Galimberti: LZodore del sangue



"Il mito della guerra non ha mai cessato di trovare cantori che ne hanno
esaltato lZeroismo, la forza, il coraggio, la bellezza, coprendo, sotto
questo manto estetico, quanto di più atroce lZuomo, e solo lZuomo, ha
ideato."
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Umberto Galimberti: LZodore del sangue
Tratto da "la Repubblica", 6 settembre 2005

Tra i miti che abbiamo indicato, il peggiore, il più falso è senzZaltro il
mito della guerra che non ha mai cessato di trovare cantori che ne hanno
esaltato lZeroismo, la forza, il coraggio, la bellezza, coprendo, sotto
questo manto estetico, quanto di più atroce lZuomo, e solo lZuomo, ha
ideato, perché, ci ricorda Hegel, a differenza dellZanimale, lZuomo non
uccide per mangiare, ma per ottenere dal vinto il riconoscimento della sua
superiorità.
Con la sua capacità di eccitare, infatti, col gusto dellZesotismo, con
lZallucinazione del potere che conferisce, con la possibilità di migliorare
il proprio rango sociale, con lZanimazione delle perversioni più sinistre,
da quelle sessuali a quelle necrofile, non la guerra, ma il mito della
guerra può dare a quanti attribuiscono scarso significato alla loro
esistenza, ai dannati della terra, ai profughi impoveriti, ai senza diritti
che emigrano, perfino ai giovani che vivono nella splendida indolenza e
sicurezza del mondo opulento, uno scopo, un senso, una nobile ragione per
vivere.
Il mito della guerra e non la guerra, seduce con il richiamo allZeroismo,
ma perché la seduzione sia efficace il mito deve nascondere un elemento
essenziale della guerra: il terrore, che i combattenti non possono
confessare se non vogliono apparire vili.
I poeti, i romanzieri, i cineasti, le nazioni, che sono i creatori del mito
della guerra, celebrano eroismo e compassione, a cui noi partecipiamo con
la tranquillità di chi sa di essere al sicuro. Non sentiamo odore di carne
putrefatta, non ascoltiamo i lamenti dellZagonia, non vediamo davanti a noi
il sangue e le viscere che erompono dai corpi. Osserviamo a distanza
lZardore e lZeccitazione, ma non viviamo la paura che torce le budella. Ci
vuole il caos del campo di battaglia, il suo rumore assordante e spaventoso
per farci capire che la guerra ricostruita dai creatori del mito della
guerra ha il realismo di un balletto.
Il patriottismo, che spesso è solo una forma appena velata di
autovenerazione collettiva, esalta la nostra bontà, i nostri ideali, la
nostra clemenza e la perfidia di chi ci odia. Creando un quadro in bianco e
nero, la guerra sospende il pensiero, soprattutto il pensiero autocritico,
e, così mitizzata, la guerra diventa una divinità e, come ci hanno
insegnato gli antichi greci, per adorarla occorrono sacrifici umani. Si
mandano in guerra i giovani, soprattutto i più diseredati, trasformando le
stragi che devono compiere in atti di eroismo, coraggio, lealtà e spirito
di abnegazione. Con queste parole i creatori del mito della guerra mettono
a tacere i testimoni di guerra.
Ma oltre allZautovenerazione per noi stessi il mito della guerra ci impone
di svilire il nemico. La nozione di "nemico" abbraccia ovviamente anche i
civili, che magari hanno ben poca simpatia per i tiranni che li opprimono o
per i signori della guerra. E per effetto di questa logica e del mito che
la sorregge, se da un lato veneriamo e piangiamo i nostri morti, dallZaltro
siamo stranamente indifferenti a quelli che ammazziamo noi. I nostri morti
e i loro morti non sono uguali. I nostri morti contano, i loro no.
Un tipo particolare di religione, il patriottismo, assicura agli uni la
benedizione agli altri la maledizione e, come in ogni religione, il
dissenso, la discussione sui fini, la denuncia dei crimini commessi,
siccome minano le certezze, vanno rigorosamente ignorati e zittiti. Perché
lZobiettivo è mostrare alla comunità che quanto essa ha di più sacro è
minacciato: la sua religione, la sua cultura, persino la sua identità. E
così si cancella ogni atteggiamento critico, ogni differenza, ogni
sfumatura, ogni forma di pluralismo perché, come ogni totalitarismo
insegna, creano troppa confusione tra le masse.
LZIliade stessa è un poema che non parla della guerra, ma del "mito della
guerra". I suoi eroi sono coraggiosi, vanagloriosi, consumati
allZinebriante elisir della violenza e dellZamarezza del lutto. Primo fra
tutti Achille che torna dal campo di battaglia per conquistare «kleos», la
forma eterna che, senza una morte eroica, gli verrebbe negata.
La guerra infatti è necrofila, non solo perché ammazza, ma perché richiede
a ciascun combattente una certa familiarità con la propria morte. La
necrofilia è fondamentale per il mestiere delle armi, così come lo è per la
formazione dei kamikaze. Quando ci sembra di non aver più niente per cui
vivere, o nei momenti in cui lZintossicazione della guerra è al massimo, la
necrofilia getta in quello stato di frenesia in cui tutte le vite umane,
compresa la nostra, sembrano secondarie. Gli antichi greci avevano un
termine per indicare questa pulsione. La chiamavano "ekpyrosis", che
significa essere consumati da una palla di fuoco. Usavano questo termine
per descrivere gli eroi.
Oltre alla necrofilia, la guerra scatena la lussuria più sfrenata, carica
di unZenergia sessuale cruda e intensa che ha il sapore della voluttà
autodistruttiva della guerra stessa, dove le uniche scelte sembrano la
morte o lo scatenamento della sessualità. "Eros e Thanatos" diceva Freud a
proposito delle pulsioni primarie che in tempo di guerra esplodono
sfrenate. Perché in guerra gli esseri umani diventano cose, cose da
distruggere o da usare per gratificazioni carnali.
Quando la vita non vale niente, quando non si è sicuri di sopravvivere,
quando a governare gli uomini è la paura, si ha la sensazione che a
disposizione rimane solo la morte o il fugace piacere carnale. Gli antichi
greci avevano capito che guerra e sesso sfrenato erano indissolubilmente
uniti. Afrodite, dea dellZamore e moglie di Efesto, il dio zoppo che
forgiava le armi e le corazze, divenne amante di Ares, il dio della guerra,
per il quale nutriva una passione perversa.
Baricco, nella sua postfazione alla nuova versione dellZIliade, lascia
fuori dal campo di battaglia gli dèi, e così non coglie questi legami, così
come, per poter cantare il mito della guerra non segue, come fa Omero, i
reduci.
Quando la guerra finisce sul campo, infatti, non finisce nellZanimo di
quelli che lZhanno combattuta. Ulisse trova difficile ritornare alla vita
domestica che aveva lasciato ventZanni prima. Le stesse virtù che gli erano
servite in battaglia lo sconfiggono in tempo di pace.
Dopo il mito della guerra cZè lZimmane fatica per guarirne. E cZè chi non
ce la fa, perché tutto ciò che era familiare diventa assurdamente estraneo
e il mondo, a cui si sognava di tornare, appare alieno, insignificante, al
di là della loro comprensione. LZaccumulo di distruttività, vista e
seminata, diventa autodistruttività che non conosce limite.
Una sorta di tossicodipendenza perché, come scrive Chris Hedges,
corrispondente di guerra per il New York "Times", nel suo bellissimo libro
che ha per titolo Il fascino oscuro della guerra: "La guerra è una droga in
cui si prova esattamente quel che provano i nostri nemici, quei
fondamentalisti islamici che definiamo alieni, barbari, incivili. Anche se
mi tormento per la ferocia che avrei fatto meglio a non vedere di persona,
in certi momenti avrei preferito morire così, che tornare al tran tran
della vita quotidiana. La pace aveva fatto riemergere in me e in tanti di
quelli che ho visto combattere quel vuoto che era stato riempito dalla
furia della guerra. Ancora una volta eravamo soli, come forse lo siamo
tutti, senza più il legame di un comune senso di lotta, senza essere più
sicuri di che cosa sia la vita e di quale senso abbia. Come la droga,
infatti, anche la guerra dà lZillusione di eliminare i problemi più spinosi
della vita".
E invece ai reduci i problemi li crea e anche di irrimediabili, se è vero
come riferisce sempre Chris Hedges, a proposito della guerra
arabo-israeliana del 1973, che durò solo una settimana, un terzo dei
militari israeliani ebbe gravi problemi mentali, mentre uno studio sulla
Seconda guerra mondiale ha stabilito che dopo sessanta giorni di
combattimenti il 90 per cento dei soldati sopravvissuti hanno subito danni
psichiatrici che condussero alcuni al suicidio, altri a interminabili cure
o a permanenti disadattamenti sociali. Per costoro la guerra non è finita
mai, perché, come ci ricorda Platone: "Solo i morti hanno visto la fine
della guerra".
Per gli altri, ma forse per noi tutti, vale il monito del poeta Wilfred
Owen che, in una delle sue Poesie di guerra, scrive: "Se in qualche
orribile sogno anche tu potessi metterti al passo dietro al furgone in cui
lo scaraventammo, e guardare i bianchi occhi contorcersi sul suo volto, il
suo volto a penzoloni, come un demonio sazio di peccato; se potessi sentire
il sangue, ad ogni sobbalzo, fuoriuscire gorgogliante dai polmoni guasti di
bava, osceni come il cancro, amari come il rigurgito di disgustose,
incurabili piaghe su lingue innocenti - amico mio, non ripeteresti con
tanto compiaciuto fervore a fanciulli ansiosi di farsi raccontare gesta
disperate la vecchia menzogna: 'Dulce et decorum est pro patria mori'".
Ci scusiamo se qualcuno di voi è finito per sbaglio nella  rubrica
dell'Associazione Partenia.Se non avete gradito il messaggio e se non
volete più riceverne, potete inviare una mail con su
scritto"cancellami".Provvederemo immediatamente.Cordiali saluti.
ASSOCIAZIONE PARTENIA
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