politica militare e governo
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- From: "Enrico Peyretti" <e.pey at libero.it>
- Date: Wed, 22 Nov 2006 11:34:37 +0100
Propongo alla comune riflessione qualche appunto
sul governo e la politica militare.
Enrico Peyretti
Politica
italiana DAL
MINIMO DI GUERRA AL MASSIMO DI PACE Le tensioni
interne al composito movimento pacifista e nonviolento hanno superato alcuni
momenti di maggiore asperità (nell’estate, sul rinnovo della missione in
Afghanistan), ma rimangono differenze tra chi condanna la politica
internazionale del governo e chi la critica con responsabile cautela. Nessuno la
approva semplicemente. La quantità
crescente di spese militari per armamenti pesanti e troppi, e per mantenere un
eccesso di personale professionale nell’esercito; il rinvio tacito e
inspiegabile del ritiro dall’Iraq e la permanenza sempre meno spiegabile in
Afghanistan, per una concezione ancora troppo militare dei conflitti; la
sopravvivenza, nella classe politica e di governo, di retorica nazionale e
soldatesca di fronte a dolori, errori e orrori delle politiche armate; la
continuazione della passività italiana davanti alla presenza nucleare illegale e
espansiva (base di Vicenza) degli Stati Uniti sul nostro territorio: ecco, dopo
sei mesi, diversi motivi di delusione nei tanti cittadini che hanno votato la
coalizione di centro-sinistra per avere una più chiara politica di pace. Penso
che, d’altra parte, dobbiamo riconoscere al governo tentativi positivi sul piano
diplomatico, anche per una conferenza globale sul Medio Oriente; sostegno ad
azioni dell’Onu (come la presenza in Libano, ora diventata più difficile)
riduttive dello sciagurato unilateralismo statunitense; contatti per costruire
una politica mediterranea di collaborazione pacifica. Ma rimangono i pesanti
motivi di critica appena detti. Se mi è permessa
una notazione personale, sono stato anch’io tra quelli che, nei mesi scorsi,
hanno proposto pazienza e fiduciosa attesa verso la politica estera del governo
attuale, e hanno ricevuto per questo critiche pesanti, quasi delle scomuniche,
da amici e compagni nel comune impegno per la pace e la nonviolenza, quasi come
traditori di questi valori. Oggi credo che
dobbiamo, al tempo stesso, disapprovare la politica militare di questo governo,
e difendere questo governo. Le alternative che si vanno ventilando – non è
difficile prevederlo - farebbero una politica peggiore, non solo sul piano
militare, ma in tutti gli altri settori. Criticare il governo e appoggiarlo non
è contraddizione, ma libera relazione di stimolo. Farlo cadere sarebbe un nuovo
peggiore danno per la pace. Questa posizione
ci permette e ci impegna - in corretta competizione culturale e politica con le
altre componenti della coalizione, in collaborazione con le sue componenti più
sensibili al pensiero della pace - ad esigere dal governo dei passi avanti più
significativi in una politica internazionale che riduca progressivamente e
continuamente lo strumento militare platealmente controproducente e disastroso;
che sviluppi la cooperazione sociale e culturale tra i popoli, privilegiando i
più bisognosi e oppressi; che promuova la mediazione civile, l’intervento
nonviolento a prevenire i conflitti, e l’azione internazionale corretta, non
imperiale ma secondo la Carta dell’Onu, a moderarli e placarli, dissociando
l’Italia dai coinvolgimenti in alleanze bellicose e in istituzioni belliche,
come è la Nato dal 1999. Naturalmente, a
parte le loro idee personali, i governanti legittimamente si chiedono se
l’opinione pubblica li seguirebbe in una più decisa politica di pace. Noi non ci
facciamo troppe illusioni. Come nella classe politica, così nella popolazione in
generale è carente una positiva cultura di pace, in grado di articolare in passi
concreti il bell’obiettivo desiderato. Ci sembra che la popolazione (a parte
settori razzisti e bushisti) sia contro la guerra, contro le guerre folli di
questi anni (anche, ma non solo, per paura), ma che attenda di vedere vie
politiche di pace, per sperare che la pace non resti un sogno fuori dalla
politica, e un motivo di disperazione storica.
Se la politica di
governo desse segnali sempre più chiari, e non equivoci, di voler procedere
senza esitazioni dal minimo di guerra al massimo possibile di pace, se desse
risposte non contraddittorie alla cultura di pace che fermenta nelle coscienze
più attente e laboriose, allora farebbe la parte che la politica può fare, nei
suoi limiti, per incoraggiare la morale popolare a passare da interessi stretti
ed egoisti, monetari, che spesso la infettano (anche e specialmente in chi vive
nel benessere), alla sensibilità per le sorti del mondo, per il dolore e
l’offesa alla vita della maggioranza dell’umanità depredata, esclusa, colpita.
In questa
sensibilità sta la nostra dignità. Vivere senza obiettivi di valore umano e
umanizzante è la massima miseria dei sazi avari. Ogni essere umano, anche quando
non è capace di vederli, ha bisogno di tali obiettivi. La politica, contro quel
che sembra, segue e non guida la società, ma interagisce con la società e ha
compiti anche decisivi. Il pensiero della pace sente sempre più la propria
responsabilità politica, oltre la dichiarazione ideale e morale. Esso chiede,
vuole, attende che la politica comprenda e decida con maggiore chiarezza e
coerenza che il suo senso e scopo è la pace positiva, cioè la gestione vitale, e
mai mortale, mai omicida, dei conflitti umani.
La politica non è
solo uno spietato gioco di forze, ma un confronto di valori e argomenti, di
scopi, di idee, di numeri. I nostri numeri non sono grandi, ma sono grandi i
valori e gli scopi. Facciamo che la politica abbia valore. La politica è
costruzione di pace con mezzi pacifici, altrimenti non è politica, non è arte e
lavoro della convivenza, ma «magnum latrocinium». La cultura costituzionale
italiana, giustamente plurale, che si è difesa da culture incivili e affermata,
sebbene di poco, negli ultimi voti popolari, non può essere al di sotto di
quella qualità e dignità umana. Enrico Peyretti
(22 novembre 2006) |
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