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Resoconto delegazione 2
- Subject: Resoconto delegazione 2
- From: nathan never <natnev at interfree.it>
- Date: Wed, 19 Jan 2005 14:02:14 +0200
Continua il resoconto di BiDiTi sulla missione degli osservatori e osservatrici italian* a Nablus e nel resto della Palestina occupata.
12 Gennaio 2005. Votazioni.Qui nessuno ha imposto la democrazia e la scadenza elettorale. I Palestinesi vanno alle urne per il nuovo Presidente, dopo aver votato per le municipali e sapendo di dover tornare a votare per il Consiglio Legislativo in luglio. La parte di campagna elettorale cui assistiamo è partecipata e interessante. Ci sono incontri coi diversi partiti nei centri civici e di quartiere, ci sono comizi pubblici, incontri nei campi profughi (a Al Fawwar, vicino ad Hebron, è la prima volta che qualcuno dell’ANP arriva in visita e l’eccitazione è totale quando Abu Mazen si presenta), manifesti e volantini con i volti dei candidati si sommano a quelli recanti le immagini dei martiri dell’occupazione sui muri delle città. Alcune gigantografie si impongono allo sguardo e sappiamo che la notte c’è chi attacca e chi stacca. Come da noi. Come da noi ci sono e non ci sono le donne: non ci sono tra i candidati e nelle gigantografie, non ci sono nei centri civici fumosi e rumorosi. Sono bene visibili invece ai seggi, come elettrici, come rappresentanti di lista, come scrutatrici, attente ed efficienti. Qualcuno dice che sono l’anima di queste elezioni. Velate o in abiti dal taglio occidentale, col telefonino e il blocco per gli appunti, accanto a marito e figli o con le amiche, sono una presenza significativa e visibile. Alcune tra le più anziane si presentano all’iscrizione alle liste elettorali in abito tradizionale ricamato, a sottolineare l’importanza dell’occasione. Sentiamo commenti di tutti i tipi sui candidati, sui loro programmi e la loro onestà, sulla fedeltà alla causa e sulle ambiguità politiche. Inutile dire che i maggiori accanimenti sono tra sostenitori e detrattori di Abu Mazen e Mustafa Barghouti. Un’altra volta le prospettive si capovolgono, si capisce quanto l’immagine moderatissima del candidato Mazen sia in effetti più sfaccettata e interessante vista da qua, si prende atto che il Barghouti molto apprezzato dagli europei militanti fa in Palestina discorsi diversi da quelli ascoltati nei forum sociali. Alcuni conoscenti di cui ti fidi dichiarano di votare in modo opposto a ciò che ti saresti immaginata e ciò in base ad alcuni elementi per noi difficilmente percepibili. E’ complicato, è interessante. Molti esprimono fiducia in questa fase di potenziale partecipazione, altrettanti parlano di un “pensare con la propria testa” che sta piacendo ai Palestinesi, per cui benvenga il confronto politico aspro. A votazioni avvenute, tenendo conto dell’alta affluenza (Gerusalemme a parte, ovviamente) e della scelta astensionistica di Hamas, vien da chiedersi quanto sia da reinterpretare il dato dell’influenza e del radicamento di tale movimento, nella stessa Gaza. Senza trarre conclusioni affrettate si può ipotizzare che forse la sua base sociale non si sia riconosciuta nelle indicazioni della leadership o che quantomeno la realtà sia (fortunatamente) più complessa.
Noi siamo stati osservatori nei giorni precedenti e durante le votazioni.Insieme a rappresentanti di tanti organismi internazionali, ONG, parlamenti, istituzioni, U.E., …da tutto il mondo. La commissione centrale elettorale ha fatto miracoli, gli addetti ai seggi pure, gli osservatori si sono sottoposti a maratone e verifiche dappertutto in territori a volte vasti e scomodi, alternando la presenza ai seggi col monitoraggio dei check point di accesso, talvolta limitanti la mobilità degli elettori. La maggioranza dei Palestinesi ha votato ed ha scelto Abu Mazen per sostituire l’insostituibile Abu Ammar Arafat, lo ha fatto democraticamente e liberamente, con il sostegno di parte della comunità internazionale. Chissà se gli esportatori di democrazia sapranno guardare a questo importantissimo processo ed esito autodeterminato… Chissà se se si ricorderanno che qui si è votato coi carri armati dietro l’angolo e sotto occupazione… Chissà se, lontane le telecamere e i contrassegni gialli degli Oss. Internazionali, l’esercizio reale della democrazia (incontrarsi, circolare, lavorare, confliggere, decidere,..) sarà possibile per i Palestinesi, sempre più soffocati da muri, check point, demolizioni di case, sottrazione di terre, colonie, violenze.
Chissà chi avrà ancora voglia di “osservare”…Lontano dalle telecamere: mi rispondo da sola alle questioni formulate sopra.
Torniamo da Nablus, avendo completato il nostro lavoro di osservatori. Intendiamo raggiungere gli altri italiani di Action for Peace, suddivisi tra Gaza, Jenin, Betlemme, Gerusalemme, siamo curiosi di confrontare le osservazioni e i commenti. In tre su quattro siamo febbricitanti, ma l’uscita si preannuncia piuttosto semplice. In effetti al check point di Hwara (ingresso ed uscita centrale da/per Nablus) c’è una relativa calma, poca gente, passaggi piuttosto scorrevoli di uomini e donne tra le inferriate, i metal detector, le chicanes tra sacchetti di sabbia e blocchi di cemento con soldatini e soldatesse appostati armati, per controllare i documenti. C’è una relativa calma, ma le tre donne in fila davanti a me sono terrorizzate e parlano concitate tra loro. Non capisco l’arabo, ma capisco seguendo il flusso dei loro sguardi che l’allarme è relativo all’altra fila, quella degli uomini: un ragazzo di circa 18 anni con una grossa borsa è là e contraccambia gli sguardi allarmati delle donne (madre? Sorella? Moglie?..). Non è strano che il ragazzo e le sue parenti siano preoccupati, è “normale” che ai check point i ragazzi e gli uomini siano fermati e trattenuti in quanto tali, in quanto maschi. Neanche il tempo di pensarlo ed ecco che un soldato giovanissimo trascina per la giacca un altro ragazzo palestinese coi documenti in mano, lo porta indietro in malo modo, gli parla arrogante, non lo fa passare. Tutti ci voltiamo a guardare la triste scena e poi ci guardiamo tra noi. Sento l’inutilità della mia fascetta gialla di osservatrice internazionale: che me ne faccio ora? “Che te ne fai ?” sembrano chiedermi nel silenzio in tanti. Passiamo tutti, per ora, compreso il ragazzo preoccupato, cui viene fatta svuotare la borsa e mostrato l’addome per verificare che non ci siano esplosivi. Penso a quante volte ho passato questo check point, col sole a picco di agosto o col freddo dell’inverno, con la frustrazione di non poter entrare “per la mia sicurezza, Israele non garantisce la mia incolumità” (in effetti visto ciò che fanno con carri armati, esplosivi, armi e soldati, c’è di che aver paura per la propria incolumità a Nablus, molti giorni all’anno). E intanto siamo in strada per Qalandya, vicino a Ramallah, da dove proseguiremo per Gerusalemme. Anche stavolta, neanche il tempo di lasciarsi andare all’influenza, quasi rilassati, che una jeep ci sbarra il passo e si crea immediatamente una fila di macchine e furgoni dietro di noi. In senso inverso è la stessa cosa.. L'autista ci fa capire che potrebbe andare per le lunghe, scende, va a fumare e consultarsi con gli altri drivers. Vado a chiedere ai soldati cosa è successo e mi rispondono che non si può passare, che ci sono azioni in corso e che ciò potrebbe protrarsi per molte ore. Dico che siamo osservatori, che abbiamo gli aerei per l’Italia e che DOBBIAMO passare. Un soldato gentile va ad informarsi dal superiore, ma riporta un No secco e categorico. Dopo mezz’ora e qualche consultazione tra noi decidiamo di spostarci a piedi in una strada laterale ancora aperta per prendere un altro mezzo e avvicinarci a Gerusalemme. Il taxista che ci raccoglie è sorridente, rassicurante, ci racconta in un inglese stentato di una strada secondaria che sarà aperta chissà dove. Come sempre da queste parti decido di fidarmi dei palestinesi e delle loro strade alternative, praticate in decenni di occupazione. Intanto mi informo sul bambino in fotografia dentro il taxi: è il figlio dell’autista, che ne è orgogliosissimo e la parola araba appena appresa, che pronuncio per invocare la benedizione di Dio su di lui, risulta azzeccata e apprezzatissima. Però…altra jeep di traverso e altre macchine ferme. L’ottimismo non è sufficiente a circolare, nemmeno il giorno dopo le elezioni. Per telefono raggiungiamo gli altri italiani che ci confermano blocchi in altre parti della Cisgiordania. Si vocifera di un attentato, di manifestazioni a Gerusalemme, di esplosivi da trovare,…
Come spesso, come sempre.Scendiamo e ci avviciniamo alla jeep, i soldati-ragazzi ridacchiano tra loro, tra lo strafottente e l’imbarazzato: non sanno l’inglese e sembrano stupidi più che cattivi. Ci vuol poco, però, a far cambiare la musica: scende il “cattivo”, ragazzone dinoccolato con fucile impugnato, grugno aggressivo e non meglio definita bombetta che infila sull’arma. Spinge giù dalla jeep un ragazzino che trema di freddo e paura, fermato…perché ragazzino immagino. Mi avvicino e chiedo a questo giovane palestinese se ci sono problemi (la parola araba che lo significa è stata una delle prime che ho imparato, perché la sentivo ripetere in continuazione. Si potrebbe parlare di alfabetizzazione sotto occupazione: alcune parole tragicamente ricorrenti si imparano più in fretta. Lesson number one di arabo in Palestina: ci sono problemi, ecco l’esercito, il check point è chiuso,…invece di “oggi c’è il sole, come stai? Ti offro un the,…”). La risposta è: problemi”, lo sguardo è spaventato. Il “cattivo” mi allontana e spara un lacrimogeno verso le macchine ferme in coda. Così. Del tutto gratuitamente. Non stava succedendo nulla. I Palestinesi erano fermi e a distanza, tranne noi due italiani. Altro lacrimogeno. I soldati che prima sembravano solo stupidi ora si mettono a gridare, fanno capire che ce ne dobbiamo andare, tirano la fuori la bestia sopita che sonnecchiava in loro, legittimati dal comportamento del loro compagno. Cerco di chiedere spiegazioni al cattivo, che mi spintona arrogante dicendo “Shalom” e agitando nelle mani altri lacrimogeni e bombe suono. Gli altri minacciano di lanciarle addosso alle persone. Inutile parlare, veniamo spintonati fino al nostro taxi, mentre qualche palestinese ci chiede se abbiamo modo di filmare, in quanto osservatori. Frustrazione, rabbia, freddo e febbre si mescolano e trasformano in un malessere nuovo che non mi lascerà fino a sera. Il taxista scherza, sorride, accoglie altri nel suo taxi, sa che c’è da aspettare e lo fa pazientemente. Arriva un’altra jeep e la situazione si sblocca, si ricomincia a circolare poco alla volta nei due sensi. Gli autisti si comunicano a gesti l’apertura del passaggio e il clacson del nostro taxi avverte che si passa. Come a dire: fate presto, non si sa per quanto sarà possibile. Prima di riavviarci raccogliamo davanti ai soldati il ragazzino temporaneamente arrestato e perquisito, dandogli un passaggio. Continua a tremare come una foglia, ma riesce a sorridere. Tira fuori delle monete, ma il tassista non vuole essere pagato da lui; io lo saluto e gli stringo la mano, mi risponde in arabo “Grazie cari amici “ e se ne va per le strade gelide e sterrate. Il taxista filosofo che mi è sempre più simpatico dice in angloarabo qualcosa come “C’è speranza”. Gli rispondo che è così, ma capisco che dentro di me non è poi così vero in questo momento, sento che ammiro e forse invidio lo spirito costruttivo di quanti in queste zone riescono a resistere senza disumanizzarsi ed abbrutirsi alla banalità del male circolante. Di fianco a noi scorre l’orrido tracciato del muro, difficile sperare nel futuro. Ci salutiamo in un quartiere desolato, povero, pieno di immondizie, con bancarelle di frutta e giovani che sembrano prenderci in giro. Passa il bus e ci raccoglie, ma da lì a pochi metri altro check point chiuso. Il conducente ci consegna i soldi del biglietto e consiglia di provare a passare a piedi. Gran folla di gente con pacchi e spese, altro bus, altra sosta, degrado intorno a noi. Certo: scopriamo di essere a Shu’fat, nella zona del tristemente famoso campo profughi abitato dai Palestinesi di Gerusalemme espulsi dal loro quartiere (raso al suolo, ora è la spianata del muro del Pianto), zona povera e a forte rischio di marginalità. Quando finalmente caliamo su Gerusalemme sono passate 4 ore, siamo stanchissimi e arrabbiati, incontriamo gli altri e confrontiamo le esperienze. Come tenere insieme i sentimenti e le valutazioni sulla esperienza straordinaria delle elezioni, con i sentimenti relativi all’ordinaria follia dell’occupazione, tornata alla sua efficiente routine? Penso a come noi osservatori siamo stati e saremo osservati dagli abitanti di queste terre, penso all’inadeguatezza dei nostri strumenti politici e di pressione per garantire i diritti minimi dei Palestinesi..
Un’altra volta mi sembra di aver imparato moltissimo venendo qua. Un’altra volta capisco che c’è moltissimo da fare. BiDiTi
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