IL COMMENTO
In vacanza
con
l'orrore
di MICHELE SERRA
Dalle zone del maremoto cominciano ad
arrivare immagini diverse dalle pire, dai corpi irrigiditi, dallo strazio dei
superstiti, dallo sfasciume lasciato sulle rive dalla risacca micidiale. Sono le
istantanee del turismo che ricomincia, o che non si è mai fermato: bagnanti
occidentali sdraiati al sole, "segnorine" dei locali tailandesi che invitano
ammiccanti alla notte, comitive che sbarcano sorridenti dai loro charter
prepagati.
Sarà anche la vita che continua, sarà anche il rispettabile
bisogno di non interrompere il prezioso flusso di valuta, sarà che la natura,
chiesto e ottenuto l'attonito rispetto degli uomini dopo il suo catastrofico
sussulto, continua a dispensare, come sempre, la sua smagliante e quieta luce.
Resta il fatto che molte di quelle immagini sembrano fotomontaggi, con
l'alito della morte che permea ancora i luoghi, la linea d'ombra dello tsunami
che segna i muri a due metri di altezza, l'incrocio paradossale (negli
aeroporti, sulle spiagge, tra gli uomini) tra catastrofe e svago che incombe
ovunque.
Difficile, molto difficile moraleggiare sul da farsi, anche alla
luce del fatto che dalle autorità locali arrivano messaggi spesso opposti, quasi
dissociati, in Tailandia invitano i turisti a tornare in fretta nei loro Paesi,
a Sri Lanka chiedono ai turisti di rimanere.
Resta l'evidente malessere
(e mica sottile, anzi spesso e ingombrante) di una presenza leggera e oziosa,
come quella dei turisti, in mezzo a un gigantesco cimitero, ancora fumante dei
suoi fuochi frettolosi. Può darsi che, sui labbri cancellati della terra, il
turismo rappresenti una delle tante forme possibili di soccorso, e una
rassicurazione per i superstiti: ma con quale animo e quali aspettative migliaia
di occidentali accettino di bagnarsi in quel mare, e divertirsi su quelle
spiagge, rimane un mistero piuttosto fitto, che moltiplica fino quasi al
paradosso il mistero più ordinario della festosa presenza degli uomini ricchi
che si riposano e si svagano in mezzo alla gente povera.
Chiunque sia andato in vacanza nei Paesi dell'Africa,
dell'Asia, dell'America Latina, a meno di possedere una speciale immunità alle
domande ovvie, è stato costretto a confrontarsi con sperequazioni di vita spesso
clamorose, villaggi turistici confortevoli in mezzo a lande di precarietà e
miseria, alberghi scintillanti in mezzo all'opaco vivacchiare degli esclusi.
Imbarcarsi oggi su un charter per il Sud-Est asiatico non può non costringere a
chiedersi se in quegli aeroporti, per caso, qualcuno non stia aspettando ben
altri carichi, soccorso medico, cibo, vestiti. Vivere laggiù, tra i palmizi
incolumi, sapendo che a pochi chilometri manca l'acqua potabile o un ricovero
per gli scampati, dev'essere una prova psicologica non facile, e comunque non
esattamente in tono con lo spirito vacanziero.
È stato detto che il
turismo, laggiù come altrove, è una risorsa decisiva, e che una carta di credito
è una forma dannatamente concreta di aiuto. Ma ridurci a portatori di valuta,
ignorando l'impatto che la nostra presenza benestante produce su quei Paesi,
specie in un momento terribile come questo, forse però è leggermente meschino, e
per giunta molto riduttivo proprio nei confronti delle nostre speciali
responsabilità di ricchi. È ancora fresca l'eco delle polemiche per i primi,
ridicoli stanziamenti decisi da governi di Paesi che con quei soldi non riescono
a pagare nemmeno mezzo aereo da caccia, o a riasfaltare cinquanta chilometri di
autostrada.
Le cifre sono poi state corrette, e di qualche zero, ma la
tecnologia e la potenza economica dispiegate in molte altre occasioni - quelle
belliche sono l'inevitabile paragone - fanno impallidire il gruzzolo raccolto
dai paesi ricchi per lenire gli effetti di questo macello spaventoso. Sarebbe
triste e parecchio ipocrita che il turismo, per un'interpretazione quantomeno
dubbia del dare e dell'avere mondiale, fosse spacciato come un aspetto
risolutivo del portare soccorso, "vado lì a fare il bagno in piscina così li
aiuto a risollevarsi". Il turismo, a parte il dubbio impatto sociale e culturale
sulla gente del posto, può anche essere, in un momento di emergenza come questo,
un terribile impiccio, sottrarre risorse (penso all'acqua e al cibo, mica
all'olio abbronzante e al deltaplano) a indigeni che ne avrebbero urgente
bisogno, intralciare la logistica di chi organizza gli aiuti, sovrapporre
ulteriori elenchi di nuovi arrivati a quelli, già così precari, di chi è sparito
e viene ancora cercato disperatamente dai parenti lontani.
Un amico pilota dell'Alitalia, costernato, mi ha
appena raccontato di avere dovuto litigare, l'altro giorno in uno di quegli
aeroporti, con una famiglia di turisti italiani che aveva piantato una grana
perché voleva rientrare in patria in prima classe, perbacco. I turisti
occidentali hanno un'idea spesso molto estesa dei propri diritti. Ne avranno una
ugualmente ampia dei diritti di chi non ha più niente, e magari aveva casa e
cose a poca distanza da una piscina, da un bar, da una sala-massaggi? E comunque
sia, chi di noi sarebbe felice di vedersi fotografare o filmare mentre beve una
bibita in bermuda, mentre alle sue spalle si cercano i morti nel fango?
(3 gennaio
2005)