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Elezioni palestinesi: tentativo di analisi
- Subject: Elezioni palestinesi: tentativo di analisi
- From: Nathan Never <natnev at interfree.it>
- Date: Mon, 13 Feb 2006 18:56:41 +0100
A seguire il resoconto di uno degli osservatori elettorali della missione di Action For Peace" alle elezioni palestinesi.
Nathan Never ELEZIONI POLITICHE PALESTINESI (gennaio 2006) alcuni dati e un tentativo di analisi Politiche e Presidenziali 1996Le prime elezioni nei territori palestinesi si sono tenute nel 1996 come risultato degli accordi di Oslo che prevedevano la creazione di un organo di autogoverno dei palestinesi nei territori occupati (Autorità Nazionale Palestinese), Hamas, contraria gli accordi non partecipò alle elezioni. Le elezioni per la presidenza dell’ANP nel 1996 videro la netta affermazione Abu Ammar (Arafat) che vinse con l’88,2 % delle preferenze, la sua unica sfidante Samiha Khalil si fermò all’11,5 %. Alle elezioni del 1996 per il parlamento palestinese (PLC - Palestinian Legislative Council) gli elettori registrati erano 1.028.280, parteciparono al voto il 71.66% degli aventi diritto, il parlamento eletto (88 seggi) era così composto:
- Fatah: 55 seggi - Indipendenti (appoggio a Fatah): 7 seggi - Islamici indipendenti: 4 seggi - Cristiani indipendenti: 3 seggi* - Indipendenti: 15 seggi - Samaritani: 1 seggio* - Altri: 1 seggio - Vacanti: 2 seggi* (la legge elettorale del 1995 prevedeva tre seggi da assegnare ai Cristiani e uno ai Samaritani) La legge non prevedeva una quota per le donne, furono comunque 5 le donne elette tra le 25 candidate.
Il mandato del presidente e del PLC dura quattro anni, scadeva quindi nel 2000, lo scoppio della seconda intifada e la percezione da parte di Fatah che il suo consenso si era eroso, hanno fatto slittare le elezioni di quasi sei anni.
Presidenziali 2005Dopo la morte di Arafat nel novembre del 2004, sono state indette nuove elezioni per la Presidenza dell’ANP, le elezioni del gennaio del 2005 eleggono Abu Mazen con il 62% dei consensi, Hamas non presenta suoi candidati, quello che segue è un prospetto dettagliato dei risultati:
1) Mahmoud Abbas-Abu Mazen, candidato di Fatah (62.52%) 2) Mustafa Barghouthi, candidato indipendente (19.48%)3) Tayseer Khaled, candidato del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (3.35%)
4) Abd Al-Halim Al-Ashqar, candidato indipendente (2.76%) 5) Bassam Al-Salhi, candidato del Partito del Popolo (2.67%) 6) Sayyed Barakeh, candidato indipendente (1.30%) 7) Abd Al Karim Shbair, candidato independente (0.71%) Politiche 2006La nuova legge elettorale approvata nell’agosto del 2005 prevede un aumento dei seggi da 88 a 132. La metà dei seggi si elegge (come nel 1996) con un sistema maggioritario che divide i territori occupati in 16 distretti elettorali (11 nella West Bank e 5 nella striscia di Gaza), ognuno dei quali elegge un numero di parlamentari proporzionale al numero di abitanti del distretto secondo lo schema che segue:
WEST BANK 1) Gerusalemme: 6 seggi (2 cristiani) 2) Tubas: 1 seggio 3) Tulkarem: 3 seggi 4) Qalqilya: 2 seggi 5) Salfit: 1 seggio 6) Nablus: 6 seggi 7) Jericho: 1 seggio 8) Ramallah & al-Bireh: 5 seggi (1 cristiani) 9) Jenin: 4 seggi 10) Betlemme: 4 seggi (2 cristiani) 11) Hebron: 9 seggi GAZA 12) Gaza Nord: 5 seggi 13) Gaza: 8 seggi (1 cristiani) 14) Deir al- Balah: 3 seggi 15) Khan Younis: 5 seggi 16) Rafah: 3 seggi TOTALE: 66 seggi (di cui sei da assegnare ai cristiani)L’altra metà dei seggi si elegge attraverso un sistema proporzionale con lo sbarramento al 2%, i partiti e i movimenti politici presentano delle liste chiuse di candidati, tutti i territori occupati sono considerati un’unica circoscrizione elettorale, viene eletto un numero di candidati proporzionale ai voti presi dalla lista, seguendo l’ordine in cui compaiono nella lista (è lo stesso sistema proporzionale con liste bloccate con il quale voteremo in Italia ad aprile del 2006). Nelle liste nazionali (proporzionale) c’è un 20 % di quota riservata alle donne, in pratica compare una donna ogni cinque candidati. Nelle liste dei distretti (maggioritario) non sono previste quote per le donne, tra i 414 candidati dei distretti compaiono solo 15 donne.
LISTE NAZIONALI1) L'alternativa (coalizione tra Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina, FIDA, Partito del Popolo e indipendenti)
2) Palestina Indipendente (guidata da Mustafa Barghouthi)3) Martiri di Abu Ali Mustafa (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina)
4) Martiri di Abu al Abbas (Fronte Lotta Popolare) 5) Libertà e Giustizia Sociale 6) Cambiamento e Riforma (Hamas) 7) Coalizione Nazionale per la Giustizia e la democrazia (Wa’ad) 8) La Terza Via (guidata da Salam Fayyad e Hanan Ashrawi) 9) Libertà ed Indipendenza 10) Giustizia Palestinese11) Movimento di Liberazione Nazionale Palestinese - Fatah (capolista Marwan Barghouthi)
Gli elettori registrati sono stati 1.341.671, hanno partecipato al voto 1.011.992 a cui vanno aggiunti circa 50.000 membri delle forze di sicurezza che hanno votato con 48 ore di anticipo, l’affluenza è stata del 77% degli aventi diritto, questi i risultati definitivi:
FORMAZIONE POLITICA - Voti (numero) - (%) - Seggi (proporzionale/uninominale)
Cambiamento e Riforma (Hamas) - 434.817 - 42.9 - 76 (30/46) Fatah - 403.458 - 39.8 - 43 (27/16) Martiri di Abu Ali Mustafa (FPLP) - 41.671 - 4.1 - 3 (3/0) L'alternativa (FDLP,PP,FIDA,indipen.) - 28.779 - 2.8 - 2 (2/0) Palestina Indipendente - 26.554 - 2.6 - 2 (2/0) La Terza Via - 23.513 - 2.3 - 2 (2/0) Indipendenti (di cui 3 vicini ad Hamas) - 4 (0/4) Altri - 53.200 - 5.2 - 0 (0) TOTALE: 1.011.992 - 100 - 132 (66/66)Il numero delle parlamentari donne è passato da sei a sedici, quasi tutte elette nelle liste nazionali in virtù della quota a loro riservata.
Lezioni di democrazia Israele non è più l’unica democrazia del medioriente,Le elezioni palestinesi sono state monitorate da 17.200 osservatori locali, e da circa 800 tra osservatori “ufficiali” (unione europea e nazioni unite) e “volontari” (associazioni, partiti e reti di solidarietà internazionali, tra cui noi della missione di Action For Peace) Il nostro intento primario non era quello di verificare la correttezza delle operazioni di voto ma di controllare che le forze di occupazione israeliane garantissero la libertà di movimento e permettessero ai/alle palestinesi di esercitare il loro diritto di voto. Premesso ciò, rileviamo ancora una volta (come alle presidenziali del 2005) che le operazioni di voto si sono svolte in modo corretto e trasparente; il silenzio elettorale e il divieto di campagna elettorale all’esterno dei seggi è stato spesso disatteso, anche se in modo proporzionale al peso politico delle varie forze in gioco, e nessuno ne ha tratto vantaggi eccessivi.
E’ importante tenere presente un dato::L’ANP governa un territorio che da 39 anni è occupato militarmente da un’altro stato, un’occupazione la cui brutalità è cresciuta in maniera impressionante dallo scoppio della seconda intifada nel 2000. L’avanzare inesorabile del muro e delle colonie stanno frazionando, secondo un metodo scientifico, quel 22% di territorio che resta della Palestina storica (sul quale dovrebbe nascere lo stato palestinese), le difficoltà di movimento dovute ai check point, l’elevato tasso di disoccupazione e gli oltre 9000 prigionieri palestinesi ancora nelle galere israeliane (tra cui una decina di candidati delle diverse liste) sono solo gli aspetti più evidenti del perdurare dell’occupazione. Aspetti che ricordano quotidianamente, ai palestinesi prima che alla comunità internazionale, a che punto è il processo di pace, smascherando senza troppe difficoltà le mitologie circolanti sui media rispetto al disimpegno da Gaza e alle presunte aspirazioni alla pace di Sharon e del governo israeliano. In questo contesto, ricordiamolo sempre, oltre un milione di palestinesi si sono disciplinatamente messi in fila fuori dai seggi il 25 gennaio dalle prime luci dell’alba fino a sera. In questo contesto, fuori dai seggi (in modo un po meno disciplinato) hanno dato vita ad una sorta di festa popolare in cui tutti: giovani e anziani, donne e bambini, ognuno con le proprie bandiere e i propri colori, esprimevano la gioia, l’orgoglio e la consapevolezza di essere partecipi di un momento storico per i palestinesi e non solo. I palestinesi e le palestinesi hanno dato al tutto il mondo una lezione di democrazia. Al mondo arabo innanzitutto, in cui le elezioni quando ci sono, sono parziali e poco significative sulle scelte dei governi; e poi al mondo occidentale che accecato da una rigurgito neocolonialista ed etnocentrico considera “democratiche” solo le scelte gli risultano gradite e sulle quali può esercitare una qualche influenza (Iraq, Afghanistan)
Cambiamento e RiformaTutti si aspettavano una buona affermazione di Hamas alle elezioni, lo scenario più probabile prevedeva che prendesse una maggioranza relativa costringendola a cercare alleati tra le altre forze politiche per far nascere un governo di coalizione. Come abbiamo visto le cose sono andate diversamente, sorprendendo forse, gli stessi esponenti di Hamas. Il sistema elettorale misto, comunque a base maggioritaria, ha permesso ad Hamas di conquistare la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento con meno del 43% dei consensi (Fatah staccata di soli 3 punti percentuale, ottiene circa 30 seggi in meno). Una vittoria schiacciante soprattutto nei distretti locali, dove Fatah certo paga il prezzo di divisioni interne (molti candidati di Fatah si sono presentati come indipendenti), di anni malgoverno e corruzione ma anche, e sopratutto, dello scarso radicamento sul territorio dei candidati; esponenti dell’alta borghesia e di famiglie il cui prestigio risale alla dominazione ottomana; imprenditori e politici di professione che si muovono con auto di lusso dalle proprie dorate residenze verso Ramallah o Amman, aggirando con permessi ed espedienti i blocchi e le chiusure che la gente normale deve subire. Hamas ha risposto con persone semplici dalla provata onestà, vicini alle esigenze del popolo, spesso provenienti da quel laboratorio di disperazione, povertà e radicalismo che sono i campi profughi. Religiosi, insegnanti, professionisti che per conto di Hamas e con fondi provenienti dagli stati petroliferi del golfo (Arabia Saudita in primis) sono stati promotori di iniziative a carattere sociale che in questi anni hanno riempito il vuoto di servizi esistente. Mancanza di strutture e servizi sociali (ospedali, scuole, etc) prodotto dalla mala amministrazione di Fatah e dalla politica israeliana che durante l’intifada ha preso di mira tutte le infrastrutture dell’ANP.
La vittoria di Hamas è soprattutto il risultato del desiderio di cambiamento di un popolo sfiduciato e deluso, abbandonato dalla comunità internazionale e dal suo diritto che dimostra ancora una volta di essere “universalmente riconosciuto” solo quando è funzionale a determinati interessi. La società palestinese non è diventata una società islamica il 25 di gennaio. Il laicismo che l’ha sempre caratterizzata ha cominciato a scricchiolare negli ultimi 15 anni a causa del continuo peggioramento della situazione sul terreno che ha portato la popolazione (sopratutto quella più giovane che è la maggioranza) a cercare conforto nella religiosità. Un sentimento che è stato strumentalizzato dai movimenti politici internazionali di ispirazione islamica, all’inizio anche dal governo israeliano, con l’intento di indebolire Fatah e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, tradizionalmente laiche. Le istanze islamiche all’interno della società palestinese non rappresentano comunque più di un terzo della popolazione. Il resto dell’elettorato di Hamas esprime un voto di protesta, contro la corruzione e le divisioni dentro Fatah, ma anche un monito per le forze laiche e democratiche della sinistra radicale che si è presentata divisa in quattro liste riuscendo a raccogliere meno del 12% dei consensi e ottenendo appena 9 seggi.
Scenari futuri (Palestina)Hamas potrebbe governare da sola, ma non vuole, e forse non è in grado di farlo. Molti dei capi politici e militari sono stati uccisi o sono in prigione, fino ad oggi Hamas ha governato solo alcune amministrazioni locali (spesso in giunte miste con Fatah o con la sinistra), non sappiamo se ha le competenze e gli uomini (o le donne) necessarie per amministrare uno stato, se pure embrionale come l’ANP. I risultati elettorali hanno lasciato spiazzati gli stessi politici di Hamas, che stanno gestendo questa prima fase post-elettorale con un pragmatismo e un’intelligenza che lascia delusi molti osservatori occidentali che preferirebbero vedere confermate la tesi secondo la quale “i barbari hanno preso il potere”. L’invito fatto a Fatah di dare vita ad un governo di unità nazionale ha un doppio significato. Da un lato solleva Hamas da parte delle responsabilità che comporta l’amministrazione dell’ANP riservandosi di governare i settori in cui si sente sicura come l’educazione e la sanità o quelli in cui pensa sia necessaria una forte inversione di tendenza, l’economia sopratutto, ma anche la sicurezza interna. Questo gli permetterebbe di lasciare settori più delicati e spinosi come la politica estera o la difesa a Fatah (ed eventualmente ad altre forze di sinistra), per poter in futuro scaricare su di loro le colpe di un eventuale fallimento. Questo introduce un’elemento di novità spesso sottovalutato, che è il secondo significato di questa scelta. Un governo democratico è un governo che rappresenta tutte le componenti di uno stato, che Hamas rappresentasse una porzione rilevate della popolazione palestinese è una cosa nota da tempo. Fino ad oggi però è stato impossibile includere Hamas nel governo dell’ANP, se Abu Mazen, o Arafat prima di lui, lo avessero fatto, avrebbero offerto la sponda ad accuse di “radicalismo” da parte della comunità internazionale e di Israele. Ora la situazione è ribaltata, se Hamas riesce a formare un governo di larga coalizione, questa sarà avvertita dal mondo come una scelta di “moderatismo”. Quando una forza radicale entra nel gioco politico, scende anche a patti con le regole della politica, che costringe a cercare compromessi e alleanze, è con questa esigenza che Hamas ora si trova a fare i conti.
Questo è un dato positivo, sul quale bisognerebbe riflettere.Gli scenari apocalittici e funzionali allo scontro di civiltà che prevedono la nascita di uno stato islamico con la Shari’a come legge di stato in Palestina, sembrano poco credibili, almeno nel breve periodo. Come si è detto la maggioranza del popolo palestinese non desidera lo stato islamico che pure, innegabilmente è nelle aspirazioni di Hamas, il tessuto della società civile palestinese è vigile, abbiamo visto già dai primi giorni una rinnovata attenzione da parte delle associazioni e dei comitati di donne, di lavoratori e dei diritti umani sulle intenzioni di Hamas in questi campi. Le resistenze del tessuto democratico palestinese sono fortunatamente molto forti, tutti nei territori della Palestina occupata se ne rendono conto e nessuno è disposto a rischiare una guerra civile per imporre il velo alle donne o per vietare la vendita di alcolici…
Scenari futuri (Israele e il resto del mondo)Sarebbe forse il caso di sorvolare sulle reazioni a dir poco scomposte della comunità internazionale rispetto alla vittoria di Hamas, forse sarebbe il caso di sorvolare, o forse no. Che gli Stati Uniti d’America reagiscano in modo miope ed irresponsabile non stupisce nessuno. Invece stupisce, dispiace e preoccupa la reazione dell’Europa e anche di larga parte della sinistra italiana. Hamas è una delle componenti della resistenza palestinese, la cui politica, tra l’altro fallimentare, degli attentati suicidi contro i civili israeliani, non è approvabile ne difendibile, ma è l’espressione politica democraticamente eletta di un popolo, rimarrà al governo (se ci riesce) per i prossimi quattro anni, poi se le politiche che attuerà saranno soddisfacenti agli occhi della maggioranza dei palestinesi sarà riconfermata, altrimenti sarà sostituita da un’altra maggioranza.
Come è normale che sia in un qualunque sistema democratico che funzioni.Nessuno si stupisce o si indigna se in Israele viene eletto primo ministro un criminale di guerra condannato per crimini contro l’umanità, o se nel parlamento israeliano forze fondamentaliste e razziste hanno un peso notevole nelle scelte del governo, nessuno minaccia di bloccare i finanziamenti esteri senza i quali, lo sappiamo bene, l’economia israeliana collasserebbe. Lo stesso rispetto per la democrazia e per le scelte di un popolo è non solo auspicabile rispetto alle elezioni palestinesi, ma anche necessario, altrimenti corriamo il rischio di ripetere gli stessi errori commessi una quindicina di anni fa in Algeria, dove un governo democraticamente eletto è stato rovesciato da un colpo di stato con l’approvazione dell’occidente, dando inizio ad una sanguinosa guerra civile che ha provocato più di un milione di morti. Il concetto stesso di terrorismo in Palestina-Israele è relativo, nella seconda intifada sono morti un migliaio di israeliani e più di tremila palestinesi, la maggior parte dei quali erano civili, bombardati da caccia, abbattuti da cecchini o semplicemente lasciati morire in un’ambulanza ferma ad un check point, effetti collaterali di una guerra condotta (come tutte le guerre moderne) con metodi terroristici e criminali. Se l’Europa e soprattutto la sinistra europea vuole veramente contrastare la politica neo-imperialista dell’attuale amministrazione americana e dei suoi alleati, è ora che cominci a porsi come reale alternativa sopratutto sui grandi temi di politica internazionale, altrimenti non ci sarà argine a lento franamento verso la guerra di civiltà. Hamas ha detto molto chiaramente che è ben disposta verso gli aiuti e l’amicizia dei paesi occidentali, ha detto altrettanto chiaramente che, poiché il popolo palestinese non può fare a meno dei finanziamenti esteri, se l’occidente blocca gli aiuti, andrà a cercare quegli aiuti altrove, e altrove significa in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi, in Iran, e negli stati “amici” che già da anni finanziano il movimento di Hamas. Tutti ci auguriamo che l’Europa e la sinistra siano in grado di fare scelte adeguate alla sfida e non decidano invece di lasciare la questione del finanziamento nelle mani di regimi che totalitari e oppressivi lo sono da decenni, non da oggi.
Rispetto alle relazioni tra Hamas e lo stato d’Israele il discorso è più complesso, ma non privo di risvolti interessanti. La prima cosa sulla quale fare chiarezza è la questione della presunta volontà di distruzione dello stato di Israele da parte di Hamas, che (formalmente) non ne riconosce l’esistenza. Come sappiamo le elezioni e l’ANP sono un prodotto degli accordi di Oslo che prevedevano appunto il riconoscimento da parte dei palestinesi del diritto ad esistere dello stato d’Israele, e come abbiamo detto Hamas non vi partecipò. E’ chiaro che a dispetto delle dichiarazioni di forma dettate spesso dalla necessità di mantenere un consenso tra la popolazione, la sua partecipazione a queste elezioni e precedentemente l’aver stipulato una tregua (tuttora in vigore) con Israele, dimostrano che nei fatti Hamas riconosce lo stato d’Israele come soggetto con il quale trattare. D’altro canto in Israele le dichiarazioni della prima ora sono state quelle che tutti ci aspettavamo: “non trattiamo con i terroristi” “non c’è partner per la pace” etc. etc. Che sono poi le stesse dichiarazioni sentite negli anni passati riferite all’OLP, ad Arafat, all’ANP o ad Abu Mazen. Però già si sente qualche voce affermare che essendo Hamas la forza più intransigente rispetto a Israele è proprio con lei che bisogna trattare. Certo a marzo ci saranno le elezioni anche in Israele e durante la campagna elettorale la destra non esiterà ad usare la vittoria di Hamas contro i suoi nemici politici, affermando che è un risultato del disimpegno da Gaza. Ancora una volta c’è da augurarsi che il nuovo partito laburista guidato da Peretz, un sefardita che sin dall’inizio si è detto disposto a dialogare con i palestinesi, sappia rispondere ponendosi come reale alternativa. Di sicuro bisogna rilevare che il tempo in cui Rabin e Arafat miravano a trovare una soluzione definitiva al conflitto è passato, da anni in Israele, e ora anche in Palestina, non c’è nessuno che stia lavorando ad una soluzione definitiva, entrambi gli attori di questo conflitto sono convinti il tempo giochi a loro favore. E infatti il primo segnale di Hamas nei confronti di Israele è la disponibilità a trattare una tregua anche decennale in cambio di una cessione di territori da parte di Israele, che è all’incirca l’offerta che Peretz farebbe se vincesse le elezioni…
Ettore Acocella osservatore elettorale per conto dell’Associazione per la PaceN.B. per la parte riguardante gli effetti delle elezioni palestinesi sulla società israeliana ho attinto da una breve conferenza tenuta dal sempre lucido Michel Warschawski a Gerusalemme un paio giorni dopo le elezioni.
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