Fw: [ba ro news] (#189) Ancora Warshawski sulle illusioni.



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Sent: Monday, December 22, 2003 10:03 AM
Subject: [ba ro news] (#189) Ancora Warshawski sulle illusioni.


Inviamo questo testo di Warshawski che ci sembra molto utile contro le
illusioni seminate ancora in questi giorni sugli "accordi di Ginevra" e la
Road Map, dando poca o nulla visibilità a coloro che esprimono da sinistra
una critica.
Segnaliamo anche che è a disposizione un ricordo di Edward Said (un'altra
voce critica oscurata a lungo e purtroppo oggi sparita), scritto da Tarq
Ali. Non lo inviamo come solo testo, perché si perderebbero note e caratteri
particolari, ma lo invieremo come allegato a chi lo chiederà (niente paura,
lo faremoda un computer dotato degli ultimissimi filtri antivirus).

SI CREA L'ILLUSIONE...
Resoconto della prima parte di una conferenza/dibattito tenuta da Michel
Warshawski il 18 ottobre 2003 a Baiona, su invito del Movimento Giustizia
per la Palestina, del Paese Basco


Il muro

Il giorno in cui ho lasciato Gerusalemme per l'Europa, il governo israeliano
confermava la costruzione del secondo tratto del muro, che entra per 16 km
all'interno del territorio palestinese.
Sapendo che l'ampiezza della Cisgiordania abitata (oltre la valle del
Giordano) è di 23 km, ci si rende conto di come il muro penetri a fondo nel
cuore della realtà palestinese. Non ha niente a che vedere con il presunto
muro di separazione di Israele dai territori occupati. Il governo ne ha
confermato il tracciato, nonostante l'opposizione degli Stati Uniti e le
minacce di tagliare una parte degli aiuti civili, non militari, a Israele.
Se il governo ha osato sfidare gli americani, malgrado la crisi economica
senza precedenti in Israele, vuol dire che un piano lo ha. C'è dietro una
logica, incluso nel massiccio ricorso alle violenze: massicce sono le
distruzioni di case, e anche lo sradicamento di frutteti, in ben determinate
zone.
Sulla conclusione della guerra di colonizzazione Sharon ha espresso
pubblicamente e chiaramente la sua logica, sui vari media e in varie sedi.
Tutto prende avvio dalla sua frase preferita: "La pace non è all'ordine del
giorno nei prossimi cinquant'anni", perché questi vanno dedicati alla
prossima fase della colonizzazione della Palestina. Sharon lo dice e lo
ripete: "La guerra del 1948 non è finita". L'errore di Rabin o di quelli che
hanno creduto negli accordi di Oslo era quello di pensare di porre fine al
processo di colonizzazione e stabilire finalmente una frontiera.
Sharon sostiene: "La frontiera, forse fra 50 anni, fra 100. Nel frattempo
bisogna finire di colonizzare ciò che c'è da colonizzare". Un ulteriore
elemento è dato dall'affermazione di Sharon: "Non sono contrario a uno Stato
palestinese". Salvo il fatto che questo Stato palestinese sarà in zone molto
precise, in un'area di un po' meno della metà della Cisgiordania e di un po'
più del 65% della Striscia di Gaza. Lo Stato palestinese sì, ma a
determinate condizioni: che si limiti alle "enclaves" che, esattamente, il
muro sta cercando di delimitare. Questo muro sta seguendo le linee di quello
che Sharon e il suo governo sono disposti a riconoscere come uno Stato
palestinese, o piuttosto come "enclaves" di quest'ultimo.
Esse saranno separate fra loro, dei veri e propri bantustan. Sharon usa il
nome di cantoni ed è disposto a prevedere ponti o tunnel per collegarle,
entro uno spazio israeliano.
Evidentemente, non vi sarebbe alcun controllo palestinese sulle frontiere,
sulle risorse naturali, soprattutto sull'acqua, sugli spostamenti tra queste
zone, e tutto sarebbe gestito e controllato da Israele. Ai palestinesi
rimarrebbe il diritto di gestire la rete stradale e l'istruzione. Così come
lo ha tracciato il governo, il muro non punta a separare Israele dalla
Cisgiordania, ma a separare la popolazione israeliana dalle zone con
popolazione palestinese. Si tratta di un piano folle, che non ha alcuna
probabilità di ottenere il consenso del più moderato dei moderati
palestinesi.
Sono tre anni che si cercano palestinesi "pragmatici", cioè dei
collaborazionisti disposti ad accettare questa formula e a gestire i
bantustan. Nessuno risponde "Presente".
Ormai tutti sanno che una squadra del genere non esiste. Il popolo
palestinese non è ancora disponibile ad accettare questi bantustan. Non
basta costruire un muro, ma occorrerebbe anche ottenere la completa
capitolazione dei palestinesi. Vogliono che i palestinesi alzino le braccia
e dicano: "Ok, tutto quello che volete, ma lasciateci in pace". Dopo tre
anni di repressione senza precedenti, migliaia di morti, decine di migliaia
di invalidi, migliaia di prigionieri e di distruzioni di cui è impossibile
fare l'elenco, è chiaro però che la popolazione palestinese di Cisgiordania
e Gaza, che ha pagato un prezzo enorme, non si è mossa di un millimetro
dalle proprie rivendicazioni. Ed impedisce che emerga un eventuale gruppo di
collaborazionisti.
Per instaurare i bantustan occorre per questi una polizia, un governo. Il
livello di resistenza dei palestinesi, pur non essendo sufficiente a imporre
una soluzione che consenta loro di recuperare i propri diritti (la
sovranità, l'indipendenza, il controllo del territorio sul 22% della loro
patria), lo è però per impedire la realizzazione di questi piani. È infatti
tutto quello che chiedono: meno di un quarto di quella che era storicamente
la loro patria storica, meno della metà di quello che l'Onu aveva accordato
loro nel 1947. Essi dicono: "Dateci questo, ci basterà. Non sarà tanto
giusto, ma ci accontenteremo".
La popolazione palestinese dice unanime: "È l'ultima offerta da parte
nostra, ed è estremamente generosa". Ed è una proposta molto generosa, ben
più di quella di Ehud Barak a Camp David. I palestinesi gli hanno dato il
nome di compromesso storico. Di meno, non sarebbero disposti ad accettare.
In Palestina ci sono 4 milioni di palestinesi: 1 milione nella Striscia di
Gaza, 2 in Cisgiordania e 1 in Israele, anche con cittadinanza israeliana.
Il numero dei profughi si valuta sui 4 milioni.

Pacificazione

Non solo il muro è costruito in modo unilaterale, ma consente inoltre, dal
punto di vista israeliano, di instaurare il nuovo ordine di Israele. Per
farlo, bisogna infatti ottenere la capitolazione dei palestinesi. Si tratta
di una guerra di "pacificazione". Si sbaglia a parlare di guerra
"israeliano-palestinese". Una "guerra" presuppone eserciti che si scontrano.
I più anziani dovrebbero ricordarsi dell'Algeria o del Vietnam. Una campagna
di "pacificazione" è l'impiego massiccio di un esercito per imporre a una
popolazione civile la capitolazione. Significa separare con la forza una
popolazione civile dal suo movimento di liberazione nazionale e
dall'aspirazione ad essere nazione. Nonostante tutti i tentativi, tutta la
violenza messa in atto, la pacificazione è fallita. I palestinesi sono molto
stanchi, provati dalla repressione, ma ben lungi dal capitolare.

La "Road Map"

La "Road Map" è una decisione americana, che parte dal presupposto che sia
impossibile in questo momento imporre ai palestinesi una soluzione con la
forza. Ogni volta, l'esercito israeliano ha affermato: "Dateci altri due
mesi, e li spezziamo" (come qualsiasi esercito coloniale, del resto), poi
"ancora due mesi", e alla fine, l'amministrazione americana ha detto: "Non
riuscirete a spezzarli, bisogna tornare al tavolo dei negoziati". Posso dire
in partenza che questa "Road Map" fallirà, soprattutto per responsabilità
del governo israeliano, parte del quale vuole soltanto una soluzione
militare.
Una parte rilevante dell'opinione pubblica israeliana è stanca di questa
guerra, e vuole una soluzione politica. Così, si provocano attentati, che
interrompono la tregua e giustificano una nuova fase di repressione
israeliana. Lo dico con chiarezza: gli attentati sono cinicamente provocati
dall'esercito israeliano. Ogni volta che c'è un cessate il fuoco, una tregua
o una trattativa per una tregua, come per caso c'è un assassinio mirato di
qualche dirigente palestinese e c'è naturalmente la rappresaglia
palestinese.
Spesso, i palestinesi aspettano due attentati prima di agire. Gli israeliani
sanno che prima o poi reagiranno con un attentato sanguinoso a Tel Aviv o a
Gerusalemme: E allora dicono: "Vedete che non rispettano la tregua? Torniamo
alla soluzione militare, la pace è impossibile".

L'espulsione (il "transfert")

Il trasferimento, che consiste nello sbarazzarsi dei palestinesi, è un
vecchio piano, una specie di fantasma che punta a farli sparire. Rabin aveva
detto "ho sognato lo sprofondamento di Gaza in mare"... Il sogno è che un
giorno 1 milione di palestinesi spariscano dalla Palestina. Per altri, si
tratta di un progetto politico.
Nel governo Sharon, ci sono ministri che appartengono a partiti
dichiaratamente pro-transfert, vale a dire: un'altra espulsione dei o di
palestinesi dal loro paese, siano essi cittadini israeliani o residenti di
Cisgiordania e Gaza. Non credo che la politica dell'attuale governo, di cui
Sharon rappresenta l'ala moderata, sia favorevole a questo, perché sarebbe
rischioso. È ciò che gli americani gli hanno fatto capire al momento della
crisi precedente della Guerra del Golfo, al momento dell'attacco all'Iraq.
Si è creduto che questo avrebbe creato le condizioni per un'ondata di
epurazione etnica, un concentramento di popolazione, di pulizia della zona
C, del 50% di quello che Sharon considera la rimanente zona di
colonizzazione, e il raggruppamento del resto nell'altro 50%.
L'idea rimane, i piani ci sono, ma si aspetta l'occasione propizia.
Personalmente, dubito che questa occasione si presenti in un prossimo
futuro, perché, per questo, mai le circostanze sono state così favorevoli
come al momento della guerra contro l'Iraq e, credetemi, più di un ministro
ci ha lavorato sopra. Erano pronti piani dell'esercito. Il veto americano in
proposito è stato chiaro.
L'altro progetto è il cosiddetto "transfert volontario", che cioè i
palestinesi "se ne vadano da soli". Si porta avanti una politica di
pressione, con durissime condizioni di sicurezza, una politica economica
catastrofica, per indurli ad andarsene.
Nella zona di Betlemme, se ne sono andati negli ultimi anni 100-150.000
palestinesi, molti dei quali cristiani, perché per loro è più facile, avendo
parenti in Occidente, avendo imparato lingue straniere nelle scuole
cattoliche o protestanti. Tra chi se ne è andato ci sono parecchi quadri,
dirigenti di associazioni, capi d'azienda, e questo comporta un
impoverimento della società.

Il diritto al ritorno

C'è un mito proposto dalla propaganda israeliana, e sulla stampa europea. I
nostri principali intellettuali israeliani hanno scritto della brutta
sorpresa dei negoziatori israeliani, quando Yasser Arafat ha tirato fuori
dal cappello "il diritto al ritorno" al momento dei negoziati. Si tratta di
una bugia, perché questo era già previsto negli accordi di Oslo. Non vi è
mai stata una dichiarazione palestinese in cui ci si sia dimenticati della
rivendicazione del diritto al ritorno. Il resto è solo un marchingegno
propagandistico.
I pacifisti o i moderati israeliani si sono convinti che i palestinesi vi
avessero rinunciato e hanno detto quindi alla destra israeliana: "voi
rinunciate alle colonie, e li faremo rinunciare al diritto al ritorno". Per
cinque anni si è svolta una trattativa tra la sinistra e la destra
israeliana su "fino a che punto si poteva arrivare".
Per i palestinesi è impossibile rinunciare a questa rivendicazione. Non è
ancora nato il dirigente palestinese che possa rinunciare al diritto al
ritorno. È pericoloso fare compromessi respinti in massa dall'opinione
pubblica palestinese. Il movimento nazionale palestinese non può accettarli,
perché si tratta, appunto, della capitolazione che gli altri vorrebbero.

Demografia?

Uno dei nostri compiti è quello di rieducare la popolazione israeliana sulla
questione demografica. La sostanza della concezione sionista è la normalità,
l'egemonia. Uno Stato normale è quello in cui si ritrova un'etnia, una
religione, in cui la maggioranza rifiuta le minoranze come un corpo
estraneo. È la ragione per cui, nel sionismo, il razzismo e l'antisemitismo
sono fenomeni naturali. Il sionismo ne ricava le conseguenze: come minoranza
ebraica nell'Europa cristiana, si opera l'autoepurazione etnica, "meglio
andarsene prima che ci buttino a mare", cercando di creare un posto dove ci
siamo soltanto noi.
L'epurazione etnica va sempre insieme alla demografia. L'unica normalità è:
"noi a casa nostra, voi a casa vostra", ed è lo slogan della sinistra
israeliana. In Francia, è quello di Le Pen; in Israele quello di Barak.
Basta vedere, in Israele, come sono trattati i lavoratori immigrati: sono
400-500.000 e si continua a non vederli. Non li si vuole accettare perché si
è uno Stato ebraico. Stato etico significa anche il più etnicamente puro
possibile, significa "soglia di tolleranza", concetto noto anche in Francia.
Bisogna affrontare il problema.
Vivere ossessionato dal ventre della mia vicina araba, che fa troppi figli,
e da quello della vicina ebrea, che non ne fa abbastanza, non è vita ma
pazzia furiosa. Lo ha detto Golda Meir:"Non dormo la notte pensando a ogni
bambino arabo che nasce". Se gli israeliani rifiutano il diritto al ritorno
è per paura di ritrovarsi minoritari e quindi dicono: diritto al ritorno
uguale distruzione dello Stato di Israele, uguale distruzione del popolo
ebraico. Salvo il fatto che questi signori si sbagliano.
Supponiamo che non rientri alcun profugo. Di qui a una quindicina di anni,
gli ebrei sarebbero comunque minoranza, stando ai naturali ritmi di crescita
di ciascuna comunità.
In Israele vi è un 20% di cittadini provenienti dalla "ex-Urss", oltre la
metà dei quali non sono ebrei; e questo fa già: 10% + 20% di arabi + 7% di
lavoratori immigrati, vale a dire già un 37% di non ebrei, che è ben oltre
la "soglia di tolleranza".
Non si può pensare la questione nazionale in termini demografici. Il solo
modo per esistere è riconoscere la pluralità. Il solo modo per garantire
un'esistenza nazionale consiste nel riconoscere diritti nazionali a ciascuna
comunità in varie forme (ad esempio, il modello svizzero o jugoslavo).
Altrimenti, si arriverà ogni volta a una nuova ondata di epurazione etnica.
Appena superato il 35%: fuori!

Le azioni armate in Israele

Su questo c'è già un grosso dibattito, e fra gli stessi palestinesi c'è una
pluralità di posizioni. Si tratta di un dibattito pubblico assolutamente
libero.
La prima discussione riguarda gli "attentati suicidi". Una grande
percentuale di palestinesi è contraria, per svariati motivi. Alcuni dicono:
"Ci sono determinate cose che non si fanno, non tutto è lecito in una lotta
giusta. Ci sono mezzi che sono inaccettabili". Altri respingono gli
attentati contro i civili perché "Compattano la santa alleanza intorno a
Israele, screditando la causa palestinese agli occhi dell'opinione pubblica
internazionale". Altri ancora pensano alla società palestinese di domani e
dicono: "non è accettabile moralmente, ma è anche criminale, perché provoca
deformazioni etiche, psichiche, della nostra società, di cui si pagherà il
prezzo fra vent'anni".
Fin d'ora, fra i palestinesi e gli israeliani, il rapporto con la morte è un
rapporto malato. È un errore pensare che rendendo la vita difficile agli
israeliani, la gente esploderà e dirà al governo: "Fate la pace, non se ne
può più". Era vero dieci anni fa, ora non più.
Si è riusciti a convincere la gente, ed è uno dei maggiori crimini di Ehud
Barak, che si trattava di una questione di sopravvivenza, che ci si sarebbe
trovati di fronte a un popolo il cui obiettivo non è l'indipendenza e la
sovranità nazionale, ma quello di distruggere noi israeliani. Si è entrati
in un clima di follia. Ormai gli attentati non colpiscono più, ci si è fatta
l'abitudine. Anziché vedere in essi un fallimento totale, diventano il
normale prezzo da pagare per sopravvivere.
Fra coloro che criticano, solo una minoranza ritiene che bisogna opporvisi,
essendo i più convinti che i palestinesi siano talmente provocati che le
risposte abbiano una spiegazione logica. Un attacco suicida ha sempre una
ragione, quando si è assistito all'umiliazione subita dalla propria
famiglia. Vi sono casi, e mi è capitato più di una volta, in cui si ha
voglia di farsi saltare in aria.
Una volta, a uno sbarramento a Gerusalemme, faceva un gran caldo. Per una
ragione sconosciuta, lo sbarramento era stato chiuso, e non si sapeva se lo
sarebbe stato per un'ora, un giorno o una settimana. Stavo tornando da
Ramallah (cosa che non ho il diritto di fare) e mi ritrovo bloccato.
Scorgiamo una coppia con un neonato, di appena due o tre giorni, che tornava
a casa dall'ospedale. Chiedo a una giornalista presente di intervenire
cortesemente, ma finisce per farsi respingere con urla. Intervengo io, e mi
respingono. In quel momento volevo uccidere il soldato, che non vedeva un
neonato ma un terrorista. Gli dicevo: "Guarda questo bambino!", ma non c'era
niente da fare. Gli israeliani sanno fin troppo bene che cosa si deve fare
per provocare attentati. Quando non ve ne sono più, sono costretti a
trattare. Chi si azzarda a criticare Israele quando si vedono in televisione
attentati sanguinosi?
Quello sugli "atti di resistenza non suicidi" è un altro dei dibattiti, che
riguarda soprattutto i palestinesi.
Le azioni militari sono del tutto legittime. Si ha il diritto di opporsi e
di resistere. Ma gli israeliani vogliono creare l'illusione di una guerra.
Non si tratta però di un conflitto armato. Se qualcuno riempie il
figlioletto di botte non si tratta di un incontro di pugilato, ma di
violenza su minori, punto e basta.
Si è arrivati a sminuire la dimensione dell'occupazione. Si crea l'illusione
di una equidistanza tra due campi, che bisognerebbe separare. Si tratta di
un'occupazione, con tutta la violenza propria di un'occupazione, di una
colonizzazione, di un popolo contro l'altro. E a volte l'altro risponde,
spesso con semplici pietre.
Michel Warschawski







La redazione di Bandiera Rossa News
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