QUALE LOTTA AL TERRORISMO?



QUALE LOTTA AL TERRORISMO?



Uccisioni e massacri in Palestina ed in Israele, guerriglia e terrorismo in
Iraq ed in Afghanistan, attentati dinamitardi in varie parti del mondo,
americani che continuano a morire nei territori occupati ed americani che
vivono con terrore sul suolo patrio dove è peraltro in atto una progressiva
compressione di diritti civili e garanzie democratiche che sembravano
conquiste definitivamente acquisite, crescente insicurezza in Europa,
indebolimento del Consiglio di Sicurezza dell'ONU chiamato in causa solo
per avallare una guerra non condivisa con l'invio di contingenti militari
sotto comando statunitense in aperta violazione dello Statuto delle Nazioni
Unite: una stagione veramente disastrosa resa ancora più cupa da una crisi
dell'economia chiaramente strutturale che sta aggravando squilibri e
povertà nell'intero pianeta.

Come si fa a non capire che il terrorismo islamico non è vincibile con le
guerre e le repressioni indiscriminate perché è sostenuto da un massiccio
consenso di popolazioni povere e disperate che lo considerano il solo
strumento di lotta capace di contrastare efficacemente la soverchiante
forza bellica dei loro nemici? Come non convincersi che la via maestra per
combattere il terrorismo è quella, insieme ad intelligenti misure di
investigazione e di sicurezza, di isolarlo eliminando le ragioni che
alimentano il seguito di cui gode? Come è possibile non rendersi conto che
tale consenso trae origine, ben oltre i confini del fondamentalismo
religioso, dalla radicata e diffusa determinazione del mondo
arabo-musulmano di opporsi agli asservimenti economici prodotti dalla
globalizzazione neoliberista e ai tentativi di omologazione al modello di
vita e di convivenza dominante in Occidente? Quale nefasta cortina fumogena
impedisce a Bush ed ai suoi servizievoli "amici" di vedere nell'islamismo
una civiltà con precisi e forti caratteri non solo religiosi ma anche
culturali, sociali e politici e, come tale, non addomesticabile col ricorso
a strumenti di pressione economica e militare che possono avere una logica,
per quanto discutibile, solo nei rapporti tra stati? E quale ottusità
politica può far ritenere alla Casa Bianca che la "sua" democrazia sia
esportabile in Iraq con bombe e carri armati e far pensare ad Israele di
poter stroncare la resistenza palestinese con l'espulsione di Arafat e con
raid missilistici che seminano distruzione e morte per uccidere questo o
quel capo delle tante organizzazioni terroristiche?

Snobbando autorevoli avvertimenti ricevuti prima delle ultime guerre,
disattendendo le pressioni del grande movimento internazionale per la pace
e la tutela dei diritti umani ed ignorando l'eloquenza dei fatti che ogni
giorno denuncia l'enormità degli errori commessi, Bush continua a camminare
per la malinconica strada intrapresa portando avanti una politica contro il
terrorismo che in realtà lo rafforza, intessuta come è di patriottarde ed
irritanti esibizioni di muscoli, di arroganti pressioni politiche, di più o
meno velati ricatti economici e di minacce di nuove guerre che si
annunciano disastrose e controproducenti come lo sono state quelle già
sperimentate che sono servite solo ad insediare nei territori occupati
governi-fantoccio squalificati e fallimentari.

Di fronte a questo desolante scenario nessun governo occidentale, neppure
tra quelli contrari all'intervento militare in Iraq, che sostenga la
necessità e l'urgenza di un intervento [doveroso a termini di statuto] del
Consiglio di Sicurezza dell'ONU con l'invio in Palestina di una forza di
interposizione per fermare il reciproco massacro, nessun governo che chieda
il ritiro delle forze occupanti dall'Iraq con la gestione da parte dell'ONU
dell'attuale fase di transizione verso un governo realmente scelto dal
popolo iracheno, nessuna aperta critica all'impianto della politica estera
americana e nessuna proposta di segno alternativo. Certo, in Europa insieme
ai vassallaggi di Berlusconi e di Aznar vi sono anche riserve e dissensi
sulla politica statunitense ma tutti allo stato latente o coperti tra una
spessa coltre di prudenza ed affievoliti da diffusi timori reverenziali. E'
l'eterno destino dei poteri imperiali che si fanno contro ogni buon senso
verità e legge, che condizionano ed intimoriscono le voci critiche, che
sbagliano e perseverano nell'errore per non contraddire se stessi.

In una tale situazione non c'è dubbio che le forze più responsabili ed
avvertite presenti negli schieramenti partitici del nostro come degli altri
paesi occidentali vanno incoraggiate e sostenute per correggere il
correggibile e per preparare una svolta radicale, non certo a portata di
mano, in direzione della "globalizzazione dei diritti", della solidarietà
sociale e della pace. Ma è di tutta evidenza che la politica partitica ed
istituzionale, nelle sue possibili espressioni maggioritarie, non può oggi
da sola operare la necessaria inversione di marcia perché fiaccata
dall'imperante cultura liberista nella tensione progettuale, sospinta verso
modelli e metodi avulsi dalla partecipazione democratica e fortemente
condizionata dal preponderante potere economico. Questa politica ha bisogno
di essere aiutata a ritrovare se stessa da quel movimento per la pace e per
i diritti umani che costituisce la vera novità e la grande speranza degli
ultimi anni. Quel movimento che sullo scenario internazionale sta
costruendo una "resistenza" disarmata agli arbitrii e alle ingiustizie e
che sta riproponendo i valori di solidarietà, di uguaglianza e di
democrazia: una democrazia "vera" e sostanziale che non può essere imposta
con la forza né esportata  con le armi ma va costruita giorno per giorno,
come diceva un grande "moderato" ed un grande artefice della nostra
ricostruzione postbellica, dentro di noi contro ogni istinto alla violenza
e fuori di noi col metodo costante della libertà.

Brindisi, 12 settembre 2003

Michele DI SCHIENA



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