[comunicati_lilliput] Ripudiare le guerre e agire la nonviolenza



17 luglio 2006
La posizione della Rete Lilliput in merito alla discussione sul voto al
rifinanziamento in Afghanistan e sulle "missioni di pace" in generale.
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RIPUDIARE LE GUERRE E AGIRE LA NONVIOLENZA

Una  politica di pace per cambiare la rotta

La situazione di estrema gravità che sta infuocando il medioriente ci porta
necessariamente ad uscire dal dibattito a basso prezzo sulle questioni
relative alle "missioni militari" portato avanti dalla politica
istituzionale. Essa richiede da parte di tutti un segno di discontinuità
che vada oltre i meccanismi di ingegneria parlamentare e le relative
diatribe di posizionamento connesse.
Continuare a ricorrere alla logica della guerra per tentare di risolvere i
conflitti tra paesi o tra gruppi etnici rappresenta ormai in maniera
evidente un sanguinoso e irreparabile errore.
Nella storia recente, dal Vietnam ad oggi, sono ormai molte le occasioni
che rappresentano una prova evidente di questa verità così difficile da far
accettare sulla scena internazionale. Anche i motivi economici e gli
interessi di dominazione non sono più così chiaramente convenienti, come in
passato, per le potenze armate, mentre i costi umani e sociali hanno ormai
assunto dimensioni inaccettabili.
Su questi fatti, ben documentati, e su una ferma e convinta etica della
nonviolenza delle relazioni umane, si fonda il nostro assoluto rifiuto del
ricorso alle guerre, anche quando vengono camuffate e proposte come
"interventi umanitari" o "esportazione della democrazia", celando
subordinazioni inconfessabili a potenti alleati o al sistema economico
dominante.
Siamo invece sempre più convinti che solo una politica strategica e
articolata di  "prevenzione dei conflitti" sia la chiave per ridare forza
alla convivenza pacifica nei rapporti internazionali.
Si tratta di costruire un indirizzo politico coerente, utilizzare strumenti
appropriati,   realizzare una politica di pace dell'Italia a livello
internazionale.
Non sarà infatti sufficiente il rimpatrio del contingente italiano
dall'Irak o dall'Afghanistan, o un nuovo appello alla trasformazione in
senso democratico delle Nazioni Unite se non si definisce in maniera
trasparente il ruolo che l'Italia vuole svolgere per contrastare la logica
della guerra infinita.
Occorre affermare con chiarezza che una vera politica di pace deve
adoperarsi per rimuovere le "cause strutturali" prodotte dall'attuale
modello di sviluppo capaci di  aumentare le disuguaglianze e ridurre in
miseria miliardi di persone (regole del commercio inique, processi di
mercificazione e di privatizzazione dei beni comuni, spese militari,
finanziarizzazione dell'economia, devastazione delle risorse naturali,
questione debito).
Riteniamo infatti che la lotta alla povertà, alla fame, alle malattie a
grande diffusione, l'agevolazione dei movimenti migratori, la protezione
dei rifugiati e dei richiedenti asilo, un massiccio impegno per
l'istruzione e un sistema di controllo restrittivo sul commercio delle
armi, possano, anche in tempi brevi, modificare le condizioni di vita di
oltre metà dell'umanità e incidere a monte sulle cause principali dei
conflitti.
La riduzione degli aiuti allo sviluppo, la mancata adozione di misure di
cancellazione del debito estero dei paesi del cosiddetto Sud del Mondo, la
corsa al business delle armi, sono segnali gravissimi di disinteresse e di
emarginazione che popolazioni sempre più numerose, a partire dagli anni
'80, rifiutano, manifestando questo rifiuto con sempre maggiore ricorso
alla violenza.
L'Italia dovrebbe quindi decidere di invertire la tendenza in atto e dare
chiari segnali di voler lavorare ad un ben diverso progetto di rapporti
internazionali. E' questa la scelta di fondo che il nuovo governo deve
adottare, con misure magari graduali, ma chiaramente orientate.

Alcuni elementi per una politica di pace

-    Un salto di qualità con la costruzione paziente di nuove modalità di
intervento, civile e nonviolento, come risposta ai conflitti che lacerano
società e paesi in molte parti del mondo, anche imparando dalle esperienze
più avanzate dei nostri vicini europei, saldando gli sforzi già esistenti
in diversi campi in una "infrastruttura per la pace" coerente e
riconoscibile agli occhi dell'opinione pubblica.

-    Un'azione del governo italiano per l'immediata attuazione del sistema
di sicurezza collettiva previsto dal Cap. VII della Carta delle Nazioni
Unite che prevede la costituzione di forze sopranazionali che possano
intervenire per prevenire e sedare i conflitti. Ciò significa sottrarre
l'ONU al ricatto delle grandi potenze che oggi concedono o meno loro truppe
a seconda dei propri interessi nelle aree di potenziale conflitto.

-    La riduzione graduale dell'impegno italiano in ambito NATO,
trasformata nel 1999 (proprio durante un conflitto) da organizzazione
difensiva in apparato di intervento armato, senza limiti geografici e di
contenuto. Sarebbe così evitato il coinvolgimento in conflitti che
interessano solo alcuni paesi (in particolare gli Stati Uniti, come sta
avvenendo in Afghanistan e come potrebbe verificarsi per altri paesi
minacciati dalla strategia della guerra preventiva). L'avvio di questa
politica permetterebbe anche di ridurre la presenza di basi NATO sul nostro
territorio.
-    L'elaborazione di una "filiera" della pace, con l'impegno coerente per
politiche di prevenzione e soluzioni civili dei conflitti in tutti i
principali ambiti di politica estera: dall'Unione europea all'OSCE, alle
Nazioni Unite, dalla cooperazione allo sviluppo alle politiche commerciali,
fino ad arrivare al settore cruciale del commercio di armi.

-    L'istituzione di Corpi Civili di Pace ossia di gruppi organizzati di
volontari che intervengono in situazioni di conflitto con azioni
nonviolente che comprendono attività di prevenzione, monitoraggio,
mediazione, interposizione e riconciliazione fra le parti. La formazione e
il sostegno di corpi di pace andrebbero collegati al servizio volontario
europeo e, adeguatamente preparati e addestrati, impiegati nelle aree di
conflitto o di tensione violenta.

-    Una presenza attiva del governo italiano per l'approvazione del piano
di disarmo che l'ONU inizierà a discutere ad ottobre 2006, promuovendo
l'emanazione delle norme necessarie, italiane e internazionali, per
regolamentare il traffico e la disponibilità di armi leggere, che sempre
più si rivelano essere causa diretta di morti e di feriti innumerevoli e
causa scatenante di un numero crescente di conflitti.

-    La riduzione delle spese militari, anche con la cancellazione o il
ridimensionamento di programmi di produzione di sistemi d'arma utili solo
in una prospettiva di guerre offensive, dando sostegno immediato alla
riconversione dell'industria bellica italiana, tra le più fiorenti al
mondo, in industria civile.  

-    Un'impostazione fortemente innovativa della cosiddetta cooperazione
allo sviluppo (dove il termine "sviluppo" andrebbe modificato, in quanto
legato al dannosissimo modello economico dominante), destinando risorse
superiori allo 0,70 del Pil, obiettivo ormai inadeguato alle condizioni di
interi continenti, dando priorità a progetti di collaborazione con partners
locali significativi della società civile.

Proposte per l'immediato

-    Utilizzare gli strumenti della diplomazia Italiana nella guerra in
corso tra Israele, Libano e Palestina, intervenendo presso tutte le sede
competenti delle Istituzioni e della Comunità Internazionale, Nazioni
Unite, Unione Europea e Governi, chiedendo il cessate il fuoco e favorendo
un'azione di interposizione volta ad impedire l'estensione della guerra,
fermare la spirale di violenze e rappresaglie, proteggere i civili. Al fine
di affermare il diritto internazionale si propone al Parlamento italiano di
far pressione internazionale revocando il memorandum d'intesa militare tra
Italia e Israele e lavorando perché l'Unione Europea sospenda il trattato
commerciale con Israele fintanto che permarrà la violazione dei diritti
umani.

-    Ritirare rapidamente le truppe italiane dall'Iraq e dall'Afghanistan
con la  sostituzione immediata di una presenza consistente di attività
civili di sostegno al governo legittimo in carica, senza la protezione di
forze armate straniere di alcun tipo; avviare la trattativa interna alla
NATO per la graduale riduzione della presenza militare italiana in
Afghanistan sostituendo le poche iniziative di ricostruzione, affidate ai
CRP, con un piano organico di attività civili no profit; ritirare le navi
italiane e gli aerei che pur nelle retrovie sostengono l'iniziativa
militare sotto controllo statunitense in Afghanistan.

-    Ridurre la spesa militare, visto che secondo i dati del Sipri
(l'Istituto di ricerca sulla pace di Stoccolma) l'Italia è settima al mondo
spendendo per la Difesa 484 dollari pro-capite. Una parte di questi soldi
potrebbe essere impiegata per sviluppare un concetto di difesa alternativo
al modello armato, e per finanziare i progetti di  ricostruzione dei paesi
dove oggi l'Italia è presente militarmente.

-    Avviare una decisa trattativa per l'eliminazione delle basi estere dal
territorio italiano e una strategia di trasformazione di gran parte delle
aree riservate ad usi militari (compresi i poligoni) in parchi ed aree
protette a fini di salvaguardia dell'ambiente.

-    Ripristinare e potenziare i vincoli alla esportazione di sistemi
d'arma e di armi leggere attraverso la revisione e il rafforzamento della
legge 185/90, proponendo la logica di questa legge come modello per la
legislazione degli altri paesi europei e dell'Unione Europea nel suo
complesso. Chiediamo quindi di salvaguardare la trasparenza data dalla
relazione annuale della legge 185/90 che rende conto anche delle operazioni
svolte dagli Istituti di credito in appoggio al commercio delle armi
italiane.

-    Lavorare in ambito NATO, a partire dall'imminente vertice di Riga
(nov. '06) per il definitivo superamento della politica del "nuclear
sharing", ovvero la presenza di armi nucleari statunitensi sul territorio
di paesi europei. In particolare, per quanto riguarda l'Italia, procedere
con lo smantellamento delle 90 atomiche presenti nelle basi di Aviano (PN)
e Ghedi Torre (BS). Tale presenza comporta che sia gli Stati Uniti, "stato
nucleare", sia l'Italia, "stato non-nucleare", finiscano per violare il
Trattato di non proliferazione nucleare del quale sono entrambi firmatari.
A causa di questa flagrante violazione lo stesso trattato diventa meno
efficace.

-    Enunciare il principio che le guerre tradizionali e ad alta tecnologia
non sono in grado di estirpare il terrorismo e che occorre invece
contribuire a modificare le condizioni di vita delle popolazioni spinte,
dalla mancanza di speranze per il futuro, a scegliere la via della reazione
armata.

-    Dar corso all'uscita dell'ENI dall'accordo con le altre società
petrolifere interessate ai giacimenti iracheni, avviando una trattativa con
il governo in carica a condizioni di favore almeno per i prossimi cinque
anni.

Per noi, una presenza civile in Iraq ed in Afghanistan, significa:

1.    Trasformare l'ospedale da campo della Croce Rossa italiana a
Nassiryia in  collaborazione con la corrispondente organizzazione irachena,
trasferendovi  materiali e favorendone gradualmente l'autonoma gestione,
dopo aver formato il personale necessario.

2.    Individuare un certo numero di ospedali pubblici iracheni e far
valutare ai  responsabili medici locali le necessità sanitarie,
impegnandosi a soddisfarle per un periodo di almeno sei mesi o un anno.
Individuare un corrispondente numero di ospedali italiani (scelti per
competenze e specializzazioni richieste dalla situazione sanitaria nel
paese) ad attuare un gemellaggio che permetta una collaborazione
professionale continuativa e la formazione di omologhi, realizzando
soltanto brevi missioni ed ospitando in Italia il personale medico e
sanitario iracheno.

3.    Prevedere un analogo intervento per scuole e strade, collaborando
alla costituzione in loco di nuclei di ingegneri e tecnici, fornendo
assistenza  dall'Italia per tutte le esigenze di rilevazione dei
fabbisogni, di progettazione, di scelta dei materiali, di organizzazione
dei cantieri e di fornitura di macchinari, realizzando solo brevi missioni
presso i competenti ministeri.

4.    Attuare un gemellaggio delle scuole con analoghi istituti italiani
nell'ambito della cooperazione decentrata di Comuni e Regioni, inviando
materiali didattici e trasferendo le necessarie competenze didattiche.

5.    Fornire le competenze tecniche, richieste dalla ricostruzione,
attraverso la collaborazione tra i ministeri competenti, soprattutto per
quanto riguarda l'acqua e l'energia, mobilitando anche le competenze e le
disponibilità di tecnici, per brevi missioni e per eventuale formazione,
presenti in alcuni Comuni italiani disposti al gemellaggio.

Questa modalità di intervento può esporre a rischi per periodi brevissimi
solo un numero molto limitato di italiani, tutti civili volontari, mentre
può accelerare moltissimo le prime fasi della ricostruzione, che possono
essere iniziate subito, almeno nelle zone dove è già operativo l'esercito
iracheno. Può mobilitare enti e organismi in Italia desiderosi di
collaborare a una concreta iniziativa civile.
Il piano può essere presentato subito al governo iracheno e afgano
nell'ambito delle trattative per il ritiro delle truppe. L'onere
finanziario potrebbe non essere superiore al risparmio ottenuto dal
decrescente impegno militare e potrebbe quindi essere deciso a livello
politico al momento dell'approvazione parlamentare del decreto per il
rifinanziamento delle missioni all'estero.
E' evidente che questo approccio non prevede la presenza di imprese
italiane, la partecipazione ad appalti, ecc. peraltro finora resi
impossibili dalla pesante situazione militare sul terreno, destinata a
protrarsi per almeno un anno. Delinea invece per il nostro paese un impegno
civile ad alto livello, alternativo a quello puramente militare od
economico, che può essere difeso e proposto nelle sedi internazionali.

In ultimo, un pensiero ai movimenti per la pace

In ultimo rivolgiamo un pensiero all'articolato mondo dei movimenti della
pace, ai tantissimi volti e gruppi che operarono quotidianamente per "la
pace" e per una "cultura nonviolenta" nelle relazioni: siamo convinti che
non ci si possa esimere, partendo dai territori, dal continuare ad
esprimere la propria "indignazione",  riaffermando, in Italia e nel mondo,
che solo una vera cultura e conseguentemente, una politica di pace, è in
grado di dare un segnale di discontinuità alle logiche di guerra permanente.


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