la memoria senza ossssione



dal corriere.it
giovedi 10 febbraio 2005

Il valore della Giornata del ricordo

LA MEMORIA SENZA OSSESSIONE
di CLAUDIO MAGRIS

Nel mito greco Mnemosyne, la memoria, è la madre delle Muse ossia di tutte
le arti, di ciò che dà forma e senso alla vita, proteggendola dal nulla e
dall'oblio. Nella tradizione ebraica, uno dei più profondi attributi di Dio
è quello di ricordare «fino alla terza, alla quarta, alla centesima
generazione». Questa memoria divina è insieme giustizia e carità, rifiuto di
lasciar cadere in prescrizione il male e riscatto delle sue vittime. L'atto
del ricordo, in tal senso, è carità e giustizia per le vittime del male e
del dolore, individui e popoli scomparsi talora anche in silenzio e nell'
oscurità, schiacciati dal «terribile potere di annientamento» della Storia
universale, come la chiamava Nietzsche. La memoria è resistenza a questa
violenza; essa significa andare alla ricerca dei deboli calpestati e
cancellati, di quella «pietra rifiutata dai costruttori» di cui il Signore,
come sta scritto, farà la pietra angolare della sua casa, ma che giace
sepolta sotto le rovine e i rifiuti e va ritrovata e custodita con amore e
rispetto. La memoria è il senso della coralità di tutti gli uomini, anche di
quelli in quel momento non visibili, che essa scopre presenti, e dar vita
agli assenti, come ha scritto Lorenzo Mondo, è un atto d'amore. Le persone,
i valori, gli affetti, le passioni sono ; anche se legate a un preciso
momento temporale, non appartengono soltanto ad esso, così come una poesia
scritta in un certo giorno di un certo anno non appartiene soltanto a quella
data, bensì al presente della vita e continua a esistere e a crescere.
Questo ricordare, strettamente connesso con l'amore, ha ben poco a che
vedere con la memoria meccanica, con la capacità di registrare e ritenere
molti dati, e con la querula nostalgia sentimentale del passato,
trasfigurato e falsificato come se fosse stato migliore del presente, anche
se è stato invece così spesso orribile e pieno di sciagure.
La memoria è il fondamento di ogni identità, individuale e collettiva, che
si basa sulla libera conoscenza di se stessi, anche delle proprie
contraddizioni e carenze, e non sulla rimozione, che crea paura e
aggressività. Custode e testimone, il ricordo è pure garanzia di libertà;
non a caso le dittature cercano di alterare o distruggere la memoria
storica. I nazionalismi la falsificano e la violentano, il totalitarismo
soft di tanti mezzi di comunicazione la cancella, con un'insidiosa violenza
che scava paurosi abissi non solo fra le generazioni, ma fra una classe e l'
altra di scuola, e crea individui inconsapevoli della complessità della
storia, incapaci di essere semplici come colombe e avveduti come serpenti,
come vuole il Vangelo, e per ciò esposti all'inganno, alla manipolazione,
alla servitù.
Dedicare ufficialmente alcune giornate al ricordo delle vittime di genocidi,
massacri, guerre e altre delittuose catastrofi non basta, così come non
basta portare un fiore una volta all'anno su una tomba, ma è un gesto
simbolico che, se non è svuotato e ridotto a mera convenzione retorica, ha l
'autentico valore e significato di esprimere la presa di coscienza di un'
intera comunità nazionale e statale.
La proposta di ricordare insieme - ossia di equiparare - tutte le vittime
dei diversi totalitarismi e delle violenze perpetrate anche da regimi e
governi non totalitari ha destato discussioni e proteste, talora ingiuste e
talora giustificate.
Ingiuste, se si vuole far differenza tra le vittime, come se alcune avessero
più diritto di altre di non morire, di non essere assassinate e dimenticate.
Le vittime di Auschwitz esigono, individualmente, di essere ricordate
altrettanto quanto le vittime dei gulag staliniani, delle foibe titoiste,
del lager di Arbe, in Croazia, e di altri in cui noi italiani abbiamo
imitato, contro gli slavi, con zelo i nazisti. Se qualcuno vuole escludere
dalla pietas e dal ricordo l'una o l'altra schiera di vittime, ha torto. E
non bisogna scordare che crimini li hanno compiuti non solo i regimi
tirannici, ma pure quelli democratici, responsabili di ciniche ecatombi nel
passato più lontano e più recente, massacri che - come quelli che anche
adesso si svolgono in tanti Paesi, anche non additati quali Stati canaglia e
ignorati dalle televisioni - sono tante volte passati e passano sotto
silenzio, perché il grido di quelle vittime non ha la forza di giungere fino
a noi, soffocato da un accorto rumore mediatico assordante.
Ma l'eguaglianza delle vittime non significa eguaglianza delle cause per cui
sono morte. I tedeschi morti nel bestiale bombardamento di Dresda non sono
meno degni di memoria e rispetto dei caduti americani e inglesi, ma ciò non
può eliminare, in una conciliazione truffaldina in cui come nella notte
tutte le vacche sono nere, la sostanziale differenza tra l'Inghilterra di
Churchill e la Germania di Hitler. Le vittime delle foibe - alcune delle
quali, antifascisti militanti, sono cadute per mano di coloro che
consideravano amici e alleati nella lotta contro il nazifascismo - non
valgono meno delle vittime della Shoah. Ma non si possono storicamente
equiparare le foibe alla Shoah e non solo e non tanto per il divario
numerico, ma perché in un caso si è trattato del pianificato progetto di
sterminio di un popolo intero e nell'altro di una violenza
nazionalista-sociale-ideologica, simile a tanti altri episodi accaduti in
analoghe circostanze di guerra e di collasso civile, ma non per questo certo
meno orribile o più giustificabile. Perché il lungo silenzio sulle foibe?
Chiedono molti che avrebbero potuto e dovuto parlarne. Se i comunisti, come
si è detto, hanno cercato di soffocare la loro memoria per interesse
politico di parte, gli altri, gli anticomunisti - si è osservato qualche
giorno fa in una trasmissione televisiva dedicata all'argomento - hanno
taciuto anche perché era interesse dell'Occidente, in quegli anni, tenersi
buono Tito nella sua opposizione a Mosca e nella sua leadership dei Paesi
non allineati. È certo un bene che l'Occidente abbia vinto, ma non era
altrettanto cinico, rispetto a quei morti, consegnarli alla violenza dell'
oblio in nome del proprio interesse politico?
Ma il silenzio era calato su di loro - come sull'esodo istriano - anche per
altre ragioni: per indifferenza, per l'abitudine di concentrare il proprio
interesse soltanto sugli argomenti del giorno imposti da un'informazione
sempre più concentrata su se stessa, che ha insegnato a parlare solo di ciò
di cui si parla, a leggere solo ciò che viene vistosamente imposto e a
dimenticare che esistono altri libri e altri giornali, in una crescente gara
dei mezzi di comunicazione a diventare sempre più simili e a dire tutti le
stesse cose, a parlare tutti dello stesso libro, in un apparente pluralismo
che produce gli stessi effetti di un rigido monopolio ideologico. Come
ricordava l'altra sera Anna Maria Mori, capitava, in quegli anni, di
incontrare gente, anche di media cultura, che chiedeva se Trieste era in
Jugoslavia e diceva «Belgrado» e non «Beograd», ma «Pula» e non «Pola». Non
credo fosse colpa dei comunisti, ma dell'andazzo culturale del Paese e
dunque della sua classe dirigente, che non era comunista, come,
contrariamente a quanto si dice, non lo era la maggior parte dell'editoria,
responsabile dei testi scolastici, né dell'informazione. In quegli stessi
anni in cui il dramma dell'Istria era dimenticato, gli italiani potevano
ascoltare tanta propaganda sui comunisti trinariciuti e autori di ogni
nefandezza.
C'è tuttavia pure un ricordo negativo che pretende di legare
irreparabilmente gli uomini al passato, di pietrificarli come il volto di
Medusa. Una memoria rancorosa che incatena l'animo al ricordo bruciante di
tutti i torti subiti, pure lontani, magari vecchi di secoli, e alla
necessità di presentare il loro conto anche a eredi o presunti eredi che non
ne hanno colpa alcuna, di vendicarli indiscriminatamente, perpetuando così
la catena di violenze e vendette, alimentando nuove tragedie. In quegli anni
di oblio, il ricordo delle foibe - e, più in generale, dell'esodo istriano -
veniva spesso alimentato (e sfruttato politicamente dall'estrema destra) con
uno spirito di risentimento e di vendetta che poteva essere comprensibile in
chi aveva subito gravi o gravissimi torti, ma rinfocolava quel generico,
indiscriminato odio o disprezzo antislavo che era stato una delle origini
del dramma provocato e subito dall'Italia ai suoi confini orientali.
Ricordare, aver sempre presente Auschwitz non significa coltivare l'odio per
i tedeschi di oggi. Ancor più inammissibile e sacrilego sarebbe se gli
italiani e gli slavi usassero i loro morti per attizzare odi reciproci, in
una terra il cui senso - come hanno visto i grandi scrittori triestini - è
la compresenza di culture, l'oppressione o scomparsa di una delle quali
significa una mutilazione per tutti. La rappresentazione più autentica di
quel mondo l'hanno data in questo senso, da parte italiana, coloro che -
come Tomizza, Madieri, Miglia, per citare solo alcuni - hanno narrato senza
titubanza e senza regressivi rancori il dramma che l'ha lacerato, ponendo
così le premesse, come altri scrittori da parte slava, per una memoria non
più divisa ma condivisa.
Il ricordo creativo è libertà, anche dall'ossessione dei luttuosi eventi
ricordati: «Getta dietro di te il tuo dolore e sarai libero», dice Rebecca
nel Rosmersholm di Ibsen. La memoria guarda avanti; si porta con sé il
passato, ma per salvarlo, come si raccolgono i feriti e i caduti rimasti
indietro, per portarlo in quella patria, in quella casa natale che ognuno,
dice Bloch, crede nella sua nostalgia di vedere nell'infanzia e che si trova
invece nel futuro, alla fine del viaggio.