appello comitato ritiro delle truppe
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- Date: Fri, 8 Dec 2006 11:30:51 +0100
APPELO DEL COMITATO
PER IL RITIRO DELLE TRUPPE:
La strategia di
aggressione, economica, politica e militare portata avanti dalle grandi potenze
occidentali contro quei paesi e quei popoli che non sono disposti a
sottomettersi ai loro diktat continua a produrre rapina, miseria, sfruttamento e
distruzioni inenarrabili. Nessuno strumento
viene tralasciato per normalizzare chi si oppone e per ottenere il consenso
delle proprie popolazioni al crescente militarismo ed interventismo: dal ricorso
ad oscene campagne mediatiche, al sostegno a quelle tendenze politiche disposte
a vendersi al miglior offerente trasformandole nei veri rappresentanti in loco
della democrazia; dal ricorso (direttamente o per interposta persona) ad atti
terroristici fino al finanziamento di Ong compiacenti che facciano da
battistrada alla azione militare vera e propria, sotto le spoglie di Intervento
Umanitario come successo nella ex-Jugoslavia o in Somalia.
Quando questi mezzi
falliscono si passa all'aggressione militare diretta, pudicamente battezzata
Operazione di Polizia Internazionale, tanto meglio se condotta sotto le insegne
di un accondiscendente ONU, come si è fatto in Afghanistan ed Iraq.
In questi casi non si
esita a fare ricorso da parte degli eserciti invasori ad armi di distruzione di
massa vecchie e nuove di potenza inaudita e con conseguenze soprattutto sulle
popolazioni civili. Il Libano è l'ultimo
episodio di tale strategia dove si è fatto ricorso ad un miscuglio di tutti
questi strumenti: dal sostegno alle fazioni filo-occidentali, all'attentato
contro uno dei suoi rappresentanti in loco per estromettere la Siria dal paese e
sostituirsi ad essa, per marginalizzare le correnti di opposizione più radicali
agli interessi euro-americani in Libano; dalla pretestuosa aggressione militare
condotta dallo stato di Israele, al successivo invio di una missione militare
sotto insegne ONU tanto equidistante da darsi come compito il disarmo degli
aggrediti e l'insediamento sul loro territorio libanese. Un altro quadrante su cui si stanno addensando le mire aggressive dell'occidente è il Darfur (Africa) dove - in vario modo, utilizzando ipocritamente l'emergenza umanitaria - è in corso un opera di manomissione politica, finanziaria e diplomatica mirante a favorire un nuovo interventismo bellico. NON SOTTOVALUTARE
PIU’ L'EUROPA SUPERPOTENZA
La vicenda libanese
evidenzia il tentativo europeo di giocare un ruolo di maggior protagonismo nello
scenario internazionale, approfittando anche delle difficoltà intervenute nella
politica statunitense. L'Europa è divenuta la
seconda potenza economico-finanziaria con la nascita dell'Euro e deve crescere
sul piano del peso politico, pur tenendo conto degli interessi particolaristici
delle varie politiche nazionali. Di conseguenza punta
ad emergere non solo come potenza politica ma anche di tipo militare
proporzionata al peso conseguito sul piano economico. Per tale motivo il
complesso militare assume un aspetto decisivo sia come propulsore dello sviluppo
economico, sia come comparto strategico nell'ambito della competizione globale
che si delinea tra le maggiori potenze mondiali. Questa politica
neocoloniale, pudicamente definita di mantenimento dell'ordine e della pace
mondiale, mentre vede le grandi potenze occidentali sostanzialmente unite nella
politica di spoliazione verso i paesi periferici, evidenzia nel contempo una
crescente competizione per stabilire privilegi e aree di competenza nella
migliore tradizione imperialistica. LE AMBIZIONI E IL
NUOVO RUOLO DELL'ITALIA Il rinnovato
protagonismo dall'Italia nelle relazioni diplomatiche quanto il crescente
interventismo militare, l'incremento delle spese militari, da molti inaspettato,
come previsto dalla Finanziaria del 2007 di Padoa Schioppa - non solo per
sovvenzionare le missioni all'estero ma anche per la dotazione di nuovi
armamenti sempre più offensivi -, la riconferma e l'ampliamento dell'alleanza
militare della NATO (in teoria funzionale ad un'altra epoca storica) quale
strumento attraverso cui oggi veicolare l'affermazione delle proprie esigenze
geopolitiche, dovrebbero eliminare ogni dubbio sulla natura della politica
estera del governo e sugli interessi sociali di cui è
espressione. Questo governo si
distingue da quello di Berlusconi per una tendenza più multilateralista in
politica estera e nelle alleanze internazionali ma è, se possibile, ancora più
determinato a tutelare sullo scacchiere mondiale gli interessi specifici
dell'azienda Italia in collaborazione e/o in competizione con le altre potenze
mondiali. La somma delle
tendenze italiane ed europee sta innescando una pericolosa spinta verso la
militarizzazione che non riguarda solo l'aspetto della industria bellica come
settore di investimento certo o le azioni di "polizia" internazionali ma produce
conseguenze interne molto pesanti. Infatti gli interventi
militari all'estero hanno bisogno di un forte sostegno ideologico all'interno
del paese e questo porta inevitabilmente, come la storia ha dimostrato più
volte, verso una drastica riduzione della democrazia e della dialettica sociale
interna. La campagna mediatica
che è stata fatta attorno alla manifestazione del "Forum Palestina" del 18
novembre scorso è un esempio di come si concretizza una operazione ideologica
attorno a fatti inesistenti e questa volta in modo bipartisan.
DAL PACIFISMO AL
MOVIMENTO CONTRO LA GUERRA
Il movimento pacifista
sviluppatosi negli scorsi anni anche nei paesi occidentali ha espresso una vasta
protesta contro la politica dei propri governi, ma è poi rifluito per il
prevalere della sfiducia di poter sconfiggere tale politica, per l'assuefazione
alla guerra come dato immodificabile di questa fase, ma anche dalle parzialità
politiche contenute nella sua opposizione alla guerra. Troppo spesso infatti
si condannavano le politiche dei propri governi non tanto per gli obiettivi che
questi dichiaravano di voler perseguire, ma per i brutali metodi utilizzati per
realizzarli; in altri casi si è accettata la chiave di lettura secondo cui vi
era una guerra quasi paritaria tra contendenti che si trattava di ricondurre
alla pace quasi con una equidistanza al di fuori e al di sopra dello scontro in
atto, se non per la forte componente di commiserazione e di condanna per le
vittime di tale guerra. Ma quando questi
soggetti hanno cominciato a dimostrare di non accettare solo il ruolo di vittime
passive e di volersi anzi difendere, quell'atteggiamento pietistico è andato in
difficoltà nell'accettare questa nuova situazione e nel doversi schierare in uno
scontro che per quanto sproporzionato non era più a senso unico. In Italia tale
difficoltà si è rafforzata con la vittoria elettorale dell'Unione Prodiana che
aveva tra i suoi sostenitori diretti o indiretti buona parte degli organismi e
delle figure di riferimento di quel movimento, determinando quella che per
comodità sintetica definiamo “sindrome del governo amico”, ma che produce
paralisi, disorganizzazione e depotenziamento di qualsiasi tentativo di
mantenere un'opposizione autonoma ed indipendente contro la guerra.
Si tratta di superare
quella sorta di equidistanza tra aggressori e aggrediti, di concentrare la
denuncia e le mobilitazioni contro i promotori diretti ed indiretti della
guerra, di rifiutare qualsiasi missione militare all'estero condotta da tutti i
governi occidentali e da quello italiano in particolare. Che tali missioni
avvengano sotto le insegne della NATO o dell'ONU non ne cambia la natura, come
hanno confermato l' intera vicenda irakena, quella Afghana e quella
Libanese. Le resistenze messe in
atto dalle popolazioni aggredite non sono solo una legittima reazione contro le
aggressioni da cui sono colpite ma, nella misura in cui costituiscono il
principale ostacolo al consolidamento di quella strategia, rappresentano anche
un fattore di incoraggiamento dei movimenti contro la guerra che agiscono nei
paesi occidentali. Le resistenze ridisegnano i rapporti di forza nelle aree del conflitto, determinando oggi uno sconvolgimento delle strategie USA/israeliane di "guerra infinita" e di egemonia nell'area mediorientale, come emerge con chiarezza in seguito alla sconfitta USA in Iraq e a quella israeliana in Libano. DISARMIAMOLI! PER UN MOVIMENTO
REALE CONTRO LA MILITARIZZAZIONE Il principale terreno
di impegno di un movimento reale contro la guerra in questa fase, oltre alla
netta opposizione alle missioni militari all'estero, deve essere, soprattutto,
quello di contrastare le conseguenze delle scelte belliche sui propri territori.
È evidente infatti come il crescente militarismo venga utilizzato per rafforzare
i dispositivi di sicurezza attraverso cui si cerca di limitare l'esercizio dei
più elementari diritti di agibilità politica, sindacale e dell'insieme dei
conflitti sociali. a) E’ ormai prioritaria
dentro l’agenda dei movimenti contro la guerra ma anche dei movimenti sociali e
sindacali, l’ opposizione contro il continuo incremento delle spese
militari e le loro connessioni qualitative (oltre che quantitative) con il
complesso militare-industriale e gli apparati di sicurezza che stanno ormai
conformando anche le priorità economiche e la vita sociale del nostro
paese b) L'impegno dei
movimenti deve concentrarsi contro il complesso delle basi militari, di
tutte le produzioni di morte e di ogni ristrutturazione in chiave offensiva
degli eserciti a cominciare da quello italiano. Infatti è dalle basi militari
che vengono supportate le missioni all'estero e le guerre. Non solo, questi
insediamenti servono anche a giustificare una insopportabile militarizzazione
dei territori su cui sono installate. c) L'altro terreno di
impegno che riteniamo indispensabile è il sostegno alle rivendicazioni
democratiche e sociali dei migranti - prime vittime delle campagne
razzistiche, islamofobiche e xenofobe - e, nei fatti, vere e proprie riserve di
manodopera colonizzata all’interno del nostro paese. Questa battaglia,
costituisce un fattore importante per contrastare il cosiddetto “scontro di
civiltà” che si cerca di attizzare per ottenere, anche sul generale piano
culturale, il consenso attivo delle popolazioni alla militarizzazione e alla
guerra. d) Infine, il Comitato
per il Ritiro delle Truppe chiama al confronto tutti gli attivisti, che
mantengono immutata la loro opposizione alla guerra, per riflettere insieme su
come dare continuità, stabilità ed efficacia al proprio impegno nella direzione
del rafforzamento di un rinnovato movimento contro la guerra. L'ipotesi che
proponiamo è quella di costruire una rete articolata dei comitati, dei gruppi
sociali, delle varie comunità territoriali operanti sul terreno dell'opposizione
della guerra e del militarismo, ma anche di promuovere la strutturazione di
comitati territoriali dove è mancata fino ad ora una un'azione coordinata contro
la militarizzazione in atto nel nostro paese. Si tratta insomma di
costruire una rete attiva e stabile la quale sia in grado, oltre le necessarie
scadenze di mobilitazione nazionali, di promuovere e dare ampio respiro alle
iniziative locali contro i molteplici effetti del
militarismo. COMITATO PER IL RITIRO DELLE
TRUPPE DICEMBRE 2006
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