza da parte delle popolazioni prese in
cura e creare un totale asservimento allo strapotere messo in campo dagli
«operatori umanitari». In
cosa consiste la controguerriglia psicologica della quale, per altro,
ufficialmente nessuno ha mai
sentito parlare? Questo mi sembra abbastanza normale,
semmai dovrebbe far scalpore il contrario. L'idea che i non addetti ai lavori
hanno in genere della guerra è quella vista al cinema o alla tv, con i film
della seconda guerra mondiale. Da tempo quel tipo di guerra non esiste più. È
normale che almeno il 70% delle operazioni belliche siano oscurate o addirittura
ufficialmente non compaiano da nessuna parte. Si tratta di operazioni coperte,
così come tutta la conduzione della guerra è in qualche modo sotterranea. È vero
per la controguerriglia psicologica così come per tanti altri aspetti. Per
esempio le operazioni di bonifica. Raramente se ne sente parlare e, quando
capita, le si fanno passare per operazioni contro postazioni ribelli. In realtà
le battaglie ufficiali, quelle contro insediamenti della guerriglia, sono solo
una piccola parte di quanto avviene sul campo, anche se sono le uniche
continuamente mostrate. Questo perché, essendo le più vicine alla dimensione
classica della guerra, sono quelle più facilmente mostrabili all'opinione
pubblica. E anche queste, in ogni caso, sono mostrate in modo un po' ridicolo
perché sono sempre preorganizzate. Le riprese non avvengono mai in diretta ma
sempre dopo. Così si può preventivamente selezionare il materiale video e, se ci
fai caso,non si vede mai il campo di battaglia a operazione conclusa ma sempre
in una fase iniziale. Altre volte si tratta di riprese del tutto simulate dove
qualcuno recita la parte dell'assaltatore
e, senza essere inquadrato, qualcuno spara qualche colpo fingendo di
essere della guerriglia. Tanto è vero che non si vedono mai le armi che vengono
usate negli assalti. Ti
riferisci al fosforo bianco? A
quello ma non solo. Il fosforo bianco è quello che ha fatto più scalpore
semplicemente perché tutti ne sono venuti a conoscenza ma per arrostire i
terroristi i modi sono tanti, ovviamente non possono essere mostrati. Anche
questo, in realtà, è una parte del lavoro di controguerriglia psicologica. Un
lavoro che consiste nel rendere impensabile, tra la popolazione, l'idea stessa
di poter resistere o mostrarsi semplicemente ostili. La controguerriglia
psicologica ha lo scopo di annientare la volontà del nemico. Non lasciargli
speranze. Al
di là di tutto, quelle in cui siete impegnati sono missioni di guerra a tutti
gli effetti che si potrebbero addirittura considerare come guerre totali?
Ma
vedi, bisogna un po' capire come funzionano le cose altrimenti si finisce con
l'avere un'idea del tutto sballata delle guerre in cui siamo impegnati. Il primo
problema che devi affrontare è far capire chi comanda. Devi togliere a quella
popolazione ogni punto di riferimento e azzerare qualunque tipo di autorità, di
qualunque tipo. Devi fargli capire che la loro vita e la loro morte dipendono
solo da te che loro non sono niente. Che tu puoi tutto e loro niente. Questa è
la prima fase, quella dove devi agire a tappeto. Non colpisci qualcuno perché è
sospettato di qualcosa ma semplicemente perché sta lì davanti a te. Tu sei il
suo padrone e lui il tuo servo. I modi sono tanti. La tecnica del gioco del
bowling è uno di questi. Non devi esagerare però come impatto iniziale dà dei
buoni effetti. Vai in giro con il blindato e ti scegli un obiettivo a caso e poi
cominci a corrergli dietro. A volte,dopo averlo fatto correre un bel po' lo
lasci andare, altre lo schiacci e lo lasci spiaccicato come una formica. Questo
è l'obiettivo. Nei tuoi confronti devono sentirsi impotenti come degli insetti,
capire che tutto dipende da te e che loro non hanno alcun diritto e possibilità
di opporsi. Un altro sistema importante è la violenza verso le donne davanti
agli uomini della famiglia. Fare fottere la moglie, la madre o la sorella da 5-6
militari davanti ai maschi della famiglia è un modo per fargli perdere
completamente l'autostima e farli regredire in uno stato catatonico dal quale
non si riprendono più. Un altro sistema è quello di mitragliare, mentre passi,
senza alcun motivo i passanti. Cioè, senza farla troppo lunga, la prima fase è
quella del terrore. Non è selettiva ma serve a far capire chi guida le danze.
Poi ci sono quelle maggiormente mirate. Un lavoro importante è la continua ridicolizzazione dei loro
simboli che, a seconda dei casi, possono essere nazionali o religiosi. Le storie
sul Corano, che ormai sanno tutti, sono una di queste tattiche. In questo modo,
colpendo i simboli a cui si sentono maggiormente legati, se ne intacca la
fiducia in profondità. Devi tenere presente che hai a che fare con gente che non
è come noi, è molto più facilmente impressionabile e molto più attaccata a certe
cose, sono un po' dei creduloni e se gli fai rotolare nel fango i simboli a cui
loro danno tanta importanza, per loro è uno choc che li annichilisce.
Testimonianze brevi ma sufficienti a raccontare pur qualcosa di quanto accade in
giro per il mondo. Tuttavia, almeno un altro punto di vista, è parso il caso di
ascoltarlo. In un'epoca in cui le battaglie per le «pari opportunità» suscitano
passioni quasi incontrollate, la presenza di una «voce femminile » è per lo meno
doverosa. S. è una giovane militare che aspira a diventare «forza combattente».
A breve sarà in discussione un provvedimento legislativo, sacrosanto, che
dovrebbe togliere l'ultimo tabù presente nelle forze armate, che inibiscono la
partecipazione delle donne ai reparti d'élite. Un divieto non solo ingiusto ma
del tutto privo di senso visto che, dove impiegate, il «valore combattente»
delle donne si mostra di solito più elevato di quello dei colleghi maschi e la
loro determinazione operativa sovente è di gran lunga superiore a quella dei
commilitoni dotati di fallo. Del resto i manuali di contro - guerriglia Nato,
nel caso di attacco a una formazione terroristica, suggeriscono che se il gruppo
operativo individua delle donne tra le forze avverse queste devono essere le
prime a essere eliminate o neutralizzate perché, di solito, si rivelano le più
ostiche oltre a essere le meno disponibili a negoziazioni o rese. Qualcosa vorrà
ben dire. In attesa del provvedimento legislativo S. si prepara con puntiglio ai
test attitudinali ai quali sarà sottoposta. La passione per la guerra, anche se
una certa predisposizioni per attività che le logiche di senso comune
considerano poco femminili le ha coltivate da tempo, è maturata dopo la visione
di Soldato Jane. Un fatto non proprio sorprendente che mostra quanto, nei nostri
mondi, il rapporto tra fiction e realtà sia a dir poco tenue e come tra le due
vi siano continue contaminazioni. Del resto, come ha ricordato Tommaso Buscetta,
gli uomini di Cosa Nostra iniziarono a indossare abitualmente gli occhiali da
sole scuri, ascrivendoli a segno distintivi degli «uomini d'onore», solo dopo
l'uscita de Il
Padrino.
Il punto di vista che l'aspirante combattente a tutto tondo esprime è, almeno
tra la sintetica carrellata di testimonianze proposte, quella che con ogni
probabilità è in grado di riscuotere a piene mani consensi bipartisan.
Come
nasce la tua vocazione per la carriera militare? Fin
da piccolo sono sempre stata attratta dall'idea di intraprendere una carriera
alla quale, di solito, le donne non aspirano o sono sconsigliate dal farlo. Dopo
aver visto Soldato
Jane questa
sceltami si è materializzata davanti. Mi sono identificata in lei e ho iniziato
la mia personale battaglia per raggiungere quello scopo. Ho deciso di entrare
nell'esercito e mi sto preparando a coronare il mio sogno: diventare effettivo
di un'unità operativa. Come
consideri il veto che è ancora posto alle donne nei confronti di questa
professione? Esattamente
un'ingiustizia e per più motivi. Soprattutto considero una contraddizione in
termini negare l'accesso alle donne a una professione solo perché donne, senza
tenere minimamente presente che, l'idoneità al combattimento,non può essere
risolta in termini generali ma particolari. È una scelta selettiva che deve
tenere conto delle attitudini individuali le quali, con l'appartenere a un
genere piuttosto che a un altro hanno ben poco a che fare. In più questo
contraddice palesemente i valori per cui il mondo libero si sta battendo e per i
quali io credo sia fondamentalmente giusto combattere senza tentennamenti. La
guerra che giustamente stiamo combattendo contro il terrorismo globale è
condotta in nome di quanto ci è di più caro: la libertà individuale, una società
fondata sulla meritocrazia e quindi sulla libera concorrenza di tutti gli
individui e la loro concreta possibilità a misurarsi nelle sfide della vita, una
società non schiacciata in basso ma che consente a ciascuno di farsi valere per
ciò che è. Quindi impedire a priori a una donna l'accesso alle unità combattenti
lo trovo in aperta contraddizioni verso tutto ciò in cui crediamo.
Fortunatamente il buon senso sembra che stia per prevalere e le selezioni
saranno basate unicamente sui test che ogni candidato dovrà affrontare. A quel
punto penso di potermela giocare fino in fondo. Quindi,
se tutto andrà per il meglio, tra non molto potresti essere schierata in prima
linea in zone di guerra. Con quale spirito ti accingi a farlo? Con
lo spirito e la certezza di essere dalla parte del giusto. Per combattere, dato
per scontato la necessità di un'adeguata preparazione e di una manifestata
idoneità a reggere il conflitto sul campo, occorre una motivazione. Una
determinazione che non puoi certo trovare solo nella consapevolezza di saper
fare bene il tuo mestiere. Fare il soldato non è come andare a fare l'impiegato
in comune, non puoi non sentirti coinvolto in ciò che fai. Quindi la motivazione
che ti spinge a combattere finisce con l'avere un peso fondamentale.Tu sai che
vai a uccidere, perché poi è inutile girarci tanto in giro, la guerra è questa:
uccidere il nemico e non è una cosa che puoi fare senza aver chiaro chi è e
perché lo stai per annientare. Se così non fosse, non saresti più un soldato ma
un killer a pagamento e noi militari non siamo certo degli assassini prezzolati.
Quindi, questa non è una cosa solo mia sia chiaro ma è ciò che nell'esercito si
dice con molta chiarezza, l'idea di contro chi ci battiamo è molto chiara e del
perché ci battiamo ne siamo non solo coscienti ma orgogliosi. Sotto certi
aspetti, la guerra attuale, è un po' la continuazione della guerra contro il
comunismo. Anche adesso si tratta di liberare il mondo da un modello totalitario
che schiaccia gli individui e li trasforma in semplice massa di manovra. Un
nemico che vive e prospera, non diversamente dal comunismo, sull'ignoranza e
l'azzeramento dell'individualità alla quale, per di più, aggiunge il fanatismo
religioso e un modello di società organizzato per caste. Tutto ciò contro il
quale le società occidentali si sono da sempre battute. Quindi
è un nemico a dir poco assoluto nei confronti del quale non è pensabile un
riconoscimento di pari dignità? No
questo mi sembra del tutto impensabile. La guerra in corso non è condotta contro
un esercito simile al tuo, a cambiare non è il colore di una divisa ma due idee
del mondo e della vita totalmente diverse. Da una parte c'è la civiltà, il
benessere, la libertà dall'altra barbarie, fanatismo, tribalismo. È uno scontro
tra due mondi.Da una parte l'Occidente progredito, intraprendente e civile,
dall'altra popolazioni il cui sviluppo si è attestato a livello inferiore dando
forma a società obiettivamente inferiori alle nostre. Credo che, sulla base di
quanto la storia ha dimostrato, l'Occidente può vantare a pieno titolo una
supremazia su queste popolazioni e non può e non deve tollerare di essere
minacciato da queste. In gioco c'è il modello di vita occidentale, al quale non
possiamo e aggiungerei non vogliamo rinunciare in alcun modo. Quindi
contro questo nemico non ci sono e non ci possono essere mezzi termini?
Senza
voler scandalizzare nessuno anche se ultimamente non sono in pochi a parlarne in
positivo, penso che nei confronti di queste popolazioni, non solo per la nostra
sicurezza ma anche per il loro benessere, il colonialismo non sia poi una
soluzione così detestabile. A quale stadio di civiltà sarebbero molti popoli se
non avessero potuto usufruire dei benefici del colonialismo inglese o francese?
In quali condizioni sarebbero precipitate intere aree del mondo se, anni
addietro, gli americani con i loro interventi a tutti i livelli non fossero
intervenuti per bloccare l'espansione comunista? Cosa sarebbero diventate queste
popolazioni se le avessimo lasciate da sole? Credo che queste sono le domande
alle quali noi, e come soldati per primi, siamo chiamati a rispondere. Allora mi
chiedevi qual è il limite da adottare nei confronti di questo nemico? La
risposta non è complicata. Nessun limite nei confronti delle forze ostili e al
contempo un graduale inserimento di quella parte di popolazione che si mostra
più adatta o adattabile ai valori del mondo occidentale. Credo che la nostra
missione sia essenzialmente una missione di civilizzazione ma non puoi
civilizzare un posto se prima non hai eliminato la teppa che lo infesta. E il
nemico che combattiamo non merita un riconoscimento e una stima diversa da
quella che riserviamo al teppista di strada. Per questo prima è necessario
bonificare in profondità il territorio A
qualunque prezzo? Non
si possono fare le frittate senza rompere le uova. Al di là degli aspetti più truci e sanguinari quanto raccontato nelle interviste è meno eccezionale di quanto potrebbe apparire, e il tipo umano messo in forma dagli scenari bellici contemporanei, ben lungi dall'essere l'aporia del nostro tempo, non fa che incarnare fino alle estreme conseguenze il tipo umano comunemente riscontrabile nei nostri mondi. Il modo in cui si combatte è lo specchio, forse solo leggermente ingigantito, di un modello socio-culturale condiviso. In un'altra epoca Ernest Junger tornò deluso dai Lidi africani scoprendo che la forma guerra era facilmente riscontrabile nella «fabbrica», e che le differenze tra il legionario e l'«operaio » si riducevano al sottile alone di «romanticismo» necessario alla Legione per continuare a vendere il suo prodotto. Non diversamente, oggi, le retoriche che animano i corpi d'élite sono la prosecuzione operativa del processo di svalutazione dell'altro, abitualmente messo in circolo nei nostri mondi, e la guerra non sembra essere altro che l'estensione della guerra quotidianamente combattuta contro i «clandestini ». Basta pensare al numero di cadaveri «clandestini» di cui i mari delle nostre coste, militarmente presidiate, fanno abitualmente incetta. Morti senza volto, per nulla diversi dai corpi profanati, torturati, bruciati e stuprati nelle varie zone di guerra e per di più totalmente inermi. A loro non è concessa neppure la carta estrema del «suicidio combattente» come, nel caso dei «kamikaze», la guerra asimmetrica sembra concedere a molti popoli come forma ultima di resistenza. Con estrema semplicità e senza alcun clamore muoiono ingoiati dai flutti. Uno spettacolo che ciascuno può gustarsi seduto in poltrona insieme al suo corollario: il trasferimento dei sopravvissuti nei lager. In poche parole bisogna pur riconoscere l'assenza di enfasi quando, rivolgendoci ai nostri soldati combattenti, li apostrofiamo benevolmente come «i nostri ragazzi». In effetti stanno facendo, senza se e senza ma, ciò che noi gli abbiamo chiesto e, al di là delle loro esperienze estreme, quel tipo umano è lo stesso che ritroviamo ogni giorno guardandoci allo specchio. Siamo partiti con non poco entusiasmo per andare alla ricerca di un particolare tipo umano, ma con non poca delusione siamo giunti a una scoperta stupida e terrificante, la stessa alla quale era pervenuta Arendt in uno dei suoi scritti più suggestivi: dietro l'orrore dell'olocausto e della tragedia nazista non vi era nulla di eccezionale ma la prosaica banalità del male dell'uomo qualunque. La nostra banalità. --~--~---------~--~----~------------~-------~--~----~ Hai ricevuto questo messaggio in quanto sei iscritto al gruppo Gruppo "liberipensieri" di Google Gruppi. Per mandare un messaggio a questo gruppo, invia una email a liberipensieri at googlegroups.com Per annullare l'iscrizione a questo gruppo, invia un'email a liberipensieri-unsubscribe at googlegroups.com Per maggiori opzioni, visita questo gruppo all'indirizzo http://groups.google.it/group/liberipensieri?hl=it -~----------~----~----~----~------~----~------~--~--- |
- Follow-Ups:
- Re: [pace] L’ombra scura dei guerrieri
- From: magius <gmagius at gmail.com>
- Re: [pace] L’ombra scura dei guerrieri
- Prev by Date: Peacepalestine UPDATE and summary
- Next by Date: Re: [pace] L’ombra scura dei guerrieri
- Previous by thread: Peacepalestine UPDATE and summary
- Next by thread: Re: [pace] L’ombra scura dei guerrieri
- Indice: