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Lo scandalo dei 204 cappellani militari che sostengono la crociata di Bush
- Subject: Lo scandalo dei 204 cappellani militari che sostengono la crociata di Bush
- From: "Davide Bertok" <davide at bertok.it>
- Date: Wed, 26 May 2004 00:25:37 +0200
- Priority: normal
Fonte:indymedia.org Se il papa è contrario alla guerra perché manda i preti al fronte? Lo scandalo dei 204 cappellani militari che sostengono la crociata di Bush Se il papa è contrario alla guerra perché manda i preti al fronte? «Un cappellano è un ministro del Principe della Pace che serve nell’armata del Dio della Guerra, Marte. La sua presenza è incongrua come la presenza di un fucile sull’altare di Natale. Egli ... è là per prestare la sanzione religiosa a tutto ciò che praticamente appartiene al solo dominio della forza.» (Herman Melville, Billy Budd, 1891) I cappellani militari sono preti-soldati. Anzi, soldati-preti, perché collaborare anche indirettamente alla guerra, diceva Ghandi, è come andarci. E ciò è agli antipodi dei principi religiosi che dovrebbero ispirare un sacerdote. I cappellani indossano la divisa con rango di ufficiale. Il che attribuisce loro, sul piano morale come su quello operativo, responsabilità maggiori di quelle dei fantaccini. I cappellani sono nominati dal ministero della Difesa (su proposta del Vaticano, ovvio), prestano giuramento di fedeltà al braccio armato dello Stato e «in casi di mobilitazione totale o parziale, di imbarco o di servizio presso unità delle Forze armate dislocate fuori del territorio metropolitano, sono assoggettati alla giurisdizione penale militare» (articolo 24 della legge 1° giugno 1961, n. 512, recepito dagli Statuti dell’Ordinariato Militare d’Italia, approvati dalla Santa Sede il 6 agosto 1987). «Nelle stesse condizioni… i cappellani militari sono sottoposti alle norme del regolamento di disciplina militare»; ed è proprio in queste condizioni che si trovano i cappellani italiani al seguito delle truppe che hanno portato la pax americana, una pace imposta con bombardamenti e deportazioni nei Balcani e in Afganistan. Alla data del 28 febbraio 2003 le Forze armate italiane contano 204 cappellani, di cui: - quattro in Kosovo - due in Bosnia - due in Afganistan - uno in Albania - uno sul cacciatorpediniere Mimbelli, pure impegnato nell’operazione Enduring freedom (fonte: mons. Angelo Frigerio, portavoce dell’Ordinariato Militare Italiano con rango di ispettore per l’esercito). Si obietterà che gli Stati Uniti, registi del neocolonialismo terroristico nei Balcani come in Asia, la guerra preferiscono condurla in proprio, accettando, al più, il modesto contributo degli alleati che considerano affidabili, come gli inglesi; gli italiani sono tollerati, quando lo sono, purché se ne stiano nelle retrovie o comunque lontano dai teatri bellici. Americani e inglesi sono più terrorizzati dai pasticci combinati dagli italiani che dai nemici. Ricordate la Guerra del Golfo? Gli italiani arrivarono con sei aeroplani. Un giorno di calma piatta, il comandante in capo, il generalissimo Testanera (Schwarzkopf), concesse agli italiani: «Ma sì, visto che siete qui, andate anche voi a fare un giretto sull’Iraq, ma non sganciate bombe, perché accoppereste i miei marine». I nostri sei aeroplani decollarono. Cinque fecero subito dietrofront a causa del maltempo (sic). Il sesto Tornado passò la frontiera irachena e fu subito abbattuto. Gli iracheni consentirono ai due piloti di scendere con il paracadute, poi li catturarono e li mostrarono in televisione con le facce peste. Peste, si noti, a causa del violento impatto con l’atmosfera al momento dall’espulsione dall’aereo. Ma i cronisti italiani lasciarono intendere che i due erano stati malmenati dagli iracheni. E questa menzogna fu l’unico nostro contributo alla Guerra del Golfo. I due piloti furono gentilmente espulsi da Saddam e, al rientro in patria, acclamati eroi e decorati al merito. Sulle altre prodezze dei militari italiani all’estero la propaganda di regime ha steso un velo di pietoso silenzio: prigionieri somali legati con il fil di ferro alle ruote di un camion e torturati con la corrente nei testicoli, minorenni arruolate come baldracche durante le feste del reggimento. Per inciso, queste nefandezze non furono mai denunciate dai cappellani militari, bensì da rari militari laici che ne riferirono ai giornalisti. Ma il fatto che le Forze armate italiane pugnino poco e male non assolve i cappellani militari. Compito primario degli ufficiali-preti è confortare la truppa sulla giustezza della guerra difensiva (perché la nostra Costituzione non ne ammette altre) che sono mandati a combattere a centinaia e a migliaia di chilometri da casa, contro popolazioni inermi e a sostegno logistico di armate che violano sistematicamente la Convenzione di Ginevra (se ha senso invocare regole in conflitti barbari) e i diritti umani. Bombardamenti di popolazioni civili, deportazioni, torture: come può, un prete, assolvere chi commette simili infamie? Come può offrire a questi barbari in divisa l’alibi morale di combattere eroicamente una battaglia del Bene contro il Male? Dev’essere un prete speciale: un cappellano militare, appunto. Prono a quei vertici ecclesiastici che da sempre giustificano le peggiori infamie dell’umanità. Vogliamo fare una ripassatina storica? Nel 1866 i missionari in Etiopia chiesero al Sant’Offizio come comportarsi con la schiavitù. Risposta: «La schiavitù, di per sé, non ripugna affatto né al diritto naturale né al diritto divino, e possono esserci molti giusti motivi di essa...». (cfr.: Domenico Del Rio, I gesuiti in Italia). Del resto, Civiltà cattolica, giornale dei gesuiti, due anni prima s’era industriata a dimostrare che «la schiavitù rettamente intesa non è contraria alla natura; sicché a torto si condannano coloro che se ne sono valsi dove essa è ammessa legalmente». Nel 1911 fu sempre Civiltà cattolica a presentare l’invasione coloniale della Libia come una crociata contro l’Islam. Molti vescovi indissero l’orazione tempore belli, da recitarsi nelle messe per il felice successo della spedizione, al successo della quale i cappellani contribuirono in maniera determinante offrendo sostegno e stimolo spirituale ai nostri braccianti ventenni che massacravano le popolazioni africane. Nel 1915, un mese prima dell’entrata in guerra dell’Italia, per coordinare meglio i cappellani il Vaticano istituì il “vescovo castrense”, al quale il governo assegnò il grado e il trattamento economico di generale, mentre i cappellani furono parificati ai tenenti. Nel 1939, le truppe naziste che invasero la Polonia erano confortate da cappellani cattolici tedeschi che li rassicurarono con il Gott mit uns (Dio è con noi). Che è il viatico di tutti i cappellani di tutti gli eserciti del mondo; per loro fortuna, i soldati sono troppo stupidi per chiedersi quale becero dio possa mai schierarsi contemporaneamente a fianco di eserciti che si combattono tra loro. Nel 1942, quando Hitler lanciò l’Operazione Barbarossa contro l’Urss, le sue armate si portarono al seguito, come cappellani militari, i preti formati al collegio Russicum di Roma. Che avevano, tra l’altro, il vantaggio di parlare la lingua del nemico. In quello stesso anno i preti italiani, non contenti di avere moralmente sostenuto il fascismo, trovarono anche qualche gesuita disposto a benedire le infamie dei repubblichini di Salò e delle loro Brigate Nere (stupri, sevizie, esecuzioni sommarie anche di civili). È vero che non pochi furono i preti che portarono conforto alla Resistenza, ma è rivelatore che, nelle pubblicazioni ufficiali dell’Ordinariato Militare (cioè l’ordine dei cappellani), nell’anno di grazia 2003 si definisca la guerra di Liberazione dal nazifascismo una “guerra civile” e una “faida interna”. Perché il bello, cioè il brutto, dei cappellani militari è che sono araldi di un dio - un dio minuscolo - bizzarro che vuol bene a tutti i guerrafondai perché a tutti dice: sono con te. Il soldato americano che sbarcava in Normandia era convinto di avere la coscienza a posto perché il cappellano gli diceva: dio è con te, combatti una guerra giusta. Dall’altra parte, il soldato tedesco riceveva analoga certezza dal suo cappellano tedesco. Per quanto aberrante sia, anche i secondini dei campi di concentramento avevano i loro bravi cappellani e la sera si lavavano le mani con la coscienza a posto. Esattamente come oggi c’è sempre un rabbino che manda i torturatori sionisti (quelli che seviziano e uccidono anche i bambini, secondo Amnesty International) con il cuore in pace. Ma torniamo al nostro papa, cui fanno capo i cappellani cattolici degli eserciti di mezzo mondo. Ce n’è uno anche sulla portaerei Eisenhower (insieme a due cappellani protestanti, a uno rabbino e a un imam, che conforta i musulmani che hanno tradito i loro correligionari che si apprestano a massacrare). Ebbene, il papa di Roma proclama che la guerra dichiarata da Bush e compari (e alla quale Berluska e C. vorrebbero far partecipare anche l’Italia) è ingiusta. Anzi, il 24 febbraio scorso ha fatto dire al suo ministro degli Esteri, Jean-Louis Tauran, che «la guerra è un crimine». Ma allora perché non ritira i suoi preti? Perché li fa complici di un crimine contro l’umanità? Sconfessato sul piano morale, forse qualche combattente cattolico sarebbe tentato di fare obiezione di coscienza. In ogni caso, al di là della produttività immediata di questa scelta, il papa e la sua Chiesa darebbero prova di coerenza: la guerra collide con i nostri principi e sui principi non si negozia. Ma la scarpa sinistra, in cui il papa infila il piede dei principi, non riesce a condizionare la destra, in cui infila il piede del tornaconto politico ed economico. Dunque, se il papa dà l’esempio tenendo i piedi in due scarpe, che male fanno i cappellani a tenercelo in tutti gli eserciti? ©
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