Il giorno puņ fare una differenza (THE DAY CAN MAKE A DIFFERENCE)



Cari amici,
vi giro le profonde riflessioni dell'amico Luca Rizzo
Nervo, Vice Presidente
Nazionale dei Giovani della Margherita.

Credo davvero possano essere un importante spunto per
un dibattito serio... F.L.

THE DAY CAN MAKE A DIFFERENCE...

di Luca Rizzo Nervo*

Ero ad Edimburgo ieri mattina. Backpakers Hostel. Gli
occhi ancora
assonnati, lo stomaco che faticava a digerire
dell’ottimo whisky scozzese
bevuto la sera prima.

Con l’unico occhio aperto ho visto ragazzi intenti a
guardare la
televisione: un incidente nella metropolitana di
Londra. Le facce
preoccupate
dei tanti ragazzi inglesi alloggiati in ostello si
smarrivano sempre di
più all’arrivo di ulteriori notizie: non uno ma tre
incidenti. Qualcosa
non tornava. Tre incidenti contemporaneamente nella
metropolitana di
una delle più grandi e importanti città del mondo? Non
era possibile.

Nessuno osava però dire una parola che tutti avevano
già capito essere
alla base della tragedia: TERRORISMO. Una parola
difficile,
estremamente scomoda, che chiama in causa istinti
triviali, voglia di
vendetta e
allo stesso tempo che immediatamente interroga sulle
proprie
responsabilità, che muove sensi di colpa tenuti
scientemente a freno.

In un attimo ho avvertito una strana sensazione,
eravamo a Edimburgo
per il G8, eravamo ad Edimburgo per capire i
movimenti, la loro (residua)
spinta propulsiva, volevamo capire, volevamo essere
dove una parte
della nostra generazione era per condividere, pur in
modo diverso, la
comune speranza di rendere questo mondo un po’ più a
misura d’uomo.

Improvvisamente la notizia della strage londinese ha
reso tutto
diverso.

Quasi che le manifestazioni dei no global, il rituale
guerresco degli
scontri di piazza fossero una specie di videogioco o
un reality show con
tutti i suoi elementi di semplificazione e simulazione
mentre la storia
stava scorrendo da un’altra parte, con altri
protagonisti, con altre
sofferenze. Vicine, ma così lontane.

Quelle manifestazioni di piazza che come le corride
mischiano
adrenalina, emozione e disgusto improvvisamente
venivano ridimensionate
dalla
crudezza della vita reale, che non dissimula il senso
ma lo amplifica in
una disarmante semplicità. Gli scontri fra la polizia
e i manifestanti
apparivano ancor di più come un rituale stanco e già
visto.

Di più. Sembravano il modo più semplice per affrontare
i grandi temi
della globalizzazione, tenendosi, gli uni e gli altri,
ben lontani da una
qualsiasi responsabilità in merito ad essa.

Gleneagles rappresenta forse la fine del movimento,
chiuso dentro a
forme e idee autoreferenziali. Risulta fievole sia il
suo grido di
raccolta, sia quella che un tempo si sarebbe chiamata
piattaforma politica.
Oggi si preferisce giocare a guardie e ladri. Con
buona pace dell’Africa,
e anche dell’Europa sempre più timido attore su scala
globale, fedele
interprete delle paure e delle reticenze dei suoi
governi.

Dicevo del risveglio con quelle immagini confuse e
quelle notizie
frammentarie che giungevano dalla capitale britannica.
La presenza dei
ragazzi inglesi, la visione di immagini che apparivano
maledettamente
familiari, affiancavano al dolore un sincero
sentimento di vicinanza. Non
quella banale e gratuita dei discorsi del giorno dopo,
dei cerimonieri di
mezzo mondo.

Un qualcosa di più profondo, che forse la presenza in
terra britannica
ha reso più forte e sentita che in occasione della
precedente ed
analoga strage di Madrid. La sensazione di sentirsi
dentro un comune
destino,
esposti alle stesse minacce, prossimi alle medesime
opportunità.

E’ il senso profondo del processo globale dentro al
quale scorrono, più
o meno consapevolmente, le nostre vite. Un qualcosa
che travalica,
senza badarsene, i confini nazionali, che crea un
nuovo senso di
appartenenza, più grande, meno sicuro, più onda lunga
che ameno porto entro
il
quale rifugiarsi. E’ la sfida del nostro tempo. Una
sfida che, come dice
oggi efficacemente Paolo Mieli sul Corriere, bisogna
affrontare ogni
giorno, farne un tema della quotidianità e non
riservarlo a grigie
mattine in cui “ci accorgiamo del sangue sul
selciato”.

E’ una sfida di tutti dunque. Ma è anche e soprattutto
una sfida
dell’Occidente. Non credo che il giudizio
sull’accaduto possa infatti
limitarsi alla constatazione della brutalità di ogni
azione rivolta contro
civili inermi, uomini, donne e bambini nella loro
quotidianità.

Non vi è solo la viltà del gesto da annotare. Proprio
quella
quotidianità, quell’insieme di gesti che giornalmente
e semplicemente
costruiscono l’insieme delle relazioni, delle libertà
alla base della
convivenza
civile e democratica sono l’obiettivo della follia
terroristica. Non si
tratta solamente di obiettivi sensibili. Si tratta di
valori condivisi
alla base della cultura occidentale.



Mi avvio consapevolmente lungo una strada pericolosa,
irta di ostacoli
e con il facile rischio della banalizzazione del tipo
“scontro di
civiltà”. Lo faccio in coscienza per tentare in
qualche modo di evitare un
altro rischio diffuso quanto vigliacco: l’ipocrisia.

Non vi è dubbio che siamo di fronte a due modelli di
società
differenti. Non vi è dubbio che siamo in presenza di
due sistemi valoriali
differenti. Nessun giudizio di valore a priori sia
chiaro. Ma il necessario
riconoscimento di una diversità.

Diversità che può farsi arricchimento e reciproca
comprensione solo e
soltanto se si fanno salvi, si astraggono e si
preservano da qualsiasi
ulteriore aggettivazione (che li rende di parte) una
serie di valori che
prescindendo dai diversi punti di osservazione,
mettano al centro la
persona, i suoi diritti e la possibilità di renderli
praticabili.

E’ questo il fossato incolmabile che ci divide dal
Terrore. E’ questo
lo spazio comune sul quale costruire un diverso mondo
possibile con la
comunità islamica.

Ma per fare questo serve rispetto, impegno, coerenza.

Non possiamo, gli uni e gli altri, nascosti dietro il
ventaglio
dell’integrazione, in realtà tentare di imporre
all’altro il nostro modello
di
vita, il nostro modello di società. Non lo imporranno
le bombe di
King’s Cross e Tavistock Square. Non lo imporremo
riempiendo di eserciti il
mondo.

Ci è chiesto oggi di immaginare nuove strade. Non
possiamo limitarci
alla brutale semplicità della violenza. E’ necessario
riconoscersi
reciprocamente, è necessario interrogarci su come
allargare la tenda della
convivenza.

Con questo non voglio accodarmi a coloro che un minuto
dopo le bombe
londinesi si interrogavano sul che cosa abbiamo
sbagliato noi, sul che
cosa è alla base di tanta violenza. Certo la follia
terroristica trova
un attraente brodo di cultura nella povertà, nella
disuguaglianza, nella
mancanza di speranza. Certo è vero che le
responsabilità vanno
affrontate per intero, nel caso condivise.

Ma il giudizio su chi non trova meglio da fare che
riempire una
metropolitana di tritolo non deve attendere sensi di
colpa altrui. Il
giudizio
è netto. Sono dei criminali, ignobili assassini.

Detto questo, è altrettanto certo che non ci possiamo
più permettere di
far vedere un modello di società ricca, accogliente e
aperta solo
attraverso le seducenti immagini della televisione. La
famiglia del “Mulino
Bianco”, che fa colazione insieme in una bella casa di
campagna ha
bisogno di qualche protagonista con la pelle
olivastra, o gialla, o nera.

Non è possibile che la società occidentale sia tale
solo per chi,
autoctono, ne rivendica la paternità. Quei diritti,
quella quotidianità che
prima richiamavo, non può essere appannaggio di chi in
Occidente è
nato.

La bontà dei nostri valori si misurerà e farà breccia
quanto più questi
siano esigibili da tutti. La cultura della vita che è
fonte di speranza
è un biglietto da visita molto migliore che qualsiasi
bomba
intelligente a patto che sia possibile realizzarla, se
no è ideologia, pura
astrattismo. Sarà retorica ma se si vuol evitare la
guerra di civiltà è
questa la strada maestra.

In questa opera di promozione della persona umana,
della sua centralità
nei contesti sociali e civili che chiamiamo
democratici, un ruolo
importante hanno le istituzioni internazionali. Queste
hanno oggi una
responsabilità enorme su scala globale. Una
responsabilità che va sostenuta,
difesa, rafforzata. In questo contesto sono convinto
che 8 cosiddetti
grandi della Terra, siano meglio di uno, solo, egemone
quanto isolato.

Sono convinto che in questo contesto vi sia la
necessità che l’Europa
si faccia attore globale credibile. Oggi siamo ad un
bivio: o ci sarà
più Europa e più efficace, o si avvierà
inesorabilmente il declino e la
conseguente rottamazione dell’Europa.

Io credo ancora nell’Europa. Credo poco in questa
Europa.

Un Europa che deve accelerare, il suo sviluppo, il suo
iter
decisionale, la sua crescita, superando le lentezze
che ora la tengono
troppo
spesso ferma al palo mentre tutto il resto, dalle
crisi alle opportunità
viaggia velocemente.
Un Europa che deve approfondire e declinare la propria
democraticità
tramite la costruzione di istituzioni e rapporti che
sempre più trovino
consenso e legittimazione dal basso.

Un Europa che deve mettere ancor più cose in comune,
deve condividere
più sovranità, coltivare comuni responsabilità.




Ecco appunto responsabilità. L’Europa sembra rifuggire
da queste.
L’Europa sembra spaventata davanti al mondo che
cambia. L’Europa sembra
preferire discussioni eterne sulla preferenza da
accordare all’asse
franco-tedesco rispetto al modello anglosassone o
viceversa, invece di
trovare
una trama da tessere comunemente. Oggi il mondo
globalizzato ha
necessità della storia, dell’esperienza, la capacità
di dialogo dell’Europa.
Dice bene ancora una volta Mieli, l’Europa deve
risolvere un dilemma: o
si fa protagonista del proprio destino o è destinata
ad essere “il
tallone d’Achille” dell’Occidente.

E oggi l’Europa ferita e insanguinata si lecca
amaramente le ferite.
Ieri i giornali scozzesi intitolavano in riferimento
all’inizio del G8 “
the day that can make a difference” il giorno che può
fare una
differenza.

Nessuno avrebbe mai pensato che lo avrebbe fatto in
modo tanto tragico.

*Vice Presidente Nazionale
 Giovani della Margherita
http://leradicieleali.blog.tiscali.it



		
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