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Buddha si è fermato a Thimphu
- Subject: Buddha si è fermato a Thimphu
- From: "Gagliardii Angelica" <angelicagagliardi at libero.it>
- Date: Thu, 8 Dec 2005 09:50:42 +0100
*** > Schiacciato tra l'India e la Cina, il piccolo Bhutan > cerca di resistere alla globalizzazione. Aggrappandosi > alle proprie tradizioni etniche e religiose con leggi > severissime. Di Alessandro Gilioli *** Schiacciato tra la Cina del boom industriale e l'India del decollo informatico c'è un paese quasi sconosciuto e appena più grande della Svizzera dove lo spettro della globalizzazione si aggira ancora invisibile ai più ma ben presente negli incubi della sua classe dirigente e dei suoi intellettuali. Il Bhutan, 750 mila persone incastonate nelle vette dell'Himalaya e nella tradizione del buddhismo tantrico, è una piccola grande metafora delle angosce e delle ambivalenze di tanta parte dell'umanità, lacerata tra desiderio di futuro e nostalgia di premoderno, tra aspro individualismo liberale e dolce ricordo di una società coesa in cui tutto, dai valori morali al riso piccante, viene condiviso in nome del bene comune. Sulle guide e nei dépliant il Bhutan è un lezioso presepe di felicità, immune dai vizi degradanti delle società aperte. I perfetti paesaggi montani, i limpidi monasteri lamaisti e le contadine sempre sorridenti nei campi fanno scattare nei cuori occidentali la convinzione di aver infine trovato la mitica Shangri La, terra pura e senza peccato dove non si conoscono egoismi e McDonald's, ingorghi di traffico e avidità di profitto. Appagati da questa lettura naïf, gli stranieri che vanno su e giù per i monti chiusi nei loro minibus finiscono il più delle volte per non vedere le mille contraddizioni di un paese stritolato dai suoi due rampanti e giganteschi vicini, terrorizzato quindi all'idea di perdere la propria antica identità, ma nel contempo attratto dal luccicante pianeta che - attraverso le parabole satellitari - entra nelle case bianche di calce e di legno, dove l'odore degli animali si mescola con quello dei peperoncini grigliati. Già, perché il Bhutan del 2005 è una monarchia assoluta (ancora per poco) e profondamente buddhista (chissà per quanto) dove il re ha studiato economia a Oxford e quando è tornato a casa ha iniziato a parlare ai suoi attoniti sudditi di 'processi organizzativi bottom-up' e di 'vision democratica'. In altre parole, il sovrano ha capito che il sistema teocratico ereditato da papà non poteva affrontare il XXI secolo e ha quindi imposto al suo popolo un po' riottoso un processo di modernizzazione con obiettivi finali nel 2020 e una Costituzione che invece entrerà in vigore già fra tre anni. Per realizzare l'obiettivo, il re ha spedito i migliori intellettuali del paese a studiare 52 diversi statuti in tutto il mondo per trarne infine uno proprio mescolando - dicono - il meglio di quello che c'era in giro. A fronte di questa nobile autoriduzione di potere, il re e i gerarchi di Thimphu hanno tuttavia stretto le corde attorno alle tradizioni culturali, etniche e religiose del paese, tentando una difficile strada in cui all'evoluzione politica ed economica non corrisponde un'uguale modernizzazione dei costumi. Sicché il governo di Sua Maestà continua a varare leggi un po' talebane per imporre a tutti, ad esempio, di indossare il bakkhoo, l'abito tradizionale, una bella vestaglia grigia o a righe che però lascia scoperte le gambe dal ginocchio in giù e dunque non è graditissima nei rigidi inverni himalayani. Molti giovani se ne fregano e, almeno in città, girano in jeans extralarge e felpa col cappuccio, sfidando la riprovazione dei monaci e dei funzionari di Stato. Ma in molte occasioni e per molti mestieri la veste tradizionale obbligatoria non prevede eccezioni e chi non la porta rischia grane, multe, a volte perfino il licenziamento. Per salvaguardare ulteriormente l'incontaminata purezza dell'oleografia bhutanese, un anno fa è stato anche introdotto il divieto totale di fumo in tutto il territorio nazionale: le sigarette, hanno spiegato gli alti papaveri di Thimphu, vanno contro le pratiche di purificazione buddhista. Il divieto ha portato naturalmente a un boom del contrabbando di stecche dalla porosa frontiera indiana e a un conseguente aumento del prezzo da uno a cinque dollari al pacchetto. Chi fuma comunque lo fa di nascosto, perché a venir beccati si rischia una multa di 120 dollari (uno stipendio medio mensile) e, alla terza volta, sei mesi di galera. Tra le conseguenze di questa crociata c'è un discreto aumento nel consumo di droghe leggere, fatto forse inevitabile in un paese dove la marijuana cresce spontanea ai bordi delle strade, tanto che nelle campagne è antico uso mescolarla al cibo dei maiali affinché s'impigriscano e ingrassino. Anche tra gli umani tuttavia la 'ganja' è da sempre assai popolare e ogni bhutanese sopra i 12 anni è in grado di spremerne le foglie tra le mani nude per ottenere in quarto d'ora un panetto nero di ottima qualità. Ma a preoccupare i custodi dell'ortodossia non sono tanto le canne - in fondo parte anche loro della tradizione - quanto le droghe chimiche che vengono dall'India e piacciono un po' troppo ai ragazzi di qui: come il Corex, uno sciroppo per la tosse che arriva nascosto nei Tir dall'Assam e che assunto in quantità pare abbia effetti simili all'Lsd; o come le colle da inalare, i solventi industriali e altre porcherie sintetiche che mal si conciliano con il modello propagandato all'estero dal governo di Thimphu, quello di una società dove il tasso di 'felicità interna lorda' è tenuto in conto come e più del Pil. A creare una fascia di giovani emarginati contribuisce anche la severità della scuola, completamente gratuita (caso unico in tutta l'Asia) ma improntata a rigidi criteri meritocratici che portano molti studenti a mollare prima del tempo, ma dopo aver assaggiato quei bocconi di mondo che ne rendono difficile il riassorbimento nelle fattorie isolate tra i monti. Così, invece di tornare al villaggio, i ripetenti restano in città a vivacchiare spesso ai limiti della legge. Si tratta, beninteso, di dettagli umani minori in un panorama di alto controllo sociale che fa del Bhutan il paese più sicuro dell'area, guardato spesso con invidia dai vicini indiani, che pure ne foraggiano l'economia acquistando l'energia idroelettrica di cui il paese himalayano è ricco. Ma oltre alle rupie, l'India spedisce verso il suo vicino settentrionale anche migliaia di migranti affamati, ragazzi del West Bengala o dell'Arunachal Pradesh che di solito finiscono a lavorare nei cantieri edili di Stato per una paga tra i 100 e i 150 ngultrum al giorno, vale a dire dai due o tre dollari, insomma una miseria ma sempre meglio che a casa. Gli indiani li vedi spuntar fuori nel tardo pomeriggio, quando dopo 12 ore di fatiche prendono a girovagare un po' storti nei villaggi, spesso abbracciati tra loro e sempre guardati con alterigia dai datori di lavoro locali. Quando il buio cala del tutto, i paria tornano a dormire nelle loro baracche senza luce né acqua, le uniche case del paese non costruite secondo i dettami dello stile dzong imposto per legge a tutti gli edifici del Bhutan. Dopo un paio d'anni le bidonville verranno distrutte e gli immigrati rispediti a casa, perché il Regno del Drago tonante non vuole contaminarsi con i popoli stranieri del Sud. E la nuova Costituzione, per tanti versi avanzata, rende ancora più chiusi i percorsi del Dna locale, negando cittadinanza e residenza a eventuali figli di coppie miste. Anche la sanità - ben organizzata e totalmente gratuita come nemmeno a Cuba - è riservata ai bhutanesi doc, in un'ossessione di purezza razziale che viene giustificata come l'unico modo per far sopravvivere la specificità di un piccolo paese circondato dai due giganti più popolosi del mondo. Questa conservazione a tratti un po' fanatica di un sé considerato a rischio ha convinto il Bhutan a rimuovere il capitolo più vergognoso del suo passato e del suo presente, la feroce pulizia etnica che ha costretto 100 mila contadini del Sud di etnia nepalese e di religione induista a scappare dal territorio del regno tra l'85 e il '92, gente disperata ancor oggi rinchiusa nel filo spinato di sette campi profughi appena di là del confine. Ma l'ansiosa conservazione del proprio antico candore ha portato con sé anche norme di indubbia civiltà, come quelle che regolano la salvaguardia ambientale di una nazione ricoperta all'80 per cento da foreste incantate ancor oggi come mille anni fa. L'industria, appena accennata nelle pianure del Sud, sparisce del tutto con i primi rilievi perché il governo ritiene più lucroso lo sfruttamento intensivo dei turisti stranieri, disposti a pagare una paurosa tassa di visita (200 dollari al giorno a testa) per attraversare scenari naturalistici e percorsi spirituali che inondano l'anima. La serenità dei sorrisi dei lama fa a volte dimenticare che il clero buddhista è compenetrato nelle strutture del potere secolare a ogni livello, dai vertici della capitale fino agli astrologi di villaggio. E i monaci glabri vestiti di viola contribuiscono in ogni modo allo sforzo di preservare all'infinito il mito della purezza e dell'illuminazione che affascina tanto i seguaci occidentali di Siddharta, in fuga dalle incertezze intellettuali nostrane. Come poi l'attaccamento conservatore e ossessivo alla tradizione sia compatibile con la filosofia buddhista dell'impermanenza, questo è uno dei tanti misteri del Bhutan, troppo spesso visto e amato come una cartolina o un'utopia e che invece sembra solo una comunità in lotta con se stessa, incerta se chiudere gli occhi e sognare per sempre il proprio passato o aprirli per vedere il presente del mondo con le sue meraviglie, i suoi orrori, i suoi dubbi. Fonte: http://www.espressonline.it/eol/free/jsp/detail.jsp?m1s=null&m2s=mon&idCateg ory=4793&idContent=1201082
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