Intervento Elettra Deiana - Seduta del 14 marzo su MIssione italiana in Iraq



ELETTRA DEIANA. Signor Presidente, vorrei ricordare all'onorevole
Selva, che tanta passione ha posto non solo nel giustificare ma nel
rendere moralmente valida la guerra in Iraq, che questa guerra è stata
giustificata, sostenuta, propagandata da ragioni rivelatesi tutte false
ed infondate.
GUSTAVO SELVA, Relatore per la III Commissione. Ma adesso vi sono
quelle vere!
PRESIDENTE. Onorevole Selva, lei avrà poi diritto alla replica.
ELETTRA DEIANA. Quelle vere! Non è vero che ci sono quelle vere!
Comunque, in ogni caso, le ragioni della guerra dovrebbero essere
materia di riflessione, altrimenti giocheremmo a carte false,
giocheremmo sempre sugli ex post, senza chiedersi se tali ex post siano
stati costruiti da ragioni false, oppure se esistessero già prima:
discussione estremamente interessante, seria! Le ragioni contro cui
poco fa lei si è scagliato per ragionare sulla validità della guerra
sono state una conseguenza della guerra, oppure esistevano prima e non
avevano nulla a che vedere con le ragioni della guerra che io ritengo
false? È questa una discussione che il Parlamento dovrebbe fare!
Stando, infatti, non a quello che dicono i pacifisti nostrani, non a
quello che dice l'opposizione nostrana, ma a ciò che affermano fonti,
servizi e analisti americani, le ragioni della guerra non c'erano: non
c'erano le famose armi di distruzione di massa, non c'era un piano in
base al quale Saddam Hussein era sul punto di scatenare una guerra o un
assalto nucleare contro gli Stati Uniti d'America.
Non c'erano, infine, intrecci seri tra il regime di Saddam Hussein e la
rete di Al Qaeda. Questo non lo dico io, che non ho avuto mai alcuna
simpatia per Saddam Hussein, tant'è che all'inizio degli anni Novanta
partecipavo alle manifestazioni contro quel regime che gasava i curdi,
ma faccio riferimento ad accertamenti di fonte americana. Su queste
falsità, comprovate autorevolmente, bisognerebbe, a mio avviso, aprire
una discussione.
Per fare questa guerra gli Stati Uniti d'America hanno operato delle
rotture radicali rispetto ad un contesto giuridico-istituzionale
internazionale che certamente non era il massimo della democrazia
planetaria - probabilmente doveva essere rimesso a punto - ma, dopo la
tragedia della seconda guerra mondiale, l'ONU, le convenzioni e il
diritto internazionale rappresentavano sicuramente un'approssimazione
valida per potersi districare democraticamente o in maniera abbastanza
democratica rispetto alle controversie internazionali, ai disastri, ai
problemi e ai conflitti.
Onorevole Selva, l'articolo 11 della Costituzione italiana non può
essere scisso in due parti (una prima e una seconda parte), perché
entrambe vanno collocate all'interno del contesto internazionale e del
diritto internazionale in cui quella Costituzione, per quanto riguarda
le questioni di politica estera, si collocava. E il contesto era l'ONU,
la Carta delle Nazioni Unite, non quindi l'unilateralismo
avventuristico ed estremistico del Presidente Bush. Non possiamo quindi
usare le cose come vogliamo! In nessun caso tollero che si usino le
cose a proprio piacimento, altrimenti si finisce per falsare il
dibattito, soprattutto in una sede come questa in cui si dovrebbe stare
alle cose e consentire che siano espressi i diversi punti di vista.
Per fare quella guerra, fondata su ragioni false, gli Stati Uniti
d'America hanno rotto questa intelaiatura molto approssimativa di
relazioni internazionali democraticamente o abbastanza democraticamente
garantite dall'esistenza dell'ONU, dalla Carta delle Nazioni Unite e
dall'insieme delle regole, convenzioni e norme che la comunità
internazionale si era data. Esisteva, quindi, quel quadro di
riferimento; un quadro però cogente che, in quanto tale, non può essere
prima messo da parte, come ha fatto il Presidente Bush, e poi invocato
per giustificare, come l'onorevole Selva fa ripetutamente, quelle
risoluzioni ONU che prevedono la «copertura ombrellifera» delle Nazioni
Unite nella guerra in Iraq.
Sebbene vi siano false ragioni, motivazioni infondate e rottura dei
meccanismi di convivenza democratica o approssimativamente democratica,
la guerra è oggi giustificata in nome della democrazia. In altre
parole, la guerra non è stata fatta per le armi di distruzione di massa
o perché Saddam Hussein era in combutta con la rete di Al Qaeda, ma è
stata fatta per la democrazia, per democratizzare quell'area, il Medio
Oriente, quel grande Medio Oriente versione George W. Bush.
Questa visione della democrazia, così come ci proviene dall'altra
sponda dell'Atlantico, è inquietante.
Anche su questo dovremo aprire una discussione: cosa intendiamo per
democrazia, onorevole Selva?
Me lo chiedo di fronte ad un discorso di insediamento del Presidente
Bush che, nel reiterare quello tenuto in occasione del primo mandato,
ci offre una visione messianica ed un'ideologia totalitaria e
totalizzante della democrazia. Secondo George William Bush, la
democrazia è una religione: esattamente il contrario di ciò che la
democrazia ha rappresentato nel faticosissimo cammino che hanno
percorso, per conquistarla, i paesi europei che ne sono stati la culla
(anche in Italia la democrazia ce la siamo guadagnata faticosamente).
Peraltro, l'Europa ha mescolato elementi, germi, semi fecondissimi e
straordinari di democrazia con disastri inenarrabili (basti pensare
alle guerre mondiali che hanno insanguinato il secolo scorso ed alle
vicende tremende come il totalitarismo che hanno attraversato tutto il
nostro continente).
Ebbene, di fronte alla pretesa degli Stati Uniti di utilizzare la
democrazia come religione messianica, posta a fondamento di una
crociata di dominance militare sul mondo, dovremmo fare lo sforzo di
decostruirla. Cosa c'è dietro? Molto più prosaicamente, c'è una idea
imperiale di controllo di una zona strategicamente fondamentale. Non lo
dico io, non lo dicono i pacifisti, ma gli analisti americani. Se
andiamo a leggere i documenti provenienti dai vari esponenti dei think
tank americani, leggiamo ciò che, nella realtà, viene mascherato: c'è
un'ideologia di giustificazione della guerra. Gli interessi geopolitici
di contenimento, di presenza e di trasformazione degli assetti di
quella parte del mondo a fini di dominance mondiale vengono posti in
fondo al set mediatico, che viene costruito in tutt'altro modo, vale a
dire mettendo in primo piano la foga democratica.
Credo che noi italiani, per rispettare la nostra storia e per
rivendicare la fatica impiegata per diventare un grande paese
democratico quale siamo, dovremmo contrastare quest'idea della
democrazia come religione per opporre ad essa un'idea della democrazia
come esperienza concreta e contraddittoria, fatta di passi in avanti e
di passi indietro e, soprattutto, affidata ai percorsi di
soggettivazione reale dei popoli, ovviamente, poiché viviamo in un
villaggio globale, nell'interazione con gli altri popoli, ma
sicuramente non con la guerra e con le bombe. Tutto ciò dovrebbe
costituire materia di discussione seria.
Per quanto concerne la presenza della rete di Al Qaeda, dovremmo
chiederci cosa si debba intendere per terrorismo. A sentire l'onorevole
Selva e tutti gli esponenti della maggioranza, qualsiasi cosa è
terrorismo. In realtà, in Iraq, terrorismo è essere contro le truppe
anglo-americane: chiunque si opponga ad esse è terrorista! Anche questa
è una costruzione ideologica, onorevole Selva. Praticamente, lei non
accetta, politicamente, che qualcuno si opponga alla presenza degli
anglo-americani in Iraq: chi si oppone si trasforma nel terrorista di
turno!
Ovviamente, le cose stanno molto diversamente.
Credo che, nel dibattito parlamentare, dovremmo imparare ad individuare
tutto ciò che ha realmente a che vedere con la rete di Al Qaeda e con
il progetto terrorista legato agli sviluppi dei rapporti nei paesi
arabi e ai contrasti tra i gruppi di potere. Si tratta di un progetto
autonomo che investe sia il versante occidentale (gli Stati Uniti e
l'Europa) sia quello interno dei paesi arabi direttamente interessati
all'espansione della rete Al Qaeda.
Non si può negare l'esistenza in Iraq di un'opposizione condotta con
determinate forme e modalità, a partire dall'assenza di un chiaro
programma politico che rende tutto estremamente confuso. Una parte
importante della popolazione si oppone agli angloamericani e la
violenza con cui gli stessi occupano quel paese è direttamente
proporzionale alla loro consapevolezza di agire in una situazione di
diffusa opposizione.
Un altro aspetto importante su cui dobbiamo riflettere (tuttavia,
presidente Selva, devo riconoscere che su questo punto è stato molto
chiaro) riguarda la domanda che attraversa il dibattito italiano: siamo
o non siamo in guerra? Lei ha fornito una risposta e devo riconoscere
che è molto chiara e trasparente. Siamo in guerra. Ma vorrei sviluppare
tale questione, perché, a mio avviso, è essenziale per il dibattito
all'interno del Parlamento e nel paese. Le truppe italiane sono o non
sono occupanti?
La risoluzione dell'ONU, cui lei si riferisce continuamente, parla di
truppe occupanti e dei doveri delle stesse. Ciò significa che c'è stata
una guerra, che continua il dopoguerra e che permane l'occupazione.
L'Italia come entra in tutto questo? Il Governo italiano,
sottosegretario Drago e presidente Selva, è o non è responsabile di ciò
che il comando alleato compie complessivamente sul territorio iracheno?
Gli angloamericani compiono di tutto, dagli spaventosi bombardamenti,
che distruggono le città, smembrando le comunità e costringendo i
civili alla fuga, alle torture nelle carceri. Peraltro, questi episodi
sono stati portati alla luce dai marines e dal personale americano.
Infatti, c'è un'altra America. L'America è un paese complesso, come il
nostro. Tutti i paesi sono complessi, non c'è solo il bene o solo il
male. Molte delle nefandezze compiute dal comando americano le
apprendiamo dagli americani stessi, non da pacifisti nostrani...
GUSTAVO SELVA, Relatore per la III Commissione. È la società aperta,
democratica!
ELETTRA DEIANA. È una società aperta. Ma anche la nostra è aperta,
presidente Selva.
Il Governo italiano e o non è responsabile di quello che il comando
alleato compie sul territorio iracheno?
Ai nostri atti di sindacato ispettivo riguardanti l'efferatezza, i
bombardamenti, Falluja, Ramadi e via dicendo, è stato risposto che le
nostre truppe sono di stanza a Nassiriya per svolgere un'opera di pace,
per fare del bene. Credo che questo sia un punto essenziale da dirimere
e su cui esprimere un giudizio. Credo che l'Iraq sia l'Iraq (per
fortuna, non è stato ancora diviso in zone etniche, secondo piani che
avrebbero gli Stati Uniti d'America). È l'Iraq, da nord a sud. È
un'entità nazionale. Ha alle spalle una sua storia statuale, sia pure
molto diversa dalla nostra, che si è formata attraverso criteri di
statualità assai diversi dai nostri, ma è comunque un'entità nazionale.
Ciò che accade in una parte del territorio si ripercuote sul resto del
paese, sull'Iraq nel suo complesso.
Nassiriya, la provincia dove sono di stanza i soldati italiani, fa
parte dell'Iraq; non si tratta di un distaccamento separato dove
l'invio di un contingente straniero possa assumere un significato
diverso rispetto ad altre zone. Il fatto che l'operatività bellica più
specifica, ovvero quella di fuoco, sia stata, nella detta provincia, di
basso o bassissimo profilo - ma non del tutto inesistente: i militari
italiani hanno sparato, uccidendo talune persone -, nulla toglie alla
natura della presenza del contingente; presenza che si colloca
all'interno della scelta di guerra degli Stati Uniti d'America e che,
funzionale a quella scelta, ne diviene anche elemento legittimante.
A seguito della vicenda drammatica in cui ha perso la vita il dottor
Calipari, abbiamo appreso - con larga visibilità mediatica; infatti, lo
sapevano gli addetti ai lavori... - che il generale italiano Maioli
occupa un posto di primo piano nella catena di comando della
coalizione, secondo soltanto al generale americano. Ciò, evidentemente,
è significativo in ordine alle responsabilità che l'Italia ha in questa
vicenda; quando il Governo sostiene che a Nassiriya i nostri soldati
fanno opera di bene, non può ignorare che ci collochiamo all'interno,
peraltro con un ruolo strategicamente importante, della catena di
comando. Quindi, quanto la catena di comando viene decidendo è
ascrivibile anche alla responsabilità italiana, sia pure condivisa;
siamo, dunque, in guerra e l'ideologia del peace keeping o del peace
building - e non so di cos'altro - è soltanto un' ideologia di guerra,
tipica di tutte le operazioni di guerra, tesa a tenere buona l'opinione
pubblica. In Italia poi - paese che, anche per la sua storia, è
particolarmente sensibile ai temi della pace - l'opinione pubblica deve
essere tenuta buona; quindi, non si parla di guerra perché ciò,
ovviamente, alienerebbe gran parte dell'elettorato, anche di
centrodestra. Quest'ultimo, infatti, è anch'esso, in gran parte,
sensibile alle questioni della pace.
Dunque, abbiamo le prove provate di tale situazione e quanto avvenuto a
Bagdad venerdì 4 marzo dimostra fino a qual punto le truppe americane
non siano soggette né a moderazione né, per usare una tipica
espressione militare, all'ordine ed alla disciplina; esse sparano fuori
regola.
Subito dopo la morte del dottor Calipari, il corrispondente da Bagdad
del New York Times, decano dei giornalisti di lingua inglese in Iraq,
John Burns, capo dei corrispondenti esteri del quotidiano newyorkese ha
scritto un articolo nel quale sosteneva che le uccisioni ai posti di
blocco, lungi dall'essere un fatto eccezionale, sono in realtà eventi
quotidiani.
Non mi meraviglio di ciò perché, come lei ha dichiarato, onorevole
Selva, siamo in guerra; dobbiamo, però, giungere ad una conclusione: in
Iraq, il problema non è solo né eminentemente il terrorismo, tra
l'altro determinatosi nel paese in seguito alla guerra, a causa della
porosità creatasi sui confini ed alla destrutturazione del sistema
statuale del regime di Saddam Hussein. Regime che presentava tutti i
rischi, i difetti e le nefandezze di questo mondo, ma che sapeva
controllare in maniera rigida, gerarchica e militare i propri confini.
I gruppi della rete di Al Qaeda dilagano grazie alla guerra; ma non vi
è soltanto il terrorismo come non vi sono soltanto le azioni dei
guerriglieri, i sequestri e tutto ciò di cui la cronaca si occupa
quotidianamente.
C'è la guerra e c'è anche il dopoguerra. Vi è, dunque, un intreccio tra
tanti fenomeni: il terrorismo, la guerra ed una gestione post bellica
terribile.
Lei, presidente Selva, ha precedentemente formulato osservazioni sulle
finalità del terrorismo. È vero: il terrorismo persegue lo scopo di
terrorizzare la popolazione, impedendole di esercitare i propri
diritti, la propria funzione pubblica, il proprio desiderio di stare
sulla piazza pubblica e di...
GUSTAVO SELVA, Relatore per la III Commissione. Di uscire di casa senza
correre rischi!
ELETTRA DEIANA. Esattamente. Ma vorrei dirle, presidente Selva, che la
guerra e la gestione «bellica» del dopoguerra producono gli stessi
effetti! Il Pentagono, infatti - come apprendiamo, anche in questo
caso, da fonti americane -, ha dato disposizioni affinché i civili
iracheni morti perché colpiti dal fuoco «amico» - visto che gli
americani sono lì per fare il bene degli iracheni! - non debbano più
essere contabilizzati, perché sono tantissimi.
Vorrei rilevare, allora, che vi è in Iraq, in particolare da parte
degli americani (perché, su tale aspetto, registriamo proteste anche da
parte degli ufficiali britannici), un uso «terroristico» della forza
militare, rivolto indiscriminatamente non solo contro i terroristi e
gli oppositori, ma anche contro la popolazione civile.
Vorrei affrontare adesso l'ultimo capitolo della questione: infatti,
l'ordine non regna a Bagdad. Anche le disposizioni impartite dal
Governo italiano - la richiesta che i giornalisti se ne vadano e che
gli italiani diradino la loro presenza e rimangano in Iraq solo per
motivi legati alla funzione istituzionale italiana, perché il nostro
paese non è più in grado di proteggerli - sono argomenti da
partecipazione ad uno stato di guerra - peraltro, mai dichiarato -, il
quale richiede, ovviamente, misure estreme.
Ebbene, siamo arrivati a questo punto, mentre i risultati delle
elezioni, dal punto di vista della democratizzazione e della
pacificazione, sono tutt'altro che fruibili. Non ci risulta, infatti,
che il nuovo Governo sia in via di formazione: tutt'altro! Siamo ancora
in alto mare, e credo che lo saremo ancora per parecchio tempo! Vi è,
allora, una situazione di caos: il pantano iracheno è ben lungi
dall'essere stato bonificato, e non si intravedono neanche gli inizi di
tale bonifica.
Credo, allora, che il Parlamento dovrebbe ragionevolmente discutere per
rivedere e ripensare il nostro ruolo - vale a dire l'affidamento del
prestigio del nostro paese e della sua voglia di protagonismo, in
politica estera, alla presenza militare -, cercando eventualmente, se
vogliamo che l'Italia sia un paese che abbia qualcosa (più o meno
importante) da dire sullo scenario internazionale, di percorrere
un'altra strada.
Riteniamo, infatti, che vi sia la possibilità di giocare un altro
ruolo, ed a ciò, ovviamente, leghiamo il fatto di rimettere in gioco
una serie di scelte, partendo dal ritiro del contingente italiano in
Iraq. Ciò perché tale ritiro, presidente Selva e signor
sottosegretario, non è solo un fatto emotivo o meramente tecnico, ma è
legato anche ad un giudizio complessivo su tutti gli aspetti
propagandati a favore di questa guerra: mi riferisco alle ragioni
infondate, alla foga «missionaria-democratica» ed alla lotta contro il
terrorismo.
Credo che non sia ammissibile una lotta al terrorismo affidata ai
cannoni, alle bombe, all'umiliazione di settori importanti di una
popolazione. Sicuramente anche in Iraq vi saranno taluni che pensano
che gli americani hanno fatto bene, ma il problema vero è rappresentato
dalla circostanza che, complessivamente, la gestione del post-guerra
non può che alimentare alcuni sentimenti. Una popolazione, di fronte a
truppe straniere, non può che avere una reazione di respingimento.
D'altra parte, la stragrande maggioranza della popolazione irachena ha
chiaramente dimostrato di non volere l'occupazione straniera. I sunniti
lo hanno fatto in modo evidente e dichiarato. Non credo, inoltre, che
gli sciiti abbiano partecipato al voto per via democratica, ma seguendo
le indicazioni dell'ayatollah Al-Sistani, ossia l'egemonia del clero
sciita. Non a caso, il clero sciita vuole l'introduzione di elementi
correlati, dal punto di vista giuridico, al Corano ed alla sharia.
L'ayatollah Al-Sistani ha sempre dichiarato che il voto doveva essere
espresso quale strumento per dire agli americani di andare via.
Questo è il contesto. Il nostro ritiro unilaterale, quindi, si colloca
in un insieme di analisi e di giudizi. Non è un atto imbelle (ce ne
andiamo perché non sappiamo più che fare) solo in tal modo possiamo
rimettere in discussione, e ciò dovrebbe rappresentare un altro aspetto
dell'iniziativa, la presenza degli angloamericani e ridiscutere in sede
europea, seriamente e con tutta la forza che possiamo mettere a
disposizione, quale percorso offrire - con il nostro aiuto e con un
nuovo coinvolgimento dell'ONU, dei paesi non belligeranti e dei paesi
arabi - per far uscire effettivamente l'Iraq dal pantano, operando una
riconciliazione nazionale in tale paese e costruendo relazioni
paritarie tra i paesi occidentali - Europa e Stati Uniti d'America -,
nella misura in cui vi sarà una disponibilità da parte di Bush verso
l'Iraq e gli altri paesi dell'area circostante (Applausi dei deputati
dei gruppi di Rifondazione comunista e dei Democratici di
sinistra-L'Ulivo).