da A Sinistra Brindisi



A SINISTRA - Movimento Politico Antiliberista - BRINDISI

L'eccidio di Nassiriya ha riproposto ciò che da molti era stato ampiamente
annunciato. Le cronache di questi giorni fanno rivivere invece un tipico
clima di guerra fatto di retorica e demagogia che impedisce di discutere e
capire.
Offriamo alla vostra riflessione due approfondimenti.
* Uno del nostro Michele Di Schiena, magistrato, animatore del movimento
per la pace qui a Brindisi.
* L'altro (per chi non l'avesse letto) di Giulietto Chiesa apparso su "il
Manifesto" di ieri 15 novembre.
Troverete molti spunti comuni e, qualora li riterrete utili, diffondeteli
ancora ai vostri indirizzari per contribuire a creare una cultura
alternativa e di controinformazione.

Utilizzo la spedizione per inviare anche, a chi di voi è interessato allo
smantellamento della sanità pubblica, un articolo del nostro Maurizio
Portaluri (primario di Radioterapia Oncologica presso il Perrino di
Brindisi) ed esponente di Medicina Democratica.
Anche in questo caso se riterrete condivisibile l'argomento diffondete.
Giancarlo Canuto - A Sinistra - Brindisi

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preghiamo di accettare le nostre più sincere scuse se la presente non è di
Suo interesse. A norma della Legge 675/96 questo messaggio non può essere
considerato SPAM poiché include la possibilità di essere rimosso da
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ulteriori comunicazioni la preghiamo di inviare una risposta all'indirizzo
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SANGUE ITALIANO IN IRAQ
di Michele DI SCHIENA
   In Iraq continua a scorrere sangue e questa volta è stato sangue
italiano, quello dei carabinieri e dei militari uccisi da un ennesimo
attacco terroristico cinico e spietato. E' sangue di uomini innocenti del
tutto estranei alle responsabilità per le drammatiche vicende che stanno
sconvolgendo quel martoriato Paese, è sangue di modesti ed onesti
lavoratori che si guadagnavano il pane facendo un lavoro durissimo, è
sangue di cittadini meritevoli che avevano messo le proprie energie e le
proprie professionalità al servizio delle istituzioni per tutelare l'ordine
pubblico interno contro ogni illegalità e la sicurezza nazionale contro il
pericolo di aggressioni esterne.
   L'attacco mortale ai nostri militari in terra irachena è dunque una
immane tragedia, un terribile evento che il governo aveva previsto e del
quale aveva disinvoltamente accettato il rischio, come testimoniano certe
preoccupanti dichiarazioni ministeriali che purtroppo non avevano turbato
più di tanto questo frastornato e talvolta distratto Paese. Ma è anche una
tragedia che si poteva evitare come sono state evitate sciagure del genere
da parte di grandi paesi europei che a suo tempo avevano dissentito dalla
decisione statunitense di occupare l'Iraq e che oggi coerentemente
rifiutano di inviare contingenti armati in quell'area dove si continua a
combattere in forme mutate una guerra che in pratica non ha avuto mai
termine. Ed allora abbruniamo i pensieri, i sentimenti e le speranze di
questa nostra quotidiana vicenda per segnare a lutto, specialmente dentro
di noi, questi giorni di afflizione e di mestizia.
   Questo non è certo il momento delle retoriche patriottarde, dei proclami
salva-coscienza, delle solenni dichiarazioni piene di nulla, dei logori
riti di ufficiale cordoglio e, meno che mai, dello spregiudicato tentativo
di convertire l'angoscia per l'eccidio in orgoglio nazionale col recondito
intento di utilizzare quel sangue tragicamente versato come titolo
redditizio da spendere nei rapporti con gli altri paesi occidentali e
soprattutto col "grande fratello" americano. E' l'ora invece del dolore,
della pietà, della solidarietà, della preghiera, della riflessione e di un
rinnovato impegno contro tutte le violenze, tutti i terrorismi e tutte le
guerre. Ed è anche l'ora dell'unità ma solo per stringersi con sentimenti
di solidarietà e di condivisione intorno alle famiglie delle vittime, ai
carabinieri, alle forze armate e allo Stato repubblicano come disegnato
dalla Costituzione che lo fonda sul lavoro e ripudia la guerra. Non ci si
può stringere invece intorno ad un governo che a suo tempo si è schierato a
favore della guerra americana in Iraq ed oggi continua a sostenerla con
l'invio in quel Paese di contingenti armati. Una guerra condannata dalla
stragrande maggioranza dell'opinione pubblica mondiale, dalla maggior parte
dei popoli e dei governi e dalle più autorevoli cattedre religiose e morali.
   No, con buona pace di chi suona il silenzio per addormentare la nostra
democrazia, non è possibile tacere e perciò va detto a chiare lettere che
il governo deve rispondere della sua errata politica estera, lontana dallo
spirito costituzionale, docile oltre ogni misura ai voleri e agli ordini
statunitensi e dannosa per gli interessi nazionali ed europei. L'eccidio di
Nassiriya chiama in causa le responsabilità di questo governo e di questa
maggioranza ma fa anche carico all'opposizione non solo del dovere di
denunciare l'inadeguatezza delle scelte berlusconiane sul versante della
politica militare ma anche del dovere di chiedere con ogni determinazione
l'immediato ritiro delle nostre truppe dall'Iraq. E a questo riguardo non
può sfuggire che solo un esasperato politicismo ed una distorta concezione
del prestigio nazionale, hanno potuto far dire a qualche autorevole
esponente del centrosinistra che la missione militare in Iraq, ritenuta
all'atto dell'invio delle truppe sbagliata ed ingiusta, debba essere oggi,
dopo la strage di Nassiriya, mantenuta e portata avanti quasi che l'eccidio
l'avesse a posteriori, chissà come, emendata e resa giusta.
   Ma l'auspicio di chi si oppone alle guerre e ai terrorismi è che torni
in campo, più forte di prima, quel movimento per la pace che aveva messo a
nudo l'iniquità e la pericolosità della guerra irachena. Una guerra
motivata in un primo momento con l'indimostrato possesso da parte di Saddam
Hussein di armi di distruzione di massa e successivamente giustificata con
la lotta al terrorismo, obiettivo questo clamorosamente fallito dal momento
che l'intervento armato invece di abbattere o almeno fiaccare i gruppi
terroristici, li ha favoriti e rafforzati facendoli incontrare con la
guerriglia ed aprendo nuovi spazi alle loro micidiali incursioni. E poi,
come non rilevare che la presenza dei militari italiani in Iraq c'entra
come i cavoli a merenda con la lotta al terrorismo che in questi giorni
viene ossessivamente evocata a copertura degli errori commessi e peraltro
teorizzata in termini marcatamente sbagliati perché il terrorismo - come i
fatti dimostrano - non si sconfigge con operazioni e missioni belliche ma
combattendo la miseria e l'ingiustizia e facendo ricorso non a missili e
bombe ma a servizi di investigazione veramente intelligenti e a misure di
polizia internazionale adeguatamente coordinate.
   Di fronte a questi terribili scenari di violenza e di terrore, l'unità
di coloro che vogliono impedire il ripetersi di eccidi e di disastri va
costruita intorno a quella "superpotenza" disarmata che mesi addietro aveva
scosso i palazzi del potere politico e le fortezze dei comandi militari,
quel movimento che oggi deve tornare a percorrere, sotto le bandiere della
non violenza, le vie del nostro Paese e di tutto il mondo per gridare le
ragioni della giustizia e della pace contro la disumanità degli
sfruttamenti, delle guerre e dei terrorismi le cui vittime predestinate
sono sempre i poveri e gli esclusi, siano essi in divisa o in abito civile.
   Brindisi, 14 novembre 2003



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QUELLE BANDIERE
di GIULIETTO CHIESA

   Non bisogna avere paura di dire l'avevamo detto. Il movimento contro la
guerra in Iraq è stato, in Italia, il più possente e insieme il più
diversificato. Ma tutte le motivazioni che l'hanno fatto grande
convergevano su alcune, fondamentali assunzioni: si trattava di una guerra
senza alcuna legittimazione; preventiva e quindi doppiamente illegale;
sbagliata perché pensata sull'ipotesi che fosse possibile esportare con la
forza valori e democrazia; inutile perché non avrebbe risolto alcun
problema, a cominciare dalla lotta contro il terrorismo; pericolosa perché
avrebbe aggravato quelli esistenti, in particolare moltiplicando i focolai
di terrorismo. Tutto ciò che era stato previsto si è, purtroppo,
verificato. Ed è tanto più triste constatarlo dopo che molti nostri soldati
sono caduti in combattimento. Poiché ciò dice che quei morti potevano
essere risparmiati.
   Adesso coloro che sono responsabili diretti di quelle nostre morti
cercano canagliescamente di nascondere le loro responsabilità sotto una
coltre di retorica patriottica. Occorre invece riflettere con il massimo di
sangue freddo.
   Riflettere significa aiutare la gente a non cadere nelle molteplici
trappole che molti media spargono a piene mani. La più insidiosa delle
quali è la tesi secondo cui tutto ciò che sta accadendo in Iraq, in queste
ore, sia terrorismo fondamentalista islamico importato dall'esterno, farina
del sacco di Bin Laden.
   A parte il fatto che sostenere questa tesi equivale a riconoscere che
gli Usa hanno commesso un errore irreparabile, moltiplicando il pericolo
terrorista, occorre dire a gran voce che essa è comunque falsa. Ridurre
tutto a terrorismo fondamentalista significa fasciarsi occhi e orecchie e
illudersi che esso possa essere domato con un incremento di forza militare.
   In realtà è evidente la presenza - accanto, insieme, intrecciata con il
terrorismo - di una potente, diffusa resistenza popolare contro le truppe
d'occupazione. Questo significa che un aumento della repressione sarà, per
un tempo imprevedibile, accompagnato da un incremento della reazione, cioè
da altro sangue, altro terrorismo, altre morti, irachene e straniere.
Sbagliare la valutazione significa sacrificare inutilmente altre vite.
   Ritirarsi è dunque obbligatorio, anche perché il vuoto pauroso creato
dalla dissennata guerra statunitense non sarà certo colmato dalla presenza
italiana. Perfino il Giappone - che aveva promesso truppe - è tornato sulla
sua decisione. La Corea del sud riduce il contingente. L'India rifiuta, la
Turchia rifiuta. Russia, Germania e Francia restano fuori. Tutti vili?
   In realtà tutti più o meno consapevoli che bisogna cambiare rotta,
subito, senza porre tempo in mezzo. Questo barlume di resipiscenza sta
emergendo perfino a Washington. Forse per ragioni elettorali, ma potremmo
presto trovarci di fronte a una abbandono anticipato del campo da parte
perfino degli Stati uniti. Anticipato significa ancor prima che una
qualsiasi soluzione di autogoverno iracheno sia stata messa in piedi.
   S'impone una iniziativa politica che sia, in primo luogo, un messaggio
positivo al popolo iracheno stremato dalla dittatura, dall'embargo e dalla
guerra, le cui coordinate sono visibili fin d'ora e che dovrebbero essere
subito sperimentate: consegna alle Nazioni unite della responsabilità
politica; ritiro annunciato da subito e gradualmente eseguito di tutte le
truppe di occupazione; loro sostituzione graduale con le truppe di paesi
che non hanno preso parte all'aggressione militare anglo-americana;
progressivo inserimento di forze militari e di polizia dei paesi arabi e
musulmani.
   Difficile? Difficilissimo. Se qualcuno ha soluzioni politiche più facili
le esponga.
   Il movimento contro la guerra faccia sentire la sua voce. L'emozione e
il dolore, insieme alla campagna mediatica, insieme alle incertezze di
un'opposizione senza bussola, hanno modificato in senso negativo - inutile
nasconderselo - il panorama dell'opinione pubblica italiana. I sondaggi,
pur da prendere con le pinze, indicano un paese spaccato in due, dilaniato
tra l'ipotesi del ritiro e quella del proseguimento, senza destino e
prospettiva, di una presenza italiana in Iraq. Il governo - cieco come
prima - dichiara di voler procedere peggio di prima.
   Prima che la guerra cominciasse, poi a guerra iniziata, abbiamo riempito
il paese di bandiere di pace. Molte sono rimaste - e giustamente - appese a
dimostrare che fu giusto metterle, perché la guerra non era affatto finita.
Chi le ha lasciate aveva ragione. Le lasci, anche se i loro colori si sono
stemperati. Chi le ha ritirate le riesponga. Chi non le aveva ancora messe
le tiri fuori. E' un messaggio visivo potente, razionale, solidale,
democratico. Moltiplichiamolo, nell'interesse della ragione e della pace.


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MA CHI DIFENDE LA SANITA' PUBBLICA?
di Maurizio Portaluri -  Medina Democratica

   Dobbiamo accettare l'invito provocatorio, che Piero Quarta Colosso ha
rivolto ai pugliesi dal Quotidiano del 12 novembre, ad andare a Rozzano per
farci curare presso l'Istituto privato accreditato "Humanitas"? Sicuramente
al famoso medico ed imprenditore sanitario leccese oltre alle
"scintillanti" apparecchiature non saranno sfuggiti tanti nostri
corregionali che nelle ampie sale di attesa e nelle confortevoli camere del
moderno e prestigioso Istituto venivano ospitati per effettuare esami e per
ricevere cure, e non da oggi.
   Apprezzo molto che un imprenditore privato della sanità esponga in
pubblico i problemi che ostacolano il pieno svolgimento della sua attività
in un settore che ha così immediate conseguenze per un bene prezioso come
la salute individuale e collettiva. Egli potrebbe più facilmente cedere
alla tentazione di cercare soluzioni in conciliaboli politici e
amministrativi. Ma il metodo da lui adottato, il parlarne in piazza, è
quello che alla lunga produce le trasformazioni sperate perché aumenta le
conoscenze della gente comune e fa crescere la coscienza pubblica. Per
questo il suo intervento mi sembra un'occasione che non ci si può
permettere di far cadere.
   Non credo però che - come egli scrive - "nella nostra regione ogni legge
sanitaria è fatta apposta per privilegiare la sopravvivenza delle strutture
pubbliche". La politica sanitaria regionale, dal 2000 ad oggi, ha mirato -
a parere di chi scrive - prevalentemente al pareggio di bilancio e solo
secondariamente al raggiungimento di obiettivi di salute. In questo quadro
non si sono potuti realizzare, né nel pubblico né nel privato, i necessari
rinnovamenti e potenziamenti delle tecnologie biomediche e quindi non si è
contrastata la migrazione sanitaria.
   Ma torniamo per un attimo a Rozzano. E' vero, la Regione Lombardia ha
accreditato tutte le strutture private. Per questo il cittadino lombardo
può curarsi dove vuole e le strutture sanitarie private possono ricevere il
rimborso di tutte le prestazioni erogate mentre le strutture sanitarie
pugliesi devono rispettare il "tetto" massimo di attività rimborsabile dal
servizio sanitario regionale a causa del quale, da tre anni a questa parte,
chi si ammala in autunno o si paga gli esami diagnostici o aspetta.
L'accreditamento "universale" realizzato in Lombardia ha però prodotto un
forte deficit che viene ripianato con una piccola addizionale IRPEF in
grado, da sola, di generare un'enorme prelievo fiscale  considerato
l'elevato reddito medio di quella regione. Lì, in altri termini, sono più
ricchi e si pagano una sanità migliore anche con quella quota di fondo
sanitario pugliese che i nostri ammalati sono costretti a trasferire  in
Lombardia per curarsi. E' quindi proprio la concorrenza e la legge del
libero mercato di cui si lamenta l'assenza in Puglia che, applicata a
livello mondiale e nazionale anche in sanità, accresce l'arretratezza
nostra e di tutte le aree più povere nel paese e nel mondo. Per questo era
giusto controllare la spesa sanitaria nella nostra regione ma senza frenare
lo sviluppo delle strutture carenti. Questi tre anni di "blocchi" hanno
ripianato i conti ma hanno anche accresciuto i ritardi.
   Ma la sanità non è fatta solo di tecnologie bensì anche di operatori. E
a questo riguardo come medico del servizio sanitario regionale devo
ammettere che il servizio pubblico può e deve fare di più. Questo auspicio
risulta anche da un recente documento regionale sull'utilizzo proprio delle
risonanze magnetiche - che Quarta Colosso vorrebbe installare in numero
maggiore se solo avesse la certezza di vedere giustamente rimborsato il suo
lavoro - da cui risulta che l'attuale dotazione di apparecchiature sarebbe
sufficiente in rapporto alla popolazione ma quelle pubbliche non sarebbero
pienamente utilizzate. Non affronto qui il problema se tutte le richieste
di esami con risonanza magnetica siano scientificamente giustificate, ma
ammettendo che lo siano, molte di più se ne potrebbero soddisfare nelle
strutture pubbliche. Perché ciò non avviene? Lo stesso rapporto dichiara
che il personale non sarebbe sufficiente. Ma non stiamo facendo il riordino
ospedaliero anche per risolvere questo problema? A me sembra che sinora
l'attuazione del piano stia procedendo "manu militare" quando si tratta di
chiudere servizi e reparti ma si arresta quando si devono trasferire dove
vi è urgente necessità infermieri e tecnici, i veri "volani"
dell'assistenza sanitaria. Interessi di campanile e difese corporative si
intrecciano e strangolano le esigenze sanitarie della popolazione. Ma non
difende il posto di lavoro, proprio e dei propri figli, e tanto meno la
ricchezza di questa regione quel lavoratore della sanità che, per non
allontanarsi di qualche chilometro da casa sua, ostacola lo sviluppo del
servizio sanitario pubblico costringendo indirettamente la nostra gente a
recarsi presso i tanti "Rozzano" dei suoi calvari per curarsi, arricchendo
così le strutture sanitarie e le regioni del nord e impoverendo ancora di
più quelle meridionali, sia pubbliche che private.

Brindisi, 13 novembre 2003