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diario da beirut n 13
- Subject: diario da beirut n 13
- From: marco at izona.it
- Date: Thu, 15 Sep 2005 15:45:31 +0200
La voce del Muezzin si stende sui tetti di Sabra e Chatila, la chiamata alla preghiera scandisce il tempo e da quassù il campo si mostra nella sua interezza. Solo cielo, verso il tramonto, attraversato da una busta di plastica nera legata a un bastone: il fruscio del vento accompagna i movimenti dello sbandieratore. Un fischio acuto si alza alle nuvole, una, due volte e un sibilo fende l’aria: è un mandarino che vola veloce dal tetto verso il basso mentre uno stormo di piccioni lo insegue. La vista, ampia, si apre sul mercato e la moschea, sulla strada di Chatila che si allunga verso il fondo, scopre il campo e le sue auto-costruzioni tra dedali di cavi elettrici. Più lontano ancora; le montagne ad Est, lo stadio ricostruito dopo la guerra e il mare ad Ovest. Beirut - nel mezzo - è una striscia di terra soffocata da palazzi, nuovi o in costruzione: una città che cambia rapidamente, all’architettura è stato attribuito il ruolo istituzionale di cancellarne memoria. I fischi si fanno numerosi, si accavallano l’un l’altro fino a coprire il rumore del traffico, smorzato dalla distanza. Il Gaza Hospital appare come un mostro di cemento armato, sul tetto del gigante dei ragazzi allevano piccioni per dargli il volo al tramonto. Ancora un fischio, a cui altri fanno eco; da qui scorgo lontano un'altra busta di plastica legata a un bastone, sventolata da un ragazzo su un tetto di Chatila: anche lui chiama e controlla il suo piccolo stormo che in formazione disegna il cielo. È una sorta di fionda quella che si fa roteare per lanciare i mandarini, che fendono l’aria per arrivare lontano seguiti dagli uccelli; sono quattro o cinque le squadre di piccioni nel cielo. Si incrociano, vanno e ritornano, ognuno cerca di rubarne qualcuno agli altri tendendo trappole con i retini sui tetti; è una sfida quotidiana, rinnovata al calar della sera. L’ora in qui questi ragazzi salgono le scale dell’ex-ospedale fino all’ultimo pianerottolo abitato, poi ancora più su attraverso una rampa di gradini rotti che porta all’ultimo piano, quello senza neanche le pareti che si affaccia ventoso all’esterno e dove vivono alcuni siriani. Da lì si arriva sul tetto, dove i piccioni riposano in gabbia. Ero con Alaa Al Alì affacciato alla balaustra del nono piano del Gaza Building, quando ho filmato per la prima volta il gioco dei piccioni; scorrevano parole di confidenze e loro movimentavano il cielo accompagnando i nostri discorsi, così siamo saliti di un paio di piani ancora e abbiamo raggiunto i ragazzi. La vita nello stabile prosegue lenta, sensazione amplificata dall’eco di voci e suoni che le danno una dimensione irreale, in contrasto con i caotici ritmi del mercato di Sabra. Nel Gaza Building i corridoi sono luoghi sociali, dove si siede in gruppo per fumare il narghilè o bere del tè, dove i bambini giocano a pallone o si rincorrono e le donne si ritrovano a lavare panni e stoviglie nei lavabi collettivi; spesso si incontrano uomini che salgono le scale con le taniche d’acqua buona comprata al mercato. Nello stabile le condizioni abitative sono drammatiche, gli spazi sovraffollati, la ventilazione nelle stanze insufficiente, la luce scarsa; le sale del vecchio ospedale sono divenute case, si sono alzate pareti divisorie tra le famiglie e alcuni ambienti sono rimasti privi di finestre. Queste le caratteristiche che hanno provocato l’alta percentuale di umidità e muffa, mentre i servizi igienici e gli scarichi fognari – costruiti per servire i degenti di una clinica e non gli abitanti sempre più numerosi di un palazzo – non riescono a servire il vasto numero di persone che ora lo abitano. Questi aspetti hanno causato nel tempo la cronicizzazione di malattie respiratorie, intestinali e dermatologiche tra gli occupanti, in una situazione dove i disturbi psicologici sono numerosi e lo spazio privato praticamente inesistente. Alaa ha ventinove anni e quando lo ho conosciuto abitava al nono piano del Gaza Building. Ha la passione del cinema, ha partecipato ad un corso di ripresa e montaggio video organizzato da un’organizzazione non-governativa francese e questo ha alimentato in lui il desiderio di farne professione; dopo il corso ha creato una piccola produzione video semi-professionale alla quale ha dato il nome italiano “Settimo cielo”. Lavora in uno spazio ricavato nel sottotetto del Gaza Hospital, è palestinese e il suo unico documento è quello dell’U.N.R.W.A. che lo riconosce come rifugiato in una terra dove è nato ma dove non ha diritti. Ha iniziato a fare piccoli documentari, vorrebbe usare l’audiovisivo come strumento di informazione diretta: per esprimere, raccontare e diffondere la storia del suo popolo. L’ ”idea” della documentazione sociale ci accomuna e ad Alaa il pensiero di collaborare ad un progetto sul Gaza Hospital lo ha appassionato fin dal principio. Presto siamo diventati amici e abbiamo iniziato insieme un’intensa ricerca diretta sul campo, che ha portato all’incontro di un buon numero di dottori e infermieri la cui esperienza è legata all’edificio nel quale lui vive. Una delle sorprese dell’ultimo viaggio è stato il trasferimento della sua famiglia dal Gaza Hospital in una casa di fronte ad esso, al primo piano di un palazzo di quattro accanto al mercato. Umm Ahmed, la mamma di Alaa, non è più giovane e per la sua statura corpulenta aveva serie difficoltà ad uscire di casa, con tutte quelle scale da dover risalire. Le stanze al nono piano del vecchio ospedale sono rimaste occupate da Samir – uno dei nove tra fratelli e sorelle di Alaa - e loro hanno traslocato in affitto. Spesso mangio a casa con loro o mi fermo lì a riposare tra un appuntamento e l’altro, ormai è un posto familiare e la mia presenza non desta più formalismi. Un giorno con Alaa abbiamo intervistato Umm Ahmed per la raccolta di testimonianze orali dell’archivio audiovisivo che mi piacerebbe costituire. Potete immaginare la mia sorpresa quando lei mi ha confidato quanto le manca la vitalità del vecchio ospedale, la sua socialità collettiva e gli spazi comuni: erano solo un paio di mesi che vivevano nella nuova casa e gia pensavano di ri-traslocare per tornare a vivere nel Gaza Hospital. Con le sue parole il microcosmo che è il vecchio ospedale della Mezzaluna Rossa Palestinese si arricchisce ai miei occhi di sfaccettature inattese, caratteristiche come il sovraffollamento acquisiscono sfumature relazionali di incontro e di scambio che ne umanizzano l’aspetto di negatività statistica. Il Gaza Building è come un villaggio - cercava di farmi capire Umm Ahmed sorridendo della mia espressione incredula - e qui in appartamento a me quella dimensione manca! Qui passo la maggior parte delle giornate da sola…mi sento isolata. Quando sono rientrato in Italia, quella volta, Alaa Al Alì mi ha accompagnato fin dentro l’aereporto. L’aereo parte alle 6 di mattina e noi abbiamo passato la notte a parlare, senza andare a dormire: Alaa era in quei giorni in attesa del visto per il suo primo viaggio fuori dal Libano ed era emozionato come un bambino. Destinazione Turkmenistan, dove per almeno un anno lavorerà con una compagnia che installa impianti elettrici nei palazzi. Lavora fin da ragazzo come impiantista elettrico, a Beirut è pagato poco e spesso in ritardo, così ha deciso di lasciare il Libano e raggiungere suo fratello Fyras. Imparerò il russo, ma sono molto dispiaciuto di dover interrompere il lavoro iniziato insieme mi diceva quella sera con una grande malinconia, mentre io provavo maldestramente a celare la mia. Sono passati tre mesi da quell’ultimo viaggio, il visto è arrivato ed Alaa ha lasciato Chatila; questo è il desiderio di molti, perché “fuori di lì” è meglio comunque e spesso non importa molto dove. E’ settembre, io sono di nuovo a Beirut e la sua famiglia mi ha accolto come sempre; Umm Ahmed è stata di parola, ero appena arrivato al Gaza Hospital e stavo con Abu Maher nel cortile, quando dall’alto dei piani sento chiamare il mio nome. E’ Yassin – fratello di Alaa – che dalla casa di un amico dall’altro dell’edificio mi sorride e indica in alto, alle mie spalle: c’è Umm Ahmed affacciata al nono piano della sua vecchia casa nel Gaza, che alza la mano e ride in segno di saluto, fa cenno di salire. Mi fa piacere trovarli lì, nello stesso tempo penso sia strano: in un momento nel quale alcune organizzazioni palestinesi si battono per sgomberare il Gaza Building e dare una soluzione abitativa migliore ai suoi occupanti, io mi rallegro che una famiglia sia tornata a viverci…contraddizioni dovute al coinvolgimento emotivo, penso salendo quei nove piani di scale che ci separano. Sono parole di benvenuto quelle che seguono, sguardi intensi; ho portato un piccolo dono e una foto che ritrae Umm Ahmed e Alaa seduti vicini; la piccola foto passa di mano in mano, per finire dietro il vetro della bacheca accanto a quelle degli altri figli lontani. Abbiamo mangiato e bevuto tè, parlato della vita in Turkmansitan e del primogenito Ahmed in America, dandoci appuntamenti con i fratelli per questi giorni. Umm Ahmed mi guarda e dolcemente sorride da mamma, finalmente è tornata nella sua casa all’interno del gigante, un altro figlio è partito e qui si sente un po meno sola di prima. Da Beirut, 14 settembre 2005 Kinoki mrc Questo racconto fa parte del diario di lavorazione di un documentario; se non volete più riceverlo vi prego comunicarlo e scusare il disturbo. Il dvd di un documentario di 26 minuti, girato negli stessi luoghi e preparatorio a questo lungo progetto, è in vendita per auto-finanziamento. Contatti: Marco Pasquini Autoproduzioni Abbasso il GradoZero marco at izona.it
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