Una pericolosa impennata PALESTINA







           Una pericolosa
           impennata  religiosa




           Ali Rashid con
           Mauro  Buonocore





    "Il tempo purtroppo non è galantuomo -  dice Ali Rashid parlando della
    sua Palestina - ma spero che il buon senso  prevalga". Parole amare che
    si aprono alla speranza dal primo segretario  della delegazione
    dell'Anp in Italia, l'uomo politico che, formatosi tra  le file di al
    Fatah, racconta la sconfitta del suo partito, ma soprattutto  parla di
    un Medio Oriente che vede le forze politiche religiose alzare la  testa
    e crescere nei voti. Come Hamas, come i Fratelli Mussulmani in  Egitto,
    come il partito islamico iraniano. E allora il buon senso, secondo
    Rashid, segna la via per fare in modo che i palestinesi che hanno
    votato  Hamas ci ripensino, ma è una strada che richiede l'impegno di
    Israele e  della comunità internazionale a "far rispettare il diritto
    internazionale  che parla di uno stato Palestinese entro i confini
    stabiliti dall'accordo  di Oslo del '93" l'alternativa, pericolosa, è
    fatta di un Occidente  democratico e minaccioso che con la sua
    intransigenza rischia di  "compattare sciiti e sunniti contro il comune
    nemico americano".

    Perché i palestinesi hanno scelto  Hamas?

    I motivi sono tanti e diversi.  Innanzitutto non tutti quelli che hanno
    votato Hamas ne condividono la  strategia politica; si è trattato in
    molti casi di un voto di protesta,  diretto soprattutto contro l'Anp la
    cui gestione di quel poco potere che  ha avuto non ha soddisfatto gli
    elettori.
    Un'altra protesta emersa  dalla scelta elettorale, era diretta contro
    la politica israeliana che, a  più di dieci anni dagli accordi di Oslo,
    non ha dato alcun risultato  positivo: l'occupazione continua e la
    situazione economica va  peggiorando.
    Un'altra protesta espressa dal voto era, poi, diretta  contro la
    comunità internazionale che non ha fatto nulla per indurre  Israele a
    rispettare il diritto e la legalità internazionale. L'accordo di  Oslo
    prevede due cose: il ritiro di Israele dai territori occupati dopo la
    guerra del '67, compresa quindi Gerusalemme, e la creazione di uno
    stato  palestinese sovrano su questi territori. Il tutto sarebbe dovuto
    avvenire  entro cinque anni dalla firma dell'accordo, eravamo nel '93 e
    fino a oggi  non si è realizzato nulla di questo.

    Come possiamo descrivere il  movimento politico di Hamas?

    È un movimento che ha fatto uso del  terrorismo, è vero, ma non si può
    liquidare semplicemente come un gruppo  di terroristi. È un movimento
    che chiede la fine dell'occupazione dei  territori palestinesi, una
    forza politica con un'anima popolare, radicata  sul territorio, e che
    ha offerto ai palestinesi alcuni servizi  fondamentali che l'Anp non
    era in grado di fornire, come sanità educazione  e lavoro. Io non
    appartengo alla cultura di Hamas, vengo da un'altra  esperienza, faccio
    parte della parte che è stata sconfitta alle ultime  elezioni, però
    devo ammettere che Fatah ha dimostrato tutta la sua  inefficienza e ha
    imboccato una strada che non porta a nulla.

    Da movimento leader dell'Anp,  Fatah è entrato in un momento di crisi.
    Come si spiega questa evoluzione  negativa e dove arriverà?

    Fatah non è riuscito a dare al popolo  palestinese i servizi di cui
    aveva bisogno perché non aveva fondi  sufficienti e poi c'è stata una
    gestione pessima e per niente trasparente.  Si può dire che sia
    successo ad al Fatah quello che nella storia è  successo a molte forze
    politiche che per lunghi anni hanno svolto un ruolo  di guida. In
    questi casi riuscire a portare a termine una riforma concreta  è
    difficile e richiede tempi lunghi perché è il frutto di un accumulo di
    sbagli e di un mancato rinnovamento che si aspetta da tempo. Ma non è
    una  situazione che riguarda solo Fatah, vi è coinvolto tutto il
    movimento  laico palestinese, anche la sinistra più radicale. In Medio
    Oriente oggi  assistiamo alla crescita di movimenti politici molto
    lontani dalle  tendenze più laiche e progressiste; in Israele come in
    Palestina e in  tutto il mondo arabo, c'è un'ondata di forze politiche
    di matrice  religiosa, ebraiche in Israele e islamiche nei paesi
    mussulmani, che nasce  e cresce a causa del fallimento della politica.

    Le difficoltà di Fatah rientrano  quindi in una generale crisi politica
    del Medio  Oriente?

    Sì, e per trovarne le cause possiamo  isolare diversi elementi.
    Lo scontro israelo-palestinese per primo.  Israele si autodefinisce
    come stato ebraico in Medio Oriente; cosa vedono  gli occhi di un
    palestinese? Vedono persone accolte con pieni diritti  nella democrazia
    israeliana per il solo fatto di essere ebrei; e poi  vedono i
    palestinesi - che non hanno altre patrie nel mondo, che sono nati  in
    quella terra e ci vivono da generazioni - privati dei loro diritti,
    delle loro case, delle loro libertà, delle loro terre.
    Questa  situazione condiziona le risposte che danno i palestinesi, le
    loro scelte.  Da parte nostra, Fatah ha cercato di condurre la nostra
    lotta di  liberazione nazionale su basin laiche e progressiste,
    riconoscendo la  legalità e il diritto internazionali, abiiamo
    probabilmente commesso degli  sbagli ma il quadro generale che ci
    ispirava era questo.
    Secondo  elemento: la repressione. Spesso nel mondo arabo il movimento
    progressista  e democratico è stato represso nel sangue da regimi che
    per la maggior  parte sono sostenuti dall'Occidente e dagli Stati
    Uniti. In mancanza di  spazi di libertà democratica, tra un dittatore e
    Allah, la gente sceglie  la religione perché non ci sono alternative
    valide. Così possiamo spiegare  l'ascesa di forze islamiste in Egitto,
    in Giordania, in Iraq e in  Iran.

    Terzo elemento: la guerra in Iraq. Gli  americani avevano individuato
    l'Islam come il nemico principale producendo  così una devastazione
    politica e culturale; in un simile clima la gente  crede sempre meno
    nella democrazia, o nella democrazia che vorrebbe  esportare l'America
    in Medio Oriente.
    Credo quindi che Hamas, insieme  all'avanzata di tutte le forze
    politiche religiose, è il prodotto di un  degrado e della risposta
    semplicistica che dal degrado si  genera.

    E Hamas ha una maggioranza molto  ampia nell'Anp. Perché sta cercando
    un accordo di governo con Fatah se ha  i numeri per governare da solo?

    Hamas non è un partito di fanatici  ignoranti che non sanno quello che
    vogliono. Sanno bene che la situazione  è difficile, e propongono un
    governo di coalizione a tutte le forze  politiche, non solo a Fatah,
    cercano di formare un governo di unità  nazionale per evitare scontri
    interni, compattare la politica palestinese  verso obiettivi e
    programmi comuni e scongiurare fratture interne.

    Lei ha scritto in un recente  articolo che il processo di pace in Medio
    Oriente è finito con la morte di  Rabin. Ora, con la vittoria di Hamas,
    quale novità può affacciarsi alla  situazione israelo-palestinese?

    Credo che la vittoria di Hamas dovrebbe  portare tutti a fare un esame
    di coscienza. Negli ultimi anni di  trattative non si è ottenuto nulla
    e Israele ha sempre assunto la  posizione di chi fa concessioni, non di
    chi trova un accordo. Così non può  proprio andare, non vogliamo certo
    dettare le condizioni del dialogo, ma  vogliamo vedere con chiarezza su
    che terreno camminano le trattative e  dove vogliono arrivare. Tutti
    dicono di volere la pace; bene. Ma cosa  significa "la pace"? Fine
    dell'occupazione israeliana dai Territori  occupati, il riconoscimento
    di due stati per due popoli, ma entro i  confini esistenti prima del
    '67, parlare di due stati non basta.
    La  comunità internazionale deve capire che al momento il processo di
    pace è  diventato una farsa.

    Secondo lei cosa succederà  adesso?

    Credo che il ricatto di Usa e Ue che  minacciano di tagliare gli aiuti
    economici alla Palestina non faccia altro  che contribuire a una
    ulteriore destabilizzazione della situazione. E  credo che la comunità
    internazionale non abbia nessun interesse a far  crescere la tensione.
    Le politiche sbagliate in Iraq e in Palestina hanno  aumentato e
    rinvigorito il terrorismo, hanno dato una forte mano a questa  ondata
    di islamizzazione della società e della politica. Se compiranno con
    Hamas lo stesso errore che stanno compiendo in Iraq, rischiano di unire
    il  mondo sunnita e sciita insieme contro il "nemico americano" e
    allora addio  democrazia e libertà.


    http://www.caffeeuropa.it/pensareeuropa/294rashid.html