Quelle bandiere



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Info: http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/15-Novembre-2003/art7.html


Quelle bandiere
GIULIETTO CHIESA
Non bisogna avere paura di dire l'avevamo detto. Il movimento contro la
guerra in Iraq è stato, in Italia, il più possente e insieme il più
diversificato. Ma tutte le motivazioni che l'hanno fatto grande
convergevano su alcune, fondamentali assunzioni: si trattava di una guerra
senza alcuna legittimazione; preventiva e quindi doppiamente illegale;
sbagliata perché pensata sull'ipotesi che fosse possibile esportare con la
forza valori e democrazia; inutile perché non avrebbe risolto alcun
problema, a cominciare dalla lotta contro il terrorismo; pericolosa perché
avrebbe aggravato quelli esistenti, in particolare moltiplicando i focolai
di terrorismo. Tutto ciò che era stato previsto si è, purtroppo,
verificato. Ed è tanto più triste constatarlo dopo che molti nostri soldati
sono caduti in combattimento. Poiché ciò dice che quei morti potevano
essere risparmiati.

Adesso coloro che sono responsabili diretti di quelle nostre morti cercano
canagliescamente di nascondere le loro responsabilità sotto una coltre di
retorica patriottica. Occorre invece riflettere con il massimo di sangue
freddo.

Riflettere significa aiutare la gente a non cadere nelle molteplici
trappole che molti media spargono a piene mani. La più insidiosa delle
quali è la tesi secondo cui tutto ciò che sta accadendo in Iraq, in queste
ore, sia terrorismo fondamentalista islamico importato dall'esterno, farina
del sacco di Bin Laden.

A parte il fatto che sostenere questa tesi equivale a riconoscere che gli
Usa hanno commesso un errore irreparabile, moltiplicando il pericolo
terrorista, occorre dire a gran voce che essa è comunque falsa. Ridurre
tutto a terrorismo fondamentalista significa fasciarsi occhi e orecchie e
illudersi che esso possa essere domato con un incremento di forza militare.

In realtà è evidente la presenza - accanto, insieme, intrecciata con il
terrorismo - di una potente, diffusa resistenza popolare contro le truppe
d'occupazione. Questo significa che un aumento della repressione sarà, per
un tempo imprevedibile, accompagnato da un incremento della reazione, cioè
da altro sangue, altro terrorismo, altre morti, irachene e straniere.
Sbagliare la valutazione significa sacrificare inutilmente altre vite.

Ritirarsi è dunque obbligatorio, anche perché il vuoto pauroso creato dalla
dissennata guerra statunitense non sarà certo colmato dalla presenza
italiana. Perfino il Giappone - che aveva promesso truppe - è tornato sulla
sua decisione. La Corea del sud riduce il contingente. L'India rifiuta, la
Turchia rifiuta. Russia, Germania e Francia restano fuori. Tutti vili?

In realtà tutti più o meno consapevoli che bisogna cambiare rotta, subito,
senza porre tempo in mezzo. Questo barlume di resipiscenza sta emergendo
perfino a Washington. Forse per ragioni elettorali, ma potremmo presto
trovarci di fronte a una abbandono anticipato del campo da parte perfino
degli Stati uniti. Anticipato significa ancor prima che una qualsiasi
soluzione di autogoverno iracheno sia stata messa in piedi.

S'impone una iniziativa politica che sia, in primo luogo, un messaggio
positivo al popolo iracheno stremato dalla dittatura, dall'embargo e dalla
guerra, le cui coordinate sono visibili fin d'ora e che dovrebbero essere
subito sperimentate: consegna alle Nazioni unite della responsabilità
politica; ritiro annunciato da subito e gradualmente eseguito di tutte le
truppe di occupazione; loro sostituzione graduale con le truppe di paesi
che non hanno preso parte all'aggressione militare anglo-americana;
progressivo inserimento di forze militari e di polizia dei paesi arabi e
musulmani.

Difficile? Difficilissimo. Se qualcuno ha soluzioni politiche più facili le
esponga.

Il movimento contro la guerra faccia sentire la sua voce. L'emozione e il
dolore, insieme alla campagna mediatica, insieme alle incertezze di
un'opposizione senza bussola, hanno modificato in senso negativo - inutile
nasconderselo - il panorama dell'opinione pubblica italiana. I sondaggi,
pur da prendere con le pinze, indicano un paese spaccato in due, dilaniato
tra l'ipotesi del ritiro e quella del proseguimento, senza destino e
prospettiva, di una presenza italiana in Iraq. Il governo - cieco come
prima - dichiara di voler procedere peggio di prima.

Prima che la guerra cominciasse, poi a guerra iniziata, abbiamo riempito il
paese di bandiere di pace. Molte sono rimaste - e giustamente - appese a
dimostrare che fu giusto metterle, perché la guerra non era affatto finita.
Chi le ha lasciate aveva ragione. Le lasci, anche se i loro colori si sono
stemperati. Chi le ha ritirate le riesponga. Chi non le aveva ancora messe
le tiri fuori. E' un messaggio visivo potente, razionale, solidale,
democratico. Moltiplichiamolo, nell'interesse della ragione e della pace.

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