Secondo report dal Libano



Secondo report dal Libano

Domenica 5 e lunedì 6 novembre 2006

Domenica è giornata di contatti e di ridefinizione dei progetti. Alì ci ha organizzato un incontro con giovani esponenti delle associazioni che possono essere nostri interlocutori. Dopo una manifestazione davanti alla Croce Rossa internazionale per protestare contro i massacri di Gaza e per chiedere l’intervento delle istituzioni internazionali, ci vediamo in un bar con giovani universitari, esponenti di un’associazione legata al partito comunista, di un’associazione cristiana, una laica, una legata ad Hezbollah e allo Youth Center dello stesso Alì. Il lunedì mattina, sul presto, un mezzo inviato da Abu Alì viene a prenderci per il giro nell’area del conflitto dell’estate, lungo il confine sud. La giornata è fredda e piovosa. Con noi un ragazzo del Palestinian Youth Center, e un esponente Hezbollah. Raggiungiamo con qualche difficoltà Sidone, facendo molte deviazioni per aggirare le interruzioni stradali conseguenza dei bombardamenti israeliani della rete stradale di collegamento tra Beirut e il sud Libano. A Sidone ci aspetta Abu Alì, con lui arriviamo a Tiro, dove cominciamo a incontrare i militari italiani dell’Unifil. Il loro è un atteggiamento disinvolto. Alcuni sembra che facciano la guardia a una coltivazione di banane, altri entrano in un market a fare shopping: un modo come un altro per sostenere l’economia locale… Ma più avanti i segni della guerra cominciano a farsi sempre più evidenti: oltre alle voragini dei bombardamenti all’autostrada e alle altre vie di collegamento nord-sud, i ponti sul fiume Litani sono saltati e si iniziano a vedere i vuoti e le macerie dei bombardamenti agli edifici considerati strategici. Mentre lasciamo la costa e saliamo le montagne iniziamo ad attraversare i villaggi e i centri bombardati. La prima sosta la facciamo a Qana. Qui ci fermiamo vicino ad una piccola moschea distrutta. A fianco, al posto di un edificio abbattuto, c’è uno spiazzo con tre file di tombe. Su due lati, lungo un muro, le foto appese di tanti bambini. Giovani, giovanissimi, alcuni di pochi mesi in braccio alle mamme. E la foto di due miliziani Hezbollah davanti all’immagine di Nasrallah. Sono alcuni dei sessanta morti della strage di Qana del 29 luglio. Una seconda strage di Qana, dopo quella del 1996 dell’operazione ‘Furore’ decisa dal governo di Shimon Peres, il futuro premio Nobel per la pace. Questa volta l’operazione si chiama ‘Giusta retribuzione’, un nome terribile, e sarà per sempre segnata da questa seconda strage di Qana, dove tra i morti civili si conteranno 37 bambini. 17 disabili. Lasciamo nel vento gelido il luogo della strage. Senza parole. Negli occhi le foto di quei bambini tristi, che pure da qualche parte hanno lanciato i loro urli. Dopo Qana, Siddiqine, Yatar, Kafra. E Tebnine, dove è il comando delle operazioni italiane lungo il confine. E poi ancora Kounine, Aainata. Dappertutto case distrutte, fori di pezzi di artiglieria, macerie. E povera gente che raccoglie qualcosa, mentre si ripuliscono le aree e si inizia a sistemare quello che si può. A Beint Jabail il centro della città non esiste più. Enormi vuoti e macerie lungo tutto il fianco di una collina che doveva essere un intrico di vie nel vecchio centro. Qualcuno ci indica che dalla collina opposta proprio da quella parte sono avvenute le incursioni dei carri, mentre F16 e elicotteri Apache bombardavano tutto il fianco. Ci indicano la strada dei carri, che parte da un monte più alto, dietro, dove un’alta antenna segnala una postazione di confine israeliana che domina tutta l’area. E hanno negli occhi lo stesso terrore di quelle ore, quando cercavano rifugio nella fuga, raccogliendo bambini e vecchi, e si affidavano a Dio e imploravano i miliziani di Hezbollah affinchè ritardassero almeno l’avanzata delle truppe. Con quello che potevano. Il vento gelido si infiltra senza ostacoli tra i ruderi delle case abbattute. Alcuni di quelli rimasti tra i trentamila abitanti della città ci vengono attorno. Muti. Una anziana donna è seduta davanti al fuoco attizzato in un bidone davanti ad un basso locale, nero e spoglio, lungo la strada. Quello era il suo negozio di verdure, ci dice. Ora più non c’è niente. Niente frutta o verdure, niente da raccogliere o da vendere. Niente da coltivare. Anche la speranza non cresce più qui. La sua voce è insieme debole e rassegnata. Non parla più e ci guarda. Cosa resta da dire. È un’implorazione la risposta al nostro saluto. Salaam. Poi sono ancora villaggi sparsi sugli spogli monti del Libano meridionale. Aaitaroun, Bilda, Meis el Jabal, Houla… E Kfar Kila dove costeggiamo la linea di confine, a tre metri da una lunga rete elettrificata che ci separa da una strada interna. Ci fermiamo. In alto. Di fronte a noi la postazione israeliana. Sotto si distende la pianura della Palestina. I nostri amici la guardano: bella, ci dicono.
In mezzo, a poche miglia, l’insediamento israeliano di Kiriat Shmona.
Riprendiamo la strada per Kharkyla, dopo una rapida sosta che consente ai nostri amici di andare a pregare in una piccola moschea. È quasi già notte quando arriviamo ad Aaita ech Chaab, tremila abitanti prima delle incursioni della guerra dei 34 giorni. Abbiamo difficoltà a raggiungere il municipio, dove dovrebbe attenderci un rappresentante della municipalità. Andiamo avanti e indietro più volte, quando capiamo che il municipio semplicemente non c’è più. Al suo posto delle tende. Più avanti, le autorità locali ci conducono ad un largo spiazzo tra le macerie. Sotto di noi, ci dicono, c’è la scuola. Nel buio i muri diroccati, le case sventrate, il fango e i cenci che sentiamo sotto i piedi ci rendono il senso innaturale delle devastazioni della guerra. Andiamo anche più avanti, dove c’erano l’ospedale e un centro giovanile. Ora l’Iran ha inviato alcune tende e un’infermeria da campo. Il Qatar ricostruirà qualcosa, come pure il governo libanese qualcosa farà. Ma la vita, qui, come riprenderà? Chi ricostruirà le persone e non solo le cose? Così pensiamo mentre torniamo a Beirut. E ci consola giusto un poco pensare che sarà questo il nostro progetto.

Ernesto Scelza
Portavoce nazionale dell’Associazione per la Pace