E' Giusto parlare ancora di Genova



È giusto parlare ancora di Genova
di Giuliano Giuliani

Parlare ancora di Genova? Sì, ogni tanto è giusto farlo. Per un dovere di
memoria. Per il diritto alla verità. Per il rispetto verso chi è stato
ammazzato ingiustamente e martoriato nel corpo. Per il risarcimento morale
di chi è stato massacrato di botte senza il minimo motivo, umiliato,
offeso, privato dei diritti essenziali. Per individuare le responsabilità e
colpirle con gli strumenti severi della democrazia. Perché come cittadini
di questo paese abbiamo il diritto di sapere da chi siamo tutelati e
controllati e non solo da chi siamo governati.
Tra tanti forse e tanti distinguo, tra molte capriole verbali e qualche
tardiva autocritica, si è fatta strada la convinzione che Genova abbia
rappresentato simbolicamente il punto alto del governo della destra e dei
corpi collaterali: adesso comandiamo noi e facciamo quello che vogliamo
(magari con un irridente riferimento a Napoli: "Quella è stata una
barzelletta!"). Lo aveva sintetizzato bene Gianfranco Fini la sera stessa
di quel 20 luglio, quando, in barba alle abluzioni di Fiuggi e con la
faccia arcigna dell'abituale militanza, preannunciò la sentenza: legittima
difesa. Poco importa che in quella giornata si fosse intrattenuto per
intere ore nei luoghi in cui si dirigeva il disordine pubblico: a portare
solidarietà, stando alle sue dichiarazioni; a verificare che le cose si
stessero svolgendo come erano state predisposte, secondo le mie maliziose
deduzioni.
Insieme a questa convinzione se ne è andata consolidando un'altra: Genova
segna, per la destra, l'inizio del declino. Sì, perché faticosamente,
lentamente, vincendo pigrizie e tentennamenti, documentando, parlando con
la gente, e nonostante le menzogne dell'informazione "ufficiale", giù giù
fino ai punto e a capo, una parte significativa del paese è andata oltre il
legittimo sentimento di solidarietà umana e si è convinta di come quelle
giornate avessero denunciato esplicitamente la volontà di intaccare nel
profondo le regole della democrazia. Si è cioè disvelata la verità
politica, anche se non si era voluto affermare la verità giudiziaria in
un'aula di tribunale. D'altra parte siamo soltanto a meno di quattro anni,
e non ai trentacinque e mezzo di Piazza Fontana, di che ci lamentiamo!
E tuttavia, anche qui, qualcosa si muove. Nel processo in corso a Genova
contro venticinque persone accusate di devastazione e saccheggio (pena
prevista da otto a quindici anni) si stanno interrogando come testimoni
dell'accusa alcuni protagonisti di piazza Alimonda ed emergono novità
interessanti e sconcertanti. Cito alcuni esempi. Al giovane carabiniere che
dice di essere insieme a Placanica viene mostrata la fotografia in cui si
vede il defender che si allontana passando sul corpo di Carlo. Si
notano nettamente la mano di chi ha appena sparato e una persona che copre
lo sparatore, ma lui dice che non era sopra e che la mano non è sua. Di
grazia, ci vorranno dire chi era il quarto uomo? L'autista, fra centinaia
di non ricordo, confessa e ribadisce che prima di andare all'ospedale il
defender è passato dal comando provinciale dell'Arma, dove tutti e tre sono
stati medicati e curati, tanto per risolvere in famiglia la questione dei
referti. Tutto secondo norma? Ancora. Un comandante di reparto racconta che
dovevano contenere l'avanzata dei manifestanti e che c'era tensione (stiamo
parlando della decina di minuti prima dell'uccisione di Carlo). Foto e
filmati dimostrano l'esatto contrario: nessuna avanzata e nessuna tensione,
ma dimostrano anche che l'attacco di fianco al corteo dei disobbedienti
(autorizzato ma attaccato da ore) è manovra insensata, che dura meno di un
minuto, si conclude con una precipitosa e disordinata ritirata del
contingente e configura una specie di trappola che culmina con gli spari
mortali. Di grazia, ci vorranno spiegare perché? Tuttavia in quella manovra
si consuma un episodio fuori ordinanza. Il funzionario di polizia che
comanda la piazza raccoglie i sassi e li rilancia, per sua stessa
ammissione, contro i manifestanti. Ancora. Lo stesso funzionario, resosi
prontamente esperto in materia, parla di un sasso. Non è un sasso
qualunque. È quello che, vicino alla testa di Carlo disteso sul selciato e
circondato da un fitto cordone di carabinieri e poliziotti, prima non c'è e
poi compare. È quello che volevano buttare via ma che una quanto mai
tempestiva istanza della parte lesa ha fatto conservare presso l'ufficio
dei corpi di reato. È il sasso con cui i carabinieri spaccano la fronte di
Carlo, una obbrobriosa applicazione della legge del taglione (girava voce
fra la truppa, falsa come tante altre, che un carabiniere fosse in fin di
vita per una sassata di un manifestante). È il sasso che fa venire in mente
a quello stesso funzionario di attribuire la morte di Carlo a un
incolpevole manifestante ("bastardo, ti ho visto, tu l'hai ucciso, con il
tuo sasso..."). Grande performance, complimenti! Il guaio è che una serie
di fotografie dimostrano senza dubbio alcuno che la sceneggiata ha inizio
quando la telecamera si è assestata per la ripresa e quando giornalista e
operatore hanno ricevuto il placet dopo essere stati aggrediti verbalmente
da un carabiniere. Di grazia, lo vogliamo almeno designare per un Oscar?
D'altra parte la storia dell'uccisione da parte di un sasso tirato da un
manifestante dura un bel po' di tempo. Alle 18.04, trentasette minuti dopo,
ne parlano ancora via radio i più alti comandanti dei CC sulla piazza. Sono
tutte cose già note, ma è importante che trovino conferma in un'aula di
tribunale. Altre ancora potrebbero emergere, se tutti quelli che sanno si
decidessero a parlare. C'è chi ancora non lo ha fatto, e sarebbe tenuto a
farlo per il mestiere che fa. Perché non parla quel poliziotto che prende a
manganellate un carabiniere nella stessa scena di piazza Alimonda? Perché
non parla quell'ufficiale dei CC che assiste alle scene più orrende? Mi
riferisco soprattutto agli operatori dell'informazione, a quelli che hanno
visto ma continuano a tacere e sono rimasti indifferenti anche al nobile
appello del presidente Ciampi di tenere la schiena dritta. Piegarla perché
"si ha famiglia" non è un bel modo di onorare il motivo dell'abiura alla
propria dignità.
Sono cose note, ma anche pezzi di una trama che va svelata fino in fondo,
per le necessarie misure di ripristino della legalità democratica anche nel
settore decisivo delle forze dell'ordine. Non è peregrino chiedere
all'Unione di assumere a chiare lettere la decisione di scrivere la verità
con il lavoro indispensabile di una Commissione parlamentare d'inchiesta.
Alcuni esponenti dell'Unione lo hanno detto in occasione di riunioni
pubbliche. Non è affatto superfluo ribadirlo e confermarlo nella stesura
del programma. La documentazione non manca e possiamo fornirla alla fabbrica.
Ecco perché è giusto, ogni tanto, parlare ancora di Genova.
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L'autoritarismo ha bisogno

di obbedienza,
la democrazia di
DISOBBEDIENZA