Ma non è già un orrore che un sacerdote sia là dove sono i
soldati?
o che sia nelle carceri a fare i cappellani!!
L'esserci è quindi già condividere il sistema, è condividere
il potere;
rarissimo che siano con i fatti concreti dalla parte
della PACE, dalla parte dell'essere umano, di ogni essere umano.
Ma questo non vale solo per i sacerdoti, esseri umani
come tutti gli altri anche se credono di essere degli "unti del Signore", gli
intermediari!!?! ma per tutti noi. Associazione Partenia http://utenti.lycos.it/partenia
Lettera alla moglie di Simone Cola
di Lisa Clark
Cara Alessandra non ero al funerale del tuo Simone,
oggi. Ma voglio dirti che sento nel profondo il dolore per la morte di un
giovane uomo, con una vita intera davanti, con tanti sogni da realizzare.
Cara Alessandra, non so da dove mi venga il coraggio di scriverti, per
dirti le cose che sento di dover condividere con te. Vedi, oggi il
sacerdote che ha pronunciato l'omelia al funerale del tuo Simone (credo
che fosse l'Ordinario Militare) ha detto che Simone era un "costruttore di
pace". Io faccio parte di un'associazione che si chiama "Beati i
costruttori di pace" e che ha fatto tutto il possibile per evitare che
questa guerra si facesse, insieme a gran parte della popolazione di questo
nostro paese. E, una volta iniziata la guerra, ha chiesto con forza che
l'Italia rispettasse l'Articolo 11 della sua Costituzione (scritta da
uomini di diverse idee politiche, ma tutti della stessa generazione,
quella che riprendeva a vivere sulle macerie della seconda guerra
mondiale), rifiutandosi di prendervi parte. E, adesso, dopo che il Governo
con l'avallo della maggioranza in Parlamento, ha comunque inviato un
contingente militare per partecipare all'occupazione, siamo coloro che
continuano a richiedere, senza stancarsi mai, che si rientri nella
legalità costituzionale e che si ritirino immediatamente i soldati
italiani. Perché, cara Alessandra, per me è impossibile chiamare il
compito che svolgeva il tuo Simone in Iraq "costruzione di pace". Ti
chiedo perdono se, in questo momento, ti scrivo queste parole. Sono dure,
lo so. Ma finché permetteremo a chi vuole trascinarci in fondo al baratro
della violenza, a chi vuole dividerci con il ricatto del "o con noi o
contro di noi", di strumentalizzare le parole, dando loro il significato
che si addice meglio ai loro scopi, non risaliremo mai la china. Invece,
abbiamo bisogno di riappropriarci della nostra comune umanità. Per questo
ti abbraccio, ti dico che il dolore per la morte di Simone è forte. Come
lo è, però, anche il dolore per la morte dei 13 partecipanti ad una festa
di nozze, uccisi lo stesso giorno. Dobbiamo scoprire insieme di far parte
di un'unica famiglia umana.
Negli anni ho passato parecchio tempo
in vari paesi sconvolti dalle guerre. Ho visto i disastri che la guerra,
ogni guerra, combina. Ho avuto modo anche di vedere l'umanità e il
coraggio dei soldati in tante occasioni. A Sarajevo molti militari
francesi dell'Unprofor hanno rischiato la vita (ed alcuni l'hanno
sacrificata) per salvare bambini, per aiutare donne e anziani. I
Carabinieri italiani a Srbinje, nella Serbo-Bosnia, rischiavano di persona
per assicurare alla giustizia criminali di guerra ricercati dai tribunali
internazionali. Quindi non ho dubbi sul fatto che Simone, in un altro
contesto, in un'altra missione, con un altro mandato, sarebbe stato un
"costruttore di pace". Ma lì, in Iraq, come membro di un esercito di
occupazione, sotto il comando del contingente britannico, non svolgeva il
ruolo di "costruttore di pace". Se vogliamo lavorare davvero alla
costruzione di un mondo di pace, dove ci sia pace per tutti, però, e non
solo per alcuni di noi, non possiamo confondere le parole. Ho scelto di
scrivere a te, anche se non sei stata tu a pronunciare quelle parole,
bensì l'Ordinario Militare e, prima di lui, il Papa stesso. Penso che
se la vedranno con la loro coscienza e la loro fede, per aver
usato la parola di Gesù, il Principe della Pace, al fine di confondere la
verità. Ma a te, cara Alessandra, sentivo il bisogno di parlare
dal cuore, per esprimerti tutto il mio affetto, tutto il dolore che provo
per la morte di un uomo che aveva davanti una vita intera, una vita di
marito e padre.
Lisa Clark
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° ° ° ° ° °
Lisa Clark,
volontaria di pace sul campo di battaglia
Costruire la pace
addentrandosi nella guerra al fianco di coloro che ne sono i più colpiti. Questo
l'obiettivo e il lavoro di Beati i costruttori di pace. Ne parliamo con
Lisa Clark, volontaria e protagonista di importati iniziative
dell'associazione.
Chi
sono i Beati i Costruttori di Pace? E cosa fanno? Pur essendo nato come
movimento di cattolici, Beati i costruttori di pace non è un’associazione
cattolica, ma un’associazione che sui temi della pace e della non violenza
accoglie tutti i punti di vista e tutte le considerazioni, con la convinzione
che ciascuno nel proprio piccolo ha il diritto-dovere di fare ciò che può per la
pace e per la giustizia. Da questa idea sono nate le grandi marce di pace in
Bosnia. Gesti di rifiuto dell’impotenza da parte di persone comuni che volevano
addentrarsi nel marasma della guerra per portare messaggi di
solidarietà.
Quando ha iniziato a collaborare con
l’associazione? Ho cominciato ad impegnarmi nel ’93. Sono andata per un
periodo a vivere a Sarajevo, dove abbiamo tenuto una presenza costante fino alla
fine della guerra, o meglio quella che gli accordi chiamano fine della guerra e
che in realtà è solo la fine dei bombardamenti.
Qual è il suo ruolo
in una missione di questo tipo? Ognuno ha proprie capacità da offrire. Io
ho capacità linguistiche. Quello di cui ci occupiamo è la creazione di
contatti tra le parti, tessere reti e ponti in tutte le direzioni, fra i popoli
e fra le istituzioni. Ma senza trascurare le esperienze piccole e personali
all’interno della guerra. In questa ottica abbiamo cercato di riunire famiglie
separate, di mettere insieme persone che si conoscevano e che durante la guerra
si sono trovate su fronti opposti. Ovunque c’era chi diceva “vorrei ritrovare il
mio vicino di casa, ma sicuramente lui non vorrà mai più parlare con me, perché
quelli della mia parte hanno fatto cose terribili…”. Noi ci siamo dati la
missione di rimettere insieme persone di questo genere, e l’abbiamo fatto tante
volte in Bosnia. È stata una cosa molto bella e molto emozionante.
Si
tratta di tentativi di costruire la pace partendo da piccoli nuclei di tessuto
sociale? Esattamente. E per questo abbiamo cercato di aiutare tutti i
gruppi di società civile o gli individui che lavoravano per ricostruire un
tessuto sociale non fondato sulle divisioni. In Bosnia la guerra, pur essendo
nata da motivazioni economiche e di interesse venute dall’alto, era permeata
attraverso la propaganda al livello della gente più semplice. Tanto che vicini
di casa si sono letteralmente scannati tra di loro semplicemente perché
appartenenti a realtà etniche diverse. Il problema però è che una volta che
il meccanismo delle violenze inizia, è difficile scardinarlo. Servono strumenti
che a partire dal basso cerchino di superare le divisioni create. Non si può
finire una guerra che è arrivata al punto da fomentare violenze tra persone
comuni, semplicemente firmando un accordo di pace a diecimila chilometri di
distanza. Le persone che sono state usate come strumenti in una guerra
fratricida devono essere aiutate a ricostruire un senso di
convivenza.
È così anche per altre realtà in guerra dall’Africa
all’Iraq? In Africa la situazione è ancora più complicata. La guerra che
si è combattuta nella parte orientale del Congo è un conflitto dettato dagli
interessi per le materie prime di cui questo paese è ricchissimo. Per arrivare a
conquistarsi queste risorse i vari signori della guerra usavano la propaganda
per fomentare gli odi e far combattere le loro guerre dalla popolazione. La
guerra nell’est del Congo non è una guerra etnica. Anche se in Europa ci fa
molto comodo pensare che gli africani siano persone primitive, che l’odio etnico
è vecchio di secoli e che noi non c’entriamo niente, che possiamo solo
compatirli e magari mandargli quello che a noi avanza. Ma siamo noi i primi a
beneficiare della rapina delle risorse economiche dell’Africa centrale e
dovremmo considerare il nostro ruolo in tutte queste tragedie. Non lo
facciamo.
In questi casi i processi di pacificazione possibili quali
sono? In Congo da quasi un anno c’è in corso un processo di pacificazione
costruito a livello istituzionale che, pur essendo imperfetto, contiene forse i
semi di una pace possibile. E le società civili organizzate nel Congo stanno
giocando un certo ruolo. Con i Beati i costruttori di pace organizzammo nel
2001 un simposio con 300 europei a Butembo – che non aveva mai visto tante facce
bianche tutte insieme. L’iniziativa colpì molto gli africani e così accettarono
l’invito al confronto anche persone in conflitto tra loro e si parlarono con
franchezza. Fu molto bello ascoltare sia i leader, sia le persone comuni che
dissero cose semplici, ma davvero sconcertanti. Una donna in particolare ci
raccontò di aver avuto sette figlie, sei maschi e una femmina. La femmina è
stata violentata da un gruppo di miliziani, è andata via di testa e adesso lei
la cura come se fosse una bambina, ma invece ha vent’anni. Un figlio le è stato
ucciso perché dei miliziani volevano rubare le loro galline, lui si è opposto e
l’hanno fatto fuori. Aveva quindici anni. Gli altri figli sono tutti scappati
di casa e si sono uniti a diversi gruppi di miliziani. Quindi la madre è rimasta
a casa con la figlia fuori di testa, un figlio al cimitero e gli altri cinque
dei quali aspetta solo di sapere quando uno avrà ammazzato l’altro, perché tutti
combattono per parti diverse. Una verità sconvolgente raccontata con estrema
semplicità: non si tratta di scontri etnici né di odi tribali: se cinque
fratelli combattono con cinque milizie diverse, dietro c’è qualcos’altro.
Visto il danno della propaganda nel costruire l’odio, che ruolo ha
invece l’informazione nei processi di pace? Per aiutare la popolazione a
raggiungere la consapevolezza che qualcuno li sta strumentalizzando
l’informazione è essenziale. L’Onu l’ha capito e la prima cosa che mette in
piedi quando entra in un paese alla fine di una guerra sono strutture radio e
commissioni di monitoraggio sui media, perché c’è ancora chi usa i media per far
propaganda. Com’è successo in Kosovo due mesi fa, quando la notizia di tre
ragazzi annegati fu ripresa e trasformata nella storia di tre ragazzi annegati
perché scappavano da un serbo con un cane. Notizia che si è dimostrata falsa, ma
che è costata una decina di vite in un paio di giorni. In risposta a tutto
questo i movimenti per la pace si stanno dando forme alternative di
informazione, senza rinunciare a fare informazione anche attraverso i media
ufficiale, anche se è molto difficile. Prendiamo la Repubblica per esempio,
un giornale molto rispettabile, ma che sull’Africa centrale ha dimostrato una
grande ignoranza. Non ha mai riferito notizie serie sui processi di pace e ha
dedicato una pagina intera al Congo solo in occasione di alcuni casi di
cannibalismo. Per questo dopo i fatti di Genova e dell’11 settembre, i Beati
i costruttori di pace si sono dedicati ampiamente alla costruzione del movimento
contro la guerra in Italia. L’abbiamo fatto perché fare movimento e informazione
insieme ci è sembrato in questi anni una missione importane.
Cosa
significa per lei fare questo lavoro e come influenza la sua
vita? Lavoro? Questo è volontariato, anche se è la fetta principale da
cui poi devo ritagliare i tempi per la mia professione che è quella
d’interprete. Io credo di aver sentito di non potermi tirare indietro. E poi
stare a contatto col mondo variegato e ricco di conoscenze e di diversità del
movimento italiano mi ha permesso di capire come stanno davvero le cose, come è
meglio muoversi e come andare avanti. Credo che stiamo raggiungendo un’analisi
congiunta di quello che non va nel mondo, di questa pericolosa deriva verso la
guerra permanente e globale. Quindi l’impegno si conferma importante e credo che
ciascuno nel suo piccolo possa contribuire ad allargare la consapevolezza della
gente su tutto questo.
Leggi la
scheda dell'Associazione Nazionale Beati i costruttori di Pace
Elisabetta D'Agostino
14/7/2004
http://www.buonpernoi.it/ViewDoc.asp?ArticleID=3715
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