perché oggi mi avete censurato questo intervento?
l'ho spedito verso le 13.30...
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Hamas e
Fatah Dopo molte fumate
nere, sono ripresi nelle ultime settimane i colloqui tra Hamas e Fatah per la
formazione del nuovo governo dell'Autorità Nazionale Palestinese, mentre i
dipendenti pubblici palestinesi, appartenenti a Fatah, scioperano da mesi contro
il governo Hamas. Abbiamo chiesto un parere sul nuovo accordo tra Hamas e Fatah
e un'analisi della situazione a Roger Heacock, professore di Relazioni
Internazionali all'Università di Birzeit, Ramallah. Heacock afferma che la
strategia di paralizzare la
West Bank e Gaza con scioperi e manifestazioni, attuata da
Fatah, fa parte di un tentativo di colpo di stato, che la leadership di Abu
Mazen ha cercato invano di perseguire, sull'esempio delle giunte militari
sudamericane. Il golpe tuttavia non è riuscito perché la società civile è
compatta e vuole l'unità nazionale contro l'Occupazione. Da molti mesi continuano nei Territori Occupati gli scioperi dei
dipendenti pubblici dell'ANP, che ora però stanno cominciando a ritornare al
lavoro. È noto che gli scioperi sono organizzati da Fatah, si tratta di una
strategia per mettere in difficoltà il governo Hamas. Come mai è fallita?
I funzionari
statali in Palestina sono circa 160.000, quasi tutti appartenenti a Fatah, un
sistema che in Italia definireste clientelare. Con le loro famiglie
rappresentano circa un milione di persone, che per dieci mesi non hanno ricevuto
lo stipendio a causa del boicottaggio internazionale nei confronti del governo
di Hamas, democraticamente eletto in Gennaio. Per molti mesi, le scuole
pubbliche sono state paralizzate per ordine di Fatah, i cui militanti, spesso
con metodi intimidatori, hanno sostenuto lo sciopero. Più in generale, negli
ultimi mesi abbiamo assistito alla mobilitazione di una vasta minoranza della
popolazione, che con vari mezzi ha cercato di mettere in difficoltà Hamas. Oltre
agli scioperi dei dipendenti pubblici, che hanno paralizzato la West Bank, ci sono state
continue manifestazioni antigovernative e in particolare i cortei delle mogli
dei militanti di Fatah, che hanno organizzato dei veri e propri cacerolazo
sbattendo piatti e pentole per le strade, del tutto simili alle analoghe
manifestazioni sudamericane recenti e passate. La strategia di Abu Mazen,
presidente dell'ANP, è estremamente chiara. La leadership di Fatah sta cercando
da mesi di destabilizzare i Territori in attesa del momento favorevole ad un
golpe, con il diretto appoggio di Stati Uniti ed Israele. Il mio collega Joseph
Massad ha recentemente analizzato questo tentativo di colpo di stato, definendo
Abu Mazen "Pinochet in Palestina" [Al-Ahram Weekly, disponibile online su
www.electronicintifada.org]. In sostanza, si sta
ripetendo nei minimi dettagli il copione di colpo di stato militare
filoamericano, collaudato negli anni Settanta in Sudamerica. Nei mesi precedenti
al golpe del '73,
in Cile ci furono scioperi continui, fra tutti quello dei
camionisti, che paralizzò letteralmente il paese, portato avanti grazie al
sostegno del Dipartimento di Stato americano, che fornì ingenti finanziamenti ai
partiti di opposizione al Presidente Allende, mentre dall'altra parte gli Stati
Uniti imponevano al paese un embargo economico. Sostituendo "Cile" con
"Palestina" e "Allende" con "Hamas", l'analogia diventa talmente calzante da
risultare ovvia. È ben noto infatti che Abu Mazen da vari mesi riceve sostegno
sia finanziario che militare da parte di Israele, il Ministro degli Esteri
israeliano Livni non perde occasione per "rafforzare il moderato Abu Mazen",
mentre ufficiali americani addestrano le forze di sicurezza di Fatah in un
campo, ormai non più segreto, a Gerico. Tutto questo peraltro è sotto gli occhi
di tutti, non c'è nessun tentativo di mascherare il sostegno al claudicante Abu
Mazen. Tuttavia il tentativo di golpe non è
riuscito, o almeno non ancora. Perché? Lo sciopero generale di Fatah è
fallito: all'inizio di Novembre 40.000 insegnanti sono tornati nelle aule. Il
governo Hamas infatti è riuscito a pagare due mesi di stipendi arretrati.
Inoltre, gli slogan gridati nelle frequenti manifestazioni di Fatah sono molto
eloquenti e ironici: "vogliamo indietro i ladri di Fatah, vogliamo indietro i
soldi". Anche se i dipendenti pubblici protestano, l'ultima cosa che vogliono è
di rivedere al potere i vari Abu Ala [Ahmed Qureia, ex premier palestinese di
Fatah], la leadership corrotta e filoisraeliana di cui si sono finalmente
liberati con le elezioni di Gennaio. Una delle ragioni del mancato golpe è la
mancanza dell'appoggio popolare, la vecchia guardia di Fatah è ormai
delegittimata. Nonostante i mesi di embargo e l'inasprimento dell'occupazione
israeliana, il tessuto della società civile è più forte che mai e la richiesta
ora è di un governo di unità nazionale a cui partecipino tutte le varie fazioni.
Da più parti si sente parlare del
pericolo di guerra civile nei Territori, proprio come in Libano.
Non c'è
nessuna guerra civile incombente in Palestina, la situazione è completamente
diversa dal Libano. Lì lo scontro tra le minoranze religiose è fortissimo,
niente di tutto questo succede da noi. Fino ad ora, abbiamo assistito ad una
serie di omicidi politici tra dirigenti di Hamas e Fatah, funzionari dei servizi
segreti. Spesso inoltre, quando Fatah non riesce ad eliminare il proprio
obiettivo, questi diventa subito un obiettivo israeliano: gli assassini di
militanti di Hamas da parte dell'IDF hanno ormai cadenza quotidiana. Subito dopo
gli accordi di Oslo, a metà degli anni novanta, Fatah disponeva di una
schiacciante superiorità militare rispetto a tutte le altre organizzazioni
palestinesi, grazie anche all'aiuto americano. Oggi tuttavia la differenza si è
appianata. Hamas gode di un'ampia disponibilità di uomini e mezzi, tanto che Abu
Mazen non pare sia in grado di realizzare il tentativo di golpe. La sua
strategia allora è stata quella di cercare accordi con Hamas, chiedendo il via
libera a Washington, per poi forzare la mano e sabotarli all'ultimo momento,
prendendo ancora tempo per destabilizzare i Territori. Hamas, al contrario, gode
dell'appoggio dell'opinione pubblica e della popolazione in generale, nonostante
i mesi di embargo, a testimonianza della forte scelta politica delle elezioni di
Gennaio. A Gaza, in particolare, abbiamo assistito alla straordinaria resistenza
delle donne di Beit Hanoun, che hanno soccorso a rischio della vita i loro
mariti, militanti di Hamas, assediati nella moschea del villaggio dall'IDF.
Il sostegno della popolazione
ad Hamas è infatti ancora più forte a Gaza, dove negli ultimi giorni si è vista
una nuova tattica di resistenza "non violenta". L'esercito israeliano avverte di
sgomberare un'abitazione, per raderla al suolo, sospettando la presenza di armi
all'interno. In pochi minuti, centinaia di persone, donne, bambini, accorrono
per formare una catena umana attorno alla casa e l'IDF è costretta a fermare
l'attacco, per non fare una strage di civili. Tornando alla questione del
governo palestinese, recentemente Abu Mazen e Haniyeh, attuale premier
palestinese di Hamas, hanno dichiarato di aver raggiunto l'accordo sul governo
di unità nazionale. Haniyeh per la prima volta ha fatto un passo indietro,
accettando un primo ministro tecnico. Cosa ti fa pensare che questa volta il
governo tecnico verrà varato? Fino ad ora, tutti gli accordi
annunciati (e poi invariabilmente cancellati, dopo l'ennesima tempestiva strage
di civili da parte di Israele) sono stati raggiunti grazie all'intervento dei
servizi di altri paesi, in particolare egiziani. Tuttavia questa volta l'accordo
è stato raggiunto senza intromissioni esterne. Al contrario, è stato siglato da
Meshal in persona [leader di Hamas, in esilio a Damasco], grazie alla mediazione
di Moustafa Barghouti e con il consenso di tutte le organizzazioni palestinesi,
inclusa la Jihad
Islamica e la sinistra. L'accordo si basa sul famoso "documento
dei prigionieri", proposto da Marwan Barghouti, in carcere in Israele, e
accettato da tutti i leader politici attualmente detenuti. Nel documento si
chiede la creazione di un governo di unità nazionale e l'adozione del piano di
pace della Lega Araba, limitando la resistenza armata ai territori attualmente
occupati, ovvero all'interno della Linea Verde del '67, riconoscendo quindi
Israele. Il nuovo premier palestinese sarà probabilmente l'ex rettore
dell'Università Islamica di Gaza, formalmente indipendente, anche se
simpatizzante dei Fratelli Musulmani, mentre il ministro delle Finanze sarà
probabilmente di Fatah, in modo da ottenere la fine dell'embargo internazionale.
In questo modo, Hamas non sarà costretto a riconoscere Israele, mentre il
governo, tramite l'OLP, si siederà al tavolo dei negoziati con la comunità
internazionale. Cosa è cambiato nello scacchiere
internazionale dopo la guerra in Libano e la sconfitta di Bush nelle elezioni di
midterm? Si apre forse uno spiraglio per riportare la questione palestinese
all'ordine del giorno? Ora che Bush è azzoppato, la strategia
americana in Medioriente non è più in mano ai vari neocon, promossi ad altri
incarichi oppure licenziati (a parte l'eminenza grigia Dick Cheney). Il
Segretario di Stato Condoleezza Rice, riuscita a sopravvivere indenne al pantano
iracheno (di cui è stata una delle ideatrici), sta cercando delle nuove alleanze
nell'area. Laddove una volta il conflitto israelo-palestinese rappresentava il
punto focale delle tensioni mediorientali, oggi la situazione è profondamente
cambiata, direi ribaltata. Con l'Iraq in fiamme e il Libano sull'orlo di una
guerra civile, gli Stati Uniti cercheranno nei prossimi mesi di sbloccare lo
stallo partendo proprio dalla Palestina. Si tratterà di un primo passo per
allentare la tensione con la
Siria e l'Iran: l'offerta di un pacchetto di scambi ai governi
israeliano e palestinese. Hamas libererà Gilad Shalit, il caporale israeliano
sequestrato in Giugno, in cambio del rilascio delle centinaia di donne e bambini
palestinese rinchiusi nelle carceri israeliane e insieme alla liberazione dei
ministri e dei parlamentari di Hamas, sequestrati dall'IDF all'inizio della
rioccupazione di Gaza quest'estate. In secondo luogo, Hamas dovrà accettare un
governo di unità nazionale, in cambio della rimozione dell'embargo finanziario.
Al tempo stesso, Europa e Stati Uniti cercheranno di convincere Israele a
ritirarsi da Gaza e fermare gli attacchi nelle aree abitate della Striscia,
mentre Hamas dovrà fermare il lancio di razzi Qassam in territorio israeliano.
La recente proposta di una forza internazionale di interposizione a Gaza
probabilmente non è altro che un bargaining chip con cui ottenere la
partecipazione di Israele alla conferenza internazionale in Giordania, prevista
per fine mese, in cui si discuterà di come rilanciare il dialogo tra israeliani
e palestinesi. Se la
Rice riuscirà a sbloccare lo stallo in Palestina, anche senza
toccare nessuno dei veri problemi sul tavolo, come gli insediamenti israeliani
nella West Bank e il Muro, gli Stati Uniti potranno comunque riprendere fiato e
rivolgersi alla Siria e all'Iran con un risultato positivo da presentare agli
altri paesi arabi. Tuttavia, l'occasione per la ripresa dei negoziati tra
Israele e palestinesi non è per ora in vista. Nel frattempo, la resistenza
palestinese nei Territori Occupati continua e la società civile mantiene
compatto il suo tessuto e, forse inaspettatamente per la platea occidentale, il
suo sostegno per la scelta politica di Hamas non accenna a
scemare.
Gerusalemme,
24.11.06
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